
Allo stesso tempo, l’uso della stampa ha indotto gli scienziati a usare le riviste scientifiche come registri della priorità della scoperta. Connettere il nome di una o più persone a un testo scientifico, significa enfatizzare il valore della priorità. Come Robert Merton ha magistralmente spiegato, la spinta a vantare la priorità della scoperta attraverso la sua pubblicazione su testi a stampa costituisce un potente incentivo a condividere le idee. Lo scienziato non vanta una proprietà sulle idee, ma si aspetta solo un riconoscimento per aver aggiunto una tessera più o meno importante al puzzle infinito rappresentato dallo sviluppo della conoscenza. La scienza è dunque una mescolanza di concorrenza (a pubblicare per primi) e cooperazione (a controllare i testi pubblicati, a criticarli e a superarli con la pubblicazione di nuovi testi). La dialettica tra segretezza e pubblicità rimane – lo scienziato può decidere di mantenere riservati alcuni aspetti della ricerca – ma la spinta a condividere è oramai prevalente.
Anche quando gli scienziati vengono istituzionalizzati – ad esempio divengono parte delle università – non parlano come funzionari di una istituzione ma come uomini liberi e autonomi di una comunità globale. Per dirla con Kant, fanno uso pubblico della ragione. In Italia le pagine ipertestuali della filosofa politica Maria Chiara Pievatolo spiegano molto approfonditamente il legame che esiste tra la scienza aperta e il pensiero illuminista di Kant.
Tuttavia, la pubblicità della scienza attraverso la stampa a caratteri mobili stabilisce un nesso tra interessi della scienza e interessi commerciali degli editori. Nell’epoca della stampa gli scienziati avevano bisogno degli imprenditori del mercato dei libri per diffondere le proprie idee. Questo rimane un risvolto fondamentale del rapporto tra scienza e interessi commerciali. Sul piano del diritto d’autore mentre l’interesse dello scienziato è essenzialmente morale (il diritto alla paternità del testo scientifico), l’interesse dell’editore è commerciale e punta al controllo del numero delle copie in circolazione. Solo controllando la riproduzione in copia l’editore può trarre profitto. Mentre l’autore scientifico ha interesse a che siano in circolazione più copie possibili (perché non è interessato al guadagno economico), l’editore ha interesse a predeterminare il numero delle copie sul mercato, perché solo attraverso il controllo della riproduzione può ricavare denaro. È importante rilevare, sulla scia di Adrian Johns, che la pirateria delle riviste scientifiche già all’epoca della stampa a caratteri mobili ha consentito un più esteso accesso alla conoscenza.
Quali connotati peculiari assume tale conflitto nell’era digitale?
La tecnologia digitale offre straordinarie possibilità di potenziare la pubblicità dei risultati della ricerca scientifica. Di più Internet muta la natura del dialogo. Si pensi al Web e agli ipertesti. Mettere in Internet un testo scientifico non significa solo renderlo pubblico ma anche calarlo in una rete di connessioni (links) che moltiplicano le possibilità di sviluppo della conoscenza. Internet ha caratteristiche peculiari che la distinguono dall’oralità, dalla scrittura a mano e dalla stampa a caratteri mobili. In Internet la comunicazione della scienza si esprime in modalità molto differenti dal passato. Non a caso, nascono nuovi generi di comunicazione della scienza.
D’altra parte, le tecnologie digitali possono chiudere informazioni e dati. Si pensi alle misure tecnologiche di protezione come la crittografia. Le banche dati scientifiche ad accesso chiuso (cioè quelle accessibili solo mediante la stipulazione di un contratto e il pagamento di un prezzo) sono circondate da una fitta cortina di misure tecnologiche.
La chiusura dell’informazione scientifica su Internet costituisce un paradosso. Nel momento storico in cui gli scienziati e le istituzioni in cui lavorano (ad esempio, le università) non hanno più (o hanno meno) bisogno di intermediari commerciali per diffondere testi e dati scientifici (basta disporre uno spazio Web per comunicare con il mondo), la maggior parte delle pubblicazioni scientifiche si trova chiusa nelle costosissime banche dati commerciali.
Certo, l’Open Access e l’Open Science hanno fatto passi da gigante negli ultimi due decenni (ad esempio, molte pubblicazioni sono disponibili in Rete con licenze permissive come le Creative Commons), ma la logica della chiusura ha spostato la sua zona di influenza. Sempre più l’elaborazione dei dati su cui si basa la ricerca scientifica è affidata al calcolo automatico, cioè ad algoritmi e software. Attualmente va di moda riferirsi alla c.d. intelligenza artificiale, anche se spesso si abusa della parola “intelligenza”. Di sicuro l’automazione reclama sempre più spazio nella scienza. Questa tendenza andrebbe attentamente sottoposta ad analisi critica. Uno degli aspetti più rilevanti è l’accesso agli algoritmi che processano ed elaborano grandi quantità di dati, provenienti da molteplici fonti di diversa natura, per stabilire correlazioni (c.d. big data). Un altro aspetto molto importante è rappresentato dalla distribuzione su scala globale del potere computazionale. Internet era nata come una rete libera e democratica. Oggi gran parte di Internet è di fatto nelle mani di grandi potentati commerciali – le c.d. piattaforme come Google e Facebook – e agenzie statali di spionaggio. Google, ad esempio, non solo dispone di immense quantità di dati, ma soprattutto dispone della potenza di calcolo necessaria ad elaborarli. Siamo molto lontani da una democrazia compiuta.
Cosa significa “scienza aperta”?
Apertura significa nel suo primo significato pubblicità. Su Internet ha assunto anche il significato di abbassamento delle barriere economiche e giuridiche all’accesso all’informazione. Una pubblicazione scientifica in accesso aperto è un libro o un articolo o un’opera scientifica appartenente ad altro genere letterario che è disponibile al pubblico gratuitamente e con diritti di riuso (cioè è accompagnata da una licenza contrattuale come le licenze Creative Commons che consente la libera riproduzione, trasformazione e distribuzione dell’opera). Esiste poi un’apertura illegale, cioè basata su siti Internet che diffondono opere scientifiche in violazione dei diritti d’autore (si pensi al famoso sito Sci-Hub).
Ma nel libro “La rivoluzione incompiuta” ho provato ad argomentare, sulla scia di un’ampia letteratura, che apertura significa anche democrazia. La scienza è nella sua essenza un’istituzione democratica. E il suo carattere democratico è strettamente dipendente dalla pubblicità. Se il processo di costruzione della scienza si basa sul dialogo pubblico, sull’uso pubblico della ragione, e se tutti possono contribuire perché tutti possono esprimere idee sensate, allora appare evidente la connessione tra pubblicità (apertura) e democrazia.
L’accesso aperto può curare la crisi in cui versa la scienza?
La scienza è diventata sempre più rilevante nella società contemporanea. Ad esempio, lo storico israeliano Harari sostiene che la scienza abbia trasformato gli uomini in dei (dei, peraltro, che appaiono sempre più capricciosi, impauriti e violenti). Qualunque sia l’opinione rispetto alla trasformazione della natura umana, non si può dissentire sul fatto che la scienza rivesta un ruolo sempre più pervasivo nella nostra società.
Tuttavia, assistiamo anche alla diffusione di opinioni antiscientifiche (dal legame tra autismo e vaccini al terrapiattismo) e alla polarizzazione tra opinioni pro e contro teorie accreditate dalla scienza. Inoltre, la scienza è sempre più pervasa da logiche di accentramento del potere decisionale: per ragioni economiche e per ragioni politiche.
Si pensi al fatto che la comunicazione della scienza è in gran parte nelle mani di pochi potentati commerciali come i grandi editori (ora diventati imprese di analisi dei dati: ad esempio, Elsevier) o come le grandi piattaforme come Google.
Sul fronte del controllo politico, il dilagare della valutazione della performance (e l’assicurazione della qualità) ha concentrato il potere di orientare la scienza in capo a ristretti gruppi di burocrati. La mente corre alla grottesca vicenda italiana dell’ANVUR, l’agenzia ministeriale di valutazione che elabora astrusi algoritmi e indicatori al fine di mettere in concorrenza le università per spartirsi un piatto di lenticchie (è noto il sottofinanziamento della ricerca e dell’università italiane).
I giovani ricercatori sempre più in posizioni lavorative precarie sono spinti da incentivi perversi a pubblicare sempre di più e in fretta nonché a uniformarsi al pensiero dominante. La quantità prende il sopravvento sulla qualità. Le pressioni a frodare – ad esempio, plagiando o fabbricando dati falsi – il sistema aumentano. Si tratta di un circolo vizioso che rischia di alimentare le posizioni antiscientifiche già ampiamente diffuse.
Quali prospettive per il diritto d’autore e la proprietà intellettuale in ambito scientifico?
Il diritto d’autore accademico è frutto dell’interazione tra il diritto formalmente inteso (leggi e sentenze dei giudici), le norme sociali della comunità scientifica (norme informali che gli scienziati si danno spontaneamente) e la tecnologia (la stampa a caratteri mobili, Internet). Questa interazione rende possibile autonomia, libertà e responsabilità nel dialogo pubblico tra uomini pensanti. Oppure trasforma la scienza in proprietà intellettuale, cioè in merce di scambio. Nell’era contemporanea la tendenza a vedere nella scienza una merce come tutte le altre è molto forte. Se poi questa merce è rappresentata da dati da dare in pasto al calcolo automatico, marginalizzando il pensiero umano, allora si comprende che le sfide attuali sono molto complesse. Se si guarda all’evoluzione della legge sul diritto d’autore, ci si accorge che i margini di libertà della scienza appaiono sempre più ristretti. Il c.d. diritto d’autore è sempre meno un diritto degli autori e sempre più un diritto a uso e consumo di editori e altri intermediari commerciali.
Le prospettive di mantenere in vita il diritto d’autore come diritto a fare uso pubblico della ragione dell’uomo dipendono molto dalla capacità dalla generazione a cui appartengo di insegnare la centralità di questi temi e dalla sensibilità delle nuove generazioni di comprendere l’importanza del mantenimento di una scienza pubblica, aperta e democratica.
Roberto Caso è professore associato di Diritto privato comparato all’Università di Trento e co-direttore del Gruppo LawTech. È presidente dell’Associazione Italiana per la promozione della Scienza Aperta (AISA), e associate member del Centre for Intellectual Property Policy (CIPP) della McGill University (Montréal). Tra le sue pubblicazioni: Abuso di potere contrattuale e subfornitura industriale: modelli economici e regole giuridiche (Artimedia, 2000); Digital Rights Management. Il commercio delle informazioni digitali tra contratto e diritto d’autore (CEDAM, 2004)