
Nel libro Lei propone una sorta di analisi filologica della ricetta: quando nasce e come si è evoluto il genere del ricettario?
La parola ricetta, nei dizionari della Crusca, sino alla fine del Settecento, ha un significato medico-salutistico. La si designava, quella di cucina, con il suo risultato, con il titolo, i maccheroni alla romanesca di Maestro Martino ottenuti avvolgendo la sfoglia attorno a un bastone, o con il fatto stesso di eseguirla, con il fare. Esempio nel Libro novo di Messisbugo, riedizione del 1557: “A fare dieci piatti de Tortelletti grassi ottimi”. Il primo libro che porta nel frontespizio tale termine è l’Oniatologia ovvero discorso de’ cibi con le ricette e regole per ben cucinare all’uso moderno stampato a Firenze nel 1785, venduta a dispense e quindi ricomposta in volume. Dopo tale data, oltre al significato medico ne ha uno alimentare. Il suo uso si diffonde, abbinato talora a quello di “segreto” come nella Collezione nuova di segreti e ricette verificate e di facile ed economica esecuzione ed infallibili stampata a Napoli nel 1850. È una seconda accezione destinata a tradire pratiche domestiche e professionali occulte, a valorizzare la loro comunicazione. Artusi ne La scienza in cucina, nel 1911, impiegherà il termine 149 volte, a dimostrazione che era e sarà sulla bocca di tutti i suoi corrispondenti, “ti do, mi dia la ricetta”. Siamo agli albori di una cucina domestica italiana e di una esplosione, cominciata con la radio negli anni venti, poliglotta e pluritecnologica. 1937, la ricetta dell’oca farcita, musicata e cantata sulla falsariga di Chiudi gli occhi Rosita nella trasmissione Due anni dopo, nuove avventure dei quattro moschettieri Perugina. La presenza in francese di recette, in spagnolo di receta, in inglese di recipe, in tedesco di rezept, ha favorito l’identificazione della formula alimentare, conferendole un valore internazionale condivisibile ed etimologicamente comune. Oggi le ricette mutano lingua e ingredienti, con estrema facilità, si fondono e rifondono, mentre la cucina italiana arricchisce, con un lessico divenuto globale, un approccio al cibo a partire dalla farina, che ha nella parola pizza il simbolo poliglotta.
Come si scrive una ricetta? Esistono regole cui attenersi?
Come ogni testo didattico, la ricetta ha uno schema di base: è una doppia lista di sostantivi, gli ingredienti, e di verbi o sostantivi, le operazioni di taglio, assemblaggio, cottura e impiattamento. Questo schema ha presentato variabili che occultano o valorizzano tale o tal altro modo di procedere. La lista è lunga e interminabile, tanto più che oggi cucina domestica e cucina industriale si fronteggiano o si confondono, a tal punto che un surgelato, dei bucatini alla matriciana, hanno la ricetta Findus occulta, non esplicitata nella confezione, ed una palese, per l’acquirente, volta a spiegargli come procedere all’ultima fase, quella del riscaldamento, in padella o al forno. L’elettrodomestico, a sua volta, detterà le proprie ricette e s’ingegnerà, come il forno a microonde di Anna Gosetti, a preparare in soli dieci minuti, una bistecca alla fiorentina (Cucina a microonde, 1991). A questo schema evolutivo, si possono aggiungere dettagli sul consumo, segreti scoperti nella ripetizione di un piatto, esperienze vissute in cucina o a tavola, e persino storie di famiglia, con due nomi sacri, la mamma, la nonna. Il professionista non si sottrae alla polivalenza della ricetta, anzi deve affrontarla con una visione totale. Riso oro e zafferano di Gualtiero Marchesi ha una sua storia con dettagli sulla conoscenza dell’oro alimentare da parte del maestro, suggeriti da un conoscente, sulla scelta del piatto in cui servirlo, con il famoso bordo di color nero, con l’illuminazione che deve valorizzare i colori e focalizzare l’attenzione del fruitore. Di qui a non porre alcun limite alla ricerca non solo degli ingredienti, ma di stoviglie e arredi utili alla presentazione, il passo è breve che rende la doppia lista il punto iniziale di una riflessione sull’ambiente, sull’arte, sul design, nei loro diversi significati, con libertà di moltiplicare tutte le operazioni che portano, alla fine, ad uno strano risultato, la distruzione e il consumo del cibo stesso. Nessuna ricetta permetterà tuttavia che il proprio esito sopravviva, a meno che non sia immangiabile, e quindi non ci sarà la possibilità di autenticarla, di proteggerla con un diritto d’autore. La ripetizione è implicita, accompagnata da riscoperta e memoria, dalla libertà di copiare alla meglio, alla peggio, Riso oro e zafferano.
Come orientarsi nel novero sconfinato delle ricette?
Valorizzare una ricetta è studiarla ripetendola, comunicarla ad altri con la voce, la carta stampata o le immagini, considerandolo non un comandamento ma una variabile che si presta a tutte le valutazioni. È anzitutto una esperienza. In questi tempi di chiusure, un panino a casa, mangiare street food, mi dà un senso di libertà. Persino in un supermercato posso trovare materia di studio. Se voglio prepararmi un hamburger vegetariano, ecco che posso acquistare tre polpette industriali, l’una molto diversa dall’altra, Findus, Zerbinati o Beyond meat, oppure studiarne uno mio, partendo da piselli o lenticchie. Imitare la carne non solo nella forma e nel colore, ma in consistenza o sapore. Oppure il contrario, sfidare la carne, partendo da polpette di ceci o da panelle palermitane. Così nasce una idea di ricetta. Ho poi in frigorifero salse già pronte, maionese o senape, ma altre ne posso elaborare, e ristudiare il ruolo del pomodoro o della cipolla, fra gli ingredienti più banali, può aiutarmi ad innovare. Il pane industriale, artigianale o domestico meriterà la sua attenzione. Il mio hamburger rinascerà da combinazioni autobiografiche e da altre copiate da riviste o ricettari o confezioni, e ancora da chi lo farò assaggiare. I criteri di scelta dell’una o dell’altra ricetta, industriale o domestica, in questo caso, sono condizionati dal tempo a disposizione, dalla dieta dei consumatori, carnivora o vegetariana, dalla curiosità nei confronti di un nuovo – o vecchio – oggetto alimentare. L’esempio dell’hamburger mostra altresì la varietà dei contesti, degli spazi del consumo, ma anche la rottura di riti prescrittivi della tavola famigliare e delle buone maniere, dato che lo si afferra con le mani e lo si porta in bocca così. In pochi minuti è ingoiato. Usiamo dunque la ricetta per esplorare non solo alimenti e salute, ma i nostri stessi riti prendendone le distanze. Mangiare è vivere, e non c’è regola che non possa essere apparentemente sovvertita, quindi riformulata personalmente, soprattutto in una zona rossa.
Alberto Capatti storico della gastronomia italiana, è stato il primo rettore dell’Università di Scienze Gastronomiche di Pollenzo. Ha diretto la rivista di Slow Food. Fa parte del comitato scientifico di CasArtusi ed è membro del comitato direttivo dell’Institut Européen d’Histoire de l’Alimentation.