
In che modo il diritto norma e regolamenta aspetti così intimi come il sesso e l’amore?
Interviene, interviene eccome: e non per un’indebita, o addirittura pruriginosa ingerenza in alcinu tra i nostri fatti personali più intimi, ma per le ripercussioni collettive enormi che le decisioni ad essi inerenti hanno, o possono avere a certe condizioni. Se la sessualità fosse un fatto esclusivamente individuale, difficilmente interesserebbe il diritto: ma la sessualità è anche e soprattutto relazione, con buona pace delle battute di Woody Allen sull’autoerotismo, ed è ben per questo, ed in questi limiti, che ha una sua consistenza giuridica, o almeno già solo per questo può averla (giacché non tutte le relazioni sono suscettibili di disciplina giuridica: si pensi all’amicizia, si pensi al rapporto con Dio; oppure si pensi ai rapporti che si esauriscono nella sfera emozionale, come quelli di compassione). Proprio perché la relazione sessuale non è solo sentimentale – non ha esclusiva portata emotiva, perché può arrivare alla generazione di figli se è tra persone di sesso diverso, e dunque produrre specifiche e corpose responsabilità – per questo essa ha una consistente rilevanza sociale, e di conseguenza attiva da sempre l’interesse delle istituzioni giuridiche. Va da sé che così impostata la questione, non è agevole attribuire la medesima rilevanza alle relazioni, anche sessuali, che non possano o non intendano arrivare alla generazione di figli: del resto, la storica sentenza della Corte Suprema della Stati Uniti d’America del 26 giugno 2015 ha amplificato un dibattito, ben lungi dal sopirsi, persino sui profili politici e giuridici delle unioni omosessuali. L’intensa drammaticità di questa disputa è plasticamente rappresentata molto bene dal testo stesso della sentenza, le cui cento pagine consistono per i due terzi delle obiezioni, energiche e rigorose, dei quattro su nove giudici dissenzienti, tra cui il Presidente. Per tornare alla domanda: il diritto interviene in materia di sesso e di amore, e non vi interviene per la parte emozionale delle relazioni che si producono e manifestano, ma si occupa della protezione dei deboli, come gli si chiede, salvaguardando la libertà delle persone da ogni violenza ed abuso, ed interessandosi delle possibili conseguenze generative della relazione sessuale – e non potrebbe non interessarsene, tenuto conto che da esse dipende la stessa esistenza di una società, ed “ubi societas, ibi jus”. Se s’ingerisse nella parte sentimentale, avremmo fondate ragioni per condannare un’intollerabile biopolitica del cuore e del sesso: e tutti conosciamo le principali distopie politiche del Novecento letterario (“Il mondo nuovo”, di Huxley, per esempio, ed ancor più “1984”, di Orwell, o “Noi”, di Zamjatin), dove la catastrofe politica viene descritta in termini di limitazione o addirittura proibizione dell’amore e della libertà di assumere vincoli amorosi stabili, di costruire famiglie che strutturino legami considerati, dallo Stato totalitario, la principale minaccia per la propria affermazione assolutistica (anche Hadjadj, nel suo suggestivo libro “Mistica della carne”, spiega a suo modo lo stretto legame, poco appariscente ma profondissimo, tra talamo e città). D’altronde, è proprio in seno a queste relazioni così intensamente affettive che s’intrecciano legami da cui dipendono la società e lo stesso carattere umano di questa società: benvenuto dunque il diritto a stabilizzarle, a garantirle, a proteggere i soggetti deboli in esse, ad assicurar loro una durata che il mero sentimento, l’incapacità delle emozioni di resistere al tempo, non potrebbero in alcun modo produrre. Amore e sesso interessano il diritto, senza dubbio: ma appunto nella loro portata relazionale, in ciò che mettono in comune e possono generare, e contro il rischio che degenerino, che si rovescino nel proprio contrario, che da relazioni costruttive e persino generative diventino relazioni distruttive, o addirittura mortali.
Il matrimonio è un istituto di diritto pubblico o privato?
Il matrimonio, questa relazione meravigliosa, intima, personalissima, piena d’amore e di progettualità connaturale, di presente e di futuro, è la più privata e personale delle scelte, ed al contempo tra le decisioni con maggior ricadute pubbliche. Il matrimonio come istituto giuridico è quindi disciplinato dal diritto privato, ma ha una consistenza pubblicistica innegabile, è addirittura la precondizione della società e la garanzia di ogni suo futuro possibile. Si colloca dunque, come tutto il diritto di famiglia, al crocevia tra le dinamiche privatistiche delle libere decisioni individuali, e la rilevanza pubblicistica delle opzioni da cui dipende l’esistenza stessa di una sfera pubblica. Se la famiglia è “seminarium rei publicae” (Cicerone), ed è sul matrimonio che come “società naturale” essa si fonda (articolo 29 della Costituzione italiana), è davvero arduo negare la sua natura pubblica. Anche Stefano Rodotà, nel suo singolare libello intitolato “Diritto d’amore”, oscilla con sorprendente ambiguità tra l’affermazione delle rilevanza pubblica di queste relazioni e la sottolineatura della loro inoltrepassabile privatezza. E sembra farlo principalmente, e lo fa con lui una certa, importante parte della letteratura giuridica in argomento, così come della giurisprudenza, nell’intento di assicurare una protezione giuridica alle relazioni paramatrimoniali, come quelle di mero fatto o quelle tra persone dello stesso sesso. La legge sulle unioni civili, approvata poco dopo la pubblicazione di quel libro, soddisfa solo in parte queste aspettative, e comunque non permette almeno formalmente di identificare tali unioni con il matrimonio, la cui rilevanza pubblica rimane sulla carta indiscussa e prevalente.
Si legge spesso di interventi della giurisprudenza su temi delicati, come l’educazione dei figli o i rapporti tra i coniugi o che concernono in generale l’autodeterminazione dei privati. Fin dove può e deve spingersi in ciò il diritto nella sua attività normativa?
Mi pare che con quel che abbiamo detto fin qui la risposta è chiara: il diritto può, e come giustamente avete detto, deve, regolamentare gli aspetti di rilevanza collettiva delle vicende coniugali e familiari (lo spiega molto bene Francesco D’Agostino nel suo recente libro “Famiglia. Matrimonio. Sessualità. Nuovi temi e nuovi problemi”). Tra i suoi fini propri vi sono senza dubbio, e la storia millenaria lo dimostra oltre ogni ragionevole dubbio, quello di promuovere l’unione e la generazione (senza ingerirsi nei loro presupposti motivazionali e nell’alimentazione dei sentimenti che li generano e sostengono), tutelare ciascuno dei soggetti, e specialmente quelli deboli. Beninteso, quando parlo di soggetti deboli parlo di tutti: non mi riferisco solamente al dibattito sul femminicidio, pur così importante e drammatico; sto pensando anche all’indiscusso criterio giuridico del “miglior interesse del minore”, che appunto nella di lui costitutiva debolezza incontra il fondamento dell’unanimità che lo accoglie (anche se poi viene spesso declinato secondo modalità ambigue o persino contraddittorie, come avvenuto anche recentemente nel paradossale dialogo tra la sentenza di Cassazione 19.599 del 30 settembre 2016 e l’ordinanza della Corte d’Appello di Trento del 23 febbraio 2017). Una categoria antropologica decisiva per comprendere il senso di questo intervento, ed i limiti oltre i quali diverrebbe un’odiosa ingerenza – incompatibile con un sistema giuridico laico e secolarizzato, il che non vuol dire secolarista – è a mio parere quella della promessa: all’origine del vincolo coniugale c’è la promessa (“starò al tuo fianco finché morte non ci separi”), non il sentimento. E la generazione di un figlio implica anch’essa una promessa (“mi prenderò cura di te finché ne avrai bisogno”), l’assunzione istintiva e poi consapevole di una responsabilità decisiva per la vita del bambino: l’accudimento, l’educazione, l’avviamento all’esistenza ed al mondo. Da un atto di volontà ed affidamento reciproco, rispettivamente duale e triadico, dipende dunque l’esistenza del matrimonio e della famiglia, così come la loro attitudine intrinseca (e tanto più necessaria: sia per la psicologia dei coniugi sia per l’accudimento della prole), a durare nel tempo, a non far principalmente conto sulle altalene emozionali, perché riposa su un fondamento più profondo e stabile. Implica questo una limitazione del valore totemico principale delle nostre culture postmoderne: la libertà assoluta, l’autodeterminazione illimitata? Non necessariamente: anzi, direi proprio di no se si comprende bene che cosa sia una promessa, e che cosa sia la nostra libertà; Spaemann lo spiega da par suo (“Persone. Sulla differenza tra qualcosa e qualcuno”): non c’è dubbio che la promessa matrimoniale implica “una limitazione assai grande dello spazio di azione, ma non è una ‘limitazione della libertà’, in quanto non potremmo comunque esaurire tutte le possibilità del nostro campo di azione. Con ogni possibilità che scegliamo, annulliamo definitivamente le altre. Chi non vuole pagare questo prezzo, non può realizzare realmente nessuna delle possibilità, dunque non può mai realizzare realmente la sua libertà. La promessa di matrimonio annulla un gran numero di possibilità: tuttavia, quella che essa realizza può essere realizzata solo in questo modo”. E lo stesso, naturalmente, vale anche per la promessa generativa, che incarna quella coniugale quando la prendiamo fino in fondo sul serio. Così si transita dal soggettivo all’oggettivo, estrinsechiamo il sentimento trasformandolo (tramite la scelta, l’atto di volontà, l’amore che prende il posto dell’innamoramento), in realtà incarnata: e finalmente andiamo al di là dell’immaginario di una virtualità emozionale, di una fantasticheria momentanea e poco consistente, per attingere definitivamente la vita desiderata – la persona amata, quella che sta fuori di me e mi chiama a sé per legarmi e così farmi libero davvero.