“La ricerca dell’altro. Prospettive di pedagogia interculturale” di Anna Granata

La ricerca dell’altro. Prospettive di pedagogia interculturale, Anna GranataProf.ssa Anna Granata, Lei è autrice del libro La ricerca dell’altro. Prospettive di pedagogia interculturale edito da Carocci: di cosa si occupa la pedagogia interculturale?
La pedagogia interculturale si occupa di indagare il ruolo della variabile culturale nei processi sociali ed educativi. Considerata erroneamente una “pedagogia per gli stranieri”, ovvero una pedagogia speciale volta ad accompagnare i percorsi educativi di soggetti non autoctoni, è in realtà una pedagogia generale, rivolta a tutti, e focalizzata su due dimensioni fondamentali che l’Unesco (2006) ha definito “equality” e “diversity”, uguaglianza e diversità.

L’approccio interculturale in educazione infatti si inserisce nel dibattito sul dilemma tra universalismo (che sostiene l’inviolabile principio di uguaglianza tra gli uomini ma nega le differenze e rischia di imporre un singolo modello dominante, etnocentrico) e relativismo (che invece tende a sottolineare le differenze, riconoscendo la dignità di ogni cultura ma rifiutando qualsiasi giudizio di tipo etico in merito ad esse, ostacolando quindi la possibilità di confronto e incontro tra i soggetti che le incarnano). Tenendo insieme gli aspetti più corretti di entrambi gli approcci (la dimensione dell’uguaglianza dell’universalismo e la dimensione della dignità di tutte le culture del relativismo), l’approccio interculturale valorizza così le possibilità di arricchimento della diversità culturale senza trascurare i valori e gli obiettivi condivisi, valorizzando ad un tempo somiglianze e differenze.

La novità introdotta dal paradigma interculturale in pedagogia è la concezione della diversità culturale come norma della nostra società fortemente diversificata dal punto di vista sociale, economico e culturale, così come l’idea che essa sia una risorsa da gestire e valorizzare in modo particolare negli ambienti educativi.

Dopo una prima fase in cui si è concentrata quasi esclusivamente sui processi di accoglienza degli alunni migranti e sulla loro integrazione all’interno del contesto scolastico e sociale, la pedagogia interculturale ha ampliato i propri orizzonti portando attenzione alle dinamiche interculturali, tra soggetti appartenenti a culture diverse, quali alunni italiani e stranieri, genitori e insegnanti, mediatori culturali e alunni di seconda generazione, per portare soltanto qualche esempio. Questa nuova fase è stata definita come pedagogia interculturale “di seconda generazione” (Santerini, 2010), ovvero una pedagogia che supera un approccio compensativo e considera le relazioni tra soggetti diversi come un tratto diffuso degli ambienti educativi.

A sessant’anni dai suoi esordi, possiamo dire che l’intercultura si trova a un nuovo stadio della propria riflessione, che potremmo dire “di terza generazione”. Alla pedagogia non è richiesto di dedicarsi alle diversità culturali, secondo un’ottica propria dell’antropologia culturale, ma di rifondare invece una riflessione sulla diversità nella relazione. Il focus dell’analisi si sposta così da una “conoscenza dell’altro” e della sua cultura, alla “coscienza dell’altro”, come ha sostenuto Martine Abdallah-Pretceille (2003). Si è introdotta così una vera e propria etica della diversità in pedagogia, in cui in gioco c’è il legame con un altro, in quanto tale, non in quanto portatore di una cultura, di un’appartenenza o di una storia. La diversità si connota così non più soltanto al singolare (diversità culturale) ma al plurale: diversità culturale ma anche di genere, di status sociale, di lingua, di condizione famigliare, ecc.

Quando e come nasce la pedagogia interculturale?
Il termine “interculturale” appare in Francia per la prima volta nel 1975, all’interno dell’ambito scolastico. I primi studi interculturali risalgono agli anni Ottanta e si concentrano sulla possibilità di favorire relazioni efficaci e profonde tra persone che appartengono a culture diverse. Il prefisso inter, come suggerisce Franca Pinto Minerva (2007), pone in primo piano l’aspetto di “relazione” e di “reciprocità” come elemento fondante dell’intercultura e descrive così l’incontro interculturale come un “terreno fecondo di negoziazione e di scambio”, da cui possono nascere nuove idee e progettualità. Con un semplice prefisso, si sottolinea però l’esigenza di superare una logica “mono-culturale” per riconoscere e praticare in campo educativo le dimensioni del confronto e dell’arricchimento reciproco.

Non a caso l’approccio interculturale nasce in Francia entro la tradizione filosofica, storica e giuridica che riporta al centro l’individuo, con le sue caratteristiche, le sue istanze, le sue percezioni non interamente riconducibili alla sua collocazione in un determinato gruppo, come era tipico dell’approccio multiculturale anglosassone. L’approccio interculturale non riconosce però soltanto l’esistenza di un “io” (il famoso “ritorno dell’io” o “ritorno dell’attore”), ma riconosce anche la presenza del “tu”, e pone la sua attenzione alla dimensione della relazione: “il prefisso ‘inter’ nel mondo interculturale rinvia al modo in cui […] si vede, si percepisce e ci si presenta all’altro. Questa percezione non dipende dalle caratteristiche dell’altro o dalle mie, ma dalle relazioni intrattenute tra me e l’altro” (Abdallah-Pretceille, 2010, p. 58).

Non esistono, potremmo dire, culture che si incontrano, secondo l’approccio interculturale. Ma esistono solo persone di diverse culture che stabiliscono tra loro una comunicazione: è la relazione con l’altro che conta, e non la relazione con la sua cultura in senso astratto. Il tentativo, non sempre riuscito, dell’approccio interculturale è dunque quello di stabilire un giusto equilibrio tra la singolarità di ogni individuo e l’importanza accordata al contesto culturale nel quale si colloca.

L’approccio interculturale permette così ad ogni individuo di poter essere se stesso, di avere un’identità complessa, non priva di contraddizioni, per cui non è possibile evincere dalla sua appartenenza (di gruppo, di genere, di origine, etc.) la sua stessa identità.

Quale dibattito internazionale ha animato nel corso degli ultimi sessant’anni questo campo del sapere?
Il dibattito internazionale attorno ai temi interculturali è molto ricco ed eterogeneo, anche a partire da contesti socio-culturali e tradizioni di studio diversi. Indubbiamente i paesi francofoni restano un punto di riferimento fondamentale su queste tematiche, ma altri contesti europei ed extraeuropei hanno dato forte impulso al tema, talvolta anche in chiave critica ed autocritica.

Fred Dervin, nel 2011, ha dedicato un intero volume a spiegare i fraintendimenti dell’intercultura, con un titolo evocativo: Impostures interculturelles (L’Harmattan 2011). Secondo l’autore finlandese, l’interculturale ha contribuito a diffondere una “quasibiologia” della cultura, che ne restituisce un’immagine rigida, fissa e immutabile. In realtà, qualsiasi società e cultura presenta alti livelli di variabilità interna che non bisogna trascurare. Bisognerebbe promuovere un’intercultura “liquida”, riprendendo un noto concetto di Zygmunt Bauman, che eviti di utilizzare la cultura come fattore esplicativo di qualsiasi azione umana, che consideri la pluralità dei fattori in gioco, che rifiuti la facile equazione tra narrazioni e azioni delle persone, facendo proprio l’approccio della complessità. Un approccio di questo tipo parte dalla presa d’atto che gli elementi di una cultura e di un contesto non potranno mai essere completamente compresi, né i suoi confini rigidamente definiti.

Alcuni autori hanno scelto di mettere da parte la nozione di interculturale, per utilizzare altri termini, più facilmente riconducibili all’idea di diversità al plurale. È il caso di Michel Vandenbroeck (2011), che nel suo saggio sull’esperienza della diversità dei bambini in età prescolare, non utilizza quasi mai l’aggettivo “interculturale”, preferendo parlare di diversità. L’autore belga ha sottolineato come gli stessi operatori educativi sviluppino, in base alla propria cultura personale, famigliare e professionale, atteggiamenti diversi verso le “diverse diversità”. Essi devono essere dunque accompagnati nel processo di consapevolezza della propria cultura e degli effetti che questa cultura può avere nella relazione coi soggetti a sé affidati.

Marylin Steinbach (2010), autrice canadese, ha sottolineato come la pedagogia interculturale abbia posto una forte enfasi sulla necessità di “far integrare” i bambini nuovi arrivati piuttosto che sulla necessità di rendere capaci di “accogliere” i ragazzi autoctoni. Il focus, anche in un contesto di attenta riflessione interculturale, è sempre sui nuovi arrivati e sulla necessità che diventino parte integrante della società ospitante. Secondo l’autrice appare invece fondamentale ricentrare la relazione interculturale a partire dall’atteggiamento di chi c’è già, di chi in ogni caso deve essere posto nelle condizioni di saper accogliere un “possibile altro” che entri nella propria vita personale e comunitaria.

È ricorrente, quindi, l’idea di allargare il focus dell’interculturale sul concetto di diversità al plurale. Un tema molto sentito anche da chi da tempo si occupa di diversità di genere in ambito educativo. Come sottolineano Robinson e Diaz (2006) si assiste oggi più di sempre a una gerarchia delle diversità, per cui gli operatori educativi che dimostrano un grande impegno per la giustizia sociale e promuovono opzioni quali la valorizzazione della diversità culturale o l’attenzione alla disabilità, si mostrano del tutto indifferenti o addirittura ostili rispetto a tematiche quali il sessismo o l’omofobia, altro tema di cruciale importanza nel contesto attuale, poco visitato dalla ricerca pedagogica attuale e al centro di dibattiti spesso ideologici e poco scientifici.

Anche nel contesto italiano ci sono stati contributi volti a sottolineare l’importanza di superare un’ottica culturalista. Davide Zoletto (2012) propone di spostare l’attenzione “Dall’intercultura ai contesti eterogenei”, come recita il titolo di un suo libro. Il termine era già stato utilizzato da autrici come Martine Abdallah-Pretceille (2003), che nel suo volume in lingua francese sottolinea l’importanza di promuovere un “umanesimo del diverso”, entro contesti eterogenei. Per evitare una visione culturalista delle persone e dei contesti, si vuole con questa espressione far emergere come i luoghi di vita quotidiana, quali la città, la scuola, gli spazi di aggregazione, siano ambiti nei quali i diversi soggetti entrano in relazione tra loro, mettendo in gioco tutte le proprie differenze, non solo quelle culturali, sullo sfondo di una comune cornice di senso.

Massimiliano Tarozzi (2015), invece, insiste su un altro importante concetto, come si evince dal titolo del suo volume: “Dall’intercultura alla giustizia sociale. Per un progetto pedagogico e politico di cittadinanza globale”. Tesi del suo libro è che l’attenzione all’equità, da sempre presente nei contesti educativi del nostro Paese, in particolare tramite il principio costituzionale della scuola per tutti, evidenzia la necessità di superare un’ottica solidaristica e compensativa dell’approccio interculturale. Dal punto di vista teorico, il passaggio dall’educazione interculturale all’educazione alla giustizia sociale è auspicabile per la necessità di combinare teoricamente, a un tempo, le istanze dell’uguaglianza basate sui diritti umani e il diritto di riconoscimento della differenza culturale.

Un altro significativo tentativo di ricentrare il discorso interculturale in ottica pedagogica, è quello cosiddetto delle competenze interculturali (Deardorff 2009). Secondo questo filone di studi, sviluppatosi in particolare in Nord America a proposito della collaborazione tra professionisti entro équipe internazionali, l’incontro tra persone di culture diverse non è mai un processo scontato. Il rischio di fraintendimento e incomprensione è infatti sempre latente. Le competenze interculturali rappresentano un bagaglio multidimensionale di conoscenze rispetto alla storia e alla cultura dell’altro, capacità di comunicare a livello verbale e non verbale, nonché di partecipare ad attività comuni, atteggiamenti quali l’ascolto, l’empatia e il decentramento che favoriscano una comprensione profonda tra persone che provengono da culture diverse ma hanno degli obiettivi in comune. Questo filone di studi e ricerche conduce la riflessione interculturale verso una maggiore organicità e scientificità dei propri assunti, elaborando un quadro di riferimento che appare particolarmente fecondo sia per la riflessione epistemologica sia per le ricadute operative nell’ambito della formazione degli operatori educativi.

Incontrarsi, dialogare, comprendersi tra diversi non è mai un processo scontato. Come suggerisce il filone di studi sulle competenze interculturali, perché l’incontro con l’altro sia efficace e profondo i soggetti in gioco devono essere in qualche modo formati attraverso un percorso che renda i soggetti consapevoli della propria cultura, dei propri stereotipi e pregiudizi e dell’esigenza di uscire dal proprio etnocentrismo.

Il filone di studi si sta arricchendo di contributi anche nel contesto italiano, centrati in particolare sulla formazione degli insegnanti e degli educatori. Secondo Piergiorgio Reggio e Milena Santerini (2015), tali competenze si declinano in almeno tre tipologie: interpretare le culture (ovvero saper cogliere i significati autentici di gesti e parole dell’altra persona, all’interno di una cornica di senso); ridurre i pregiudizi (ovvero cercare di uscire dalla “gabbia” cognitiva di stereotipi e pregiudizi che caratterizzano il nostro funzionale stile di pensiero, riducendone il più possibile il danno nella relazione con l’altro); trovare orizzonti condivisi (ovvero, assumere obiettivi e prospettive comuni, pur nella diversità di approcci e contesti di provenienza).

Mattia Baiutti (2017) ha di recente indagato questo costrutto all’interno di un vasto campione di giovani che hanno trascorso il quarto anno di liceo all’estero. La domanda che ha mosso la sua ricerca è se le competenze di questi giovani siano in qualche modo valutabili e se l’istituzione scolastica sia disponibile a valutare le competenze, fornendo degli indicatori utili a riconoscere questo straordinario patrimonio interculturale.

In che modo è possibile rinnovare la ricerca in pedagogia interculturale?
Ciò che emerge dalla pluralità di questi contributi è che l’interculturale sia ancora un campo di indagine pedagogica ed educativa di assoluta importanza, con sfide antiche e nuove. A fronte di chi afferma di dover superare nettamente questo approccio, numerosi autori sostengono di doverlo rilanciare ed ampliare i suoi oggetti di indagine e i suoi metodi di ricerca.

Nel volume La ricerca dell’altro. Prospettive di pedagogia interculturale, proponiamo tre possibili vie per rilanciare la ricerca in pedagogia interculturale: (1) il dialogo con i classici della disciplina, e in particolare con autori che hanno vissuto e si sono espressi lungo l’intero Novecento, per ricentrare l’ottica pedagogica della disciplina ed attingere a uno straordinario patrimonio di riflessione sulla diversità e l’alterità, in Italia e in Europa particolarmente sviluppato; (2) il dialogo alla pari con altre discipline, in special modo le scienze sociali, che hanno prestato e stanno prestando attenzione ai temi del pluralismo culturale, ciascuna attraverso la propria particolare “lente di osservazione”; (3) il dialogo con la vita e con le persone, nei contesti di vita quotidiana, attraverso l’attività di ricerca cosiddetta “sul campo”, che è in realtà un verificare idee e concetti a contatto con la realtà viva delle relazioni tra le persone nei contesti.

Attraverso queste tre vie è possibile rinnovare un ambito di ricerca che appare più che mai attuale e fondamentale per guidare i processi educativi e sociali della realtà contemporanea.

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