“La ricchezza del debito pubblico” di Angela Orlandi

Prof.ssa Angela Orlandi, Lei è autrice del libro La ricchezza del debito pubblico. Secoli XII-XXI, edito da Il Mulino: quale è l’obiettivo di questo volume?
La ricchezza del debito pubblico, Angela OrlandiÈ un volume diretto agli specialisti e al grande pubblico. Esso riconduce a sintesi, in modo sufficientemente approfondito, un tema complesso, come la storia del debito pubblico, in un lungo periodo compreso tra il XII e il XXI secolo. Oltre alla ricostruzione delle forme di indebitamento dello stato che abbastanza rapidamente assunsero caratteristiche simili a quelle del mondo attuale, ho provato a raccontarne l’utilità o la nocività. Una distinzione che riprende il concetto adottato da Mario Draghi, debito buono e debito cattivo, quando era presidente della Banca Europea.

Quando e come nacque l’uso, da parte dello Stato, di finanziarsi attraverso l’indebitamento?
Il primo esempio di richiesta organica di denaro da parte di un governo si verificò a Venezia con il cosiddetto «imprestito» che risale al 1171. È il primo caso di prestito forzoso, che i veneziani dovevano sottoscrivere per somme proporzionali alla loro ricchezza. Esso doveva servire ad allestire la flotta contro Manuele Comneno, imperatore d’Oriente; una guerra che, paradossalmente, non fu mai combattuta.

Per mantenere la pubblica fiducia dei creditori, si cominciarono a individuare gruppi di entrate comunali poste a garanzia del debito e si applicarono forme di ammortamento dell’esposizione. L’esempio di Venezia fu rapidamente seguito da Genova e Firenze, ma anche da altre città dell’Italia settentrionale come Bergamo, Treviso, Vicenza.

I governi emettevano titoli che rappresentavano il debito e che potevano liberamente circolare sul mercato; erano certificati che, alle scadenze stabilite, garantivano la restituzione del capitale e la riscossione degli interessi (detti pro a Venezia, paghe a Genova e Firenze).

Così come si era rapidamente affermata, l’esposizione finanziaria cominciò a crescere tanto che la restituzione di capitali e interessi divenne sempre più difficile. A partire dal Trecento la storia è disseminata da pesanti crisi di bilancio con sospensioni o interruzioni dei rimborsi.

In questa storia, iniziata assai presto, il problema dell’insolvenza dello stato si pose talvolta in modo anche drammatico. Si pensi al caso dei Bardi e dei Peruzzi, le due grandi compagnie mercantili bancarie fiorentine che concorsero al finanziamento della guerra dei Cento Anni. Quelle banche fallirono (1343-1346) perché i sovrani inglesi, per i quali il conflitto fu disastroso, non furono più in grado di effettuare le restituzioni dei prestiti ottenuti. Un fatto che provocò quella che Giovanni Villani definì la “ruina della cristianità”.

A parte il ricorso al debito, c’erano altri mezzi per finanziare le necessità dello Stato?
Città, monarchie e papati, di fronte a uscite straordinarie o spese impreviste, potevano trovare le risorse necessarie oltre che attraverso il prestito attraverso il prelievo fiscale e l’emissione di moneta.

Durante il XIV e il XV secolo, i governi si sforzarono di organizzare sistemi fiscali capaci di sfruttare ogni possibile fonte di ricchezza. In ogni caso tra Medioevo ed Età Moderna le modalità impositive rimanessero fortemente sperequate e inadeguate alle crescenti esigenze finanziarie; questa fu una delle ragioni che spinsero le autorità a indebitarsi. Possiamo dire che gli stati preindustriali continuarono a finanziarsi in questo modo anche se non mancarono azioni di politica monetaria. Il loro potere esclusivo di battere moneta consentiva di attuare interventi, non sempre legittimi, sul valore delle valute. Le mutatio in pondere, in appellazione o in composizione consentivano operazioni di svalutazione o rivalutazione monetaria. Erano pratiche di qualche diffusione come dimostrano le attenzioni delle gerarchie ecclesiastiche preoccupate per gli effetti che la svalutazione monetaria aveva sulla parte più debole della popolazione.

L’uso di lettere di cambio (originate nel XII secolo) e dell’assegno di conto corrente (ampiamente utilizzato a Firenze nel XIV secolo) erano esempi di moneta bancaria che contribuivano a risolvere problemi di liquidità ai mercanti e in misura minore, agli stati. Essi dovettero aspettare la nascita delle banche di emissione. A parte i casi particolari del celebre Banco di San Giorgio (1408) o della Banca di Svezia (1656), fu in Inghilterra che nacque una istituzione in grado di emettere biglietti senza che nei suoi forzieri ci fosse una riserva metallica equivalente. Le politiche monetarie divennero dunque rilevanti quando si affermarono gli istituti di emissioni, durante l’Età Contemporanea.

Nel recente passato, allora come oggi, le politiche fiscali, quelle di indebitamento e quelle monetarie erano strettamente correlate al consenso sociale. Erano strumenti efficaci per i governi che cercavano e cercano legittimazione e consenso. La classe politica italiana degli anni Settanta e Ottanta del Novecento ne è stato un perfetto esempio: per conservare il favore dell’elettorato, i debiti furono coperti soprattutto aumentandoli. Le scelte di quel periodo furono dunque ben lontane dall’ortodossia finanziaria di cui Luigi Einaudi era stato un sostenitore. Così convinto da intitolare una sua monografia: Contributo alla ricerca dell’«ottima imposta».

Quali erano le cause dell’indebitamento?
I motivi dell’indebitamento, nel lungo periodo furono abbastanza simili e ovviamente legati alle necessità dei governi. I signori feudali e i liberi comuni, durante il Medioevo, svolgevano azioni politiche prevalentemente condizionate da esigenze di prestigio e di espansione territoriale. Più tardi si aggiunsero le spese per i nuovi apparati burocratici e di organizzazione dello stato moderno poi, come ho detto soprattutto in età contemporanea, si cominciò a risentire gradualmente del bisogno di consenso tra i cittadini e quindi di un certo condizionamento della popolazione. In buona sostanza la guerra fu per lungo tempo il principale motivo dell’indebitamento.

Ma allora solo debito “cattivo”? Senza aspetti positivi?
Oggi, in effetti, il debito pubblico è visto negativamente; soprattutto nella pubblicistica viene spesso descritto come una montagna pronta a crollare con inenarrabili danni. Certamente è così quando la sua dimensione è eccessiva. In realtà, nel lungo periodo esaminato, spesso ha svolto una funzione propulsiva in vari settori della vita. Ha consentito di migliorare le condizioni materiali e di sicurezza della popolazione. Il denaro preso a prestito è servito pure a costruire infrastrutture viarie, industriali e sanitarie, a finanziare conflitti ma anche a garantire l’alimentazione e il sostegno di segmenti più fragili della popolazione, ad ampliare il patrimonio artistico e a concedere qualche svago a chi non se lo sarebbe potuto permettere.

Tra i mille esempi mi vengono in mente la Napoli dei Viceré spagnoli o la Roma di Sisto IV e quella di Giulio II che sostennero la Renovatio della città con mirabili opere artistiche o di Leone X che cominciò a intervenire nella regolamentazione delle acque per controllare l’impaludamento della pianura Pontina.

Quali vicende ha attraversato il debito pubblico italiano?
Parliamo di centosessanta anni di storia italiana (1861-2020) profondamente diversi dal punto di vista politico-istituzionale e sotto il profilo economico, sociale e culturale. Ho provato a ricostruire il periodo in tre grandi intervalli: l’Italia liberale sino allo scoppio della Grande Guerra, il periodo che va dal 1915 alla caduta del fascismo, infine quello dell’Italia Repubblicana.

Nel primo periodo il nuovo regno, dovette gestire con grande fatica il suo debito partendo da una significativa esposizione: per dimostrare la sua credibilità dovette riconoscere i debiti di ciascuno degli stati preunitari. Si fece nel luglio 1861, mentre la Penisola era piuttosto arretrata e molte zone necessitavano di infrastrutture e di una organizzazione sanitaria. In questa prima fase fu evidente che l’indebitamento sia stato uno strumento indispensabile per formare l’Italia, nella realizzazione e nel rafforzamento dello stato nazionale. Nel 1914 il rapporto Debito/PIL era al 95%.

Dopo di allora, come si può immaginare, il pagamento delle operazioni belliche mise sotto ulteriore pressione le finanze del regno. La spesa pubblica aumentò mentre le entrate non riuscivano a coprirla e i disavanzi crebbero. Se nel 1915 gli introiti coprivano il 46% delle uscite, nel 1917 la percentuale era scesa al 29%. Cominciò a risalire dal 1919 quando Luigi Einaudi, senatore del regno, proponeva un aumento della pressione fiscale; resta il fatto che la guerra fu pagata dai sei prestiti nazionali emessi tra il 1914 e il 1919.

Durante il fascismo, tra novembre del 1925 e gennaio del ‘26, le casse dello stato beneficiarono di un temporaneo miglioramento; Volpi di Misurata, il ministro delle finanze, ottenne di alleggerire il debito di guerra con prestiti e sconti dagli Stati Uniti e dall’Inghilterra.

Era ormai alle porte la grande depressione che seguita dal decennio di guerra iniziato con l’invasione dell’Etiopia aumentò gravemente le difficoltà di bilancio. Tra il 1940 e il 1943 il rapporto Debito/Pil passò dall’85 al 112%.

Se le politiche di investimento del fascismo furono piuttosto frammentarie, a partire dal 1947 si allargò la spesa a favore di opere pubbliche e ferroviarie. Ciò nonostante, grazie alla forte inflazione tra il 1963 e il 1964, il rapporto Debito/PIL scendeva.

Le cose cominciarono a cambiare alla fine degli anni Sessanta quando si accentuò la richiesta di un radicale cambiamento dello stato assistenziale e sociale. Nel 1981 il debito era aumentato e il rapporto con il PIL salito al 104%. Gli esecutivi non avevano altra soluzione che quella di accettare che il deficit oltrepassasse i limiti della crescita economica. Inevitabilmente l’esposizione crebbe pur rimanendo sostenibile.

Proprio negli anni Ottanta il costo degli interessi aumentò e superò la crescita del PIL; fu come se fossimo tornati indietro, ai tempi in cui i sovrani non si preoccupavano dell’esposizione che ereditavano. Insomma le politiche finanziarie erano strettamente correlate al consenso sociale: era più semplice indebitarsi che alzare la pressione fiscale. Nel 1992 il Trattato di Maastricht pose limiti all’inflazione e al disavanzo pubblico; ciò nonostante, nel 1994 il suo livello era pari al 121,8% del PIL.

Il miglioramento fu raggiunto aumentando il prelievo fiscale che, tra il 1989 e il 1997, salì dal 39 e il 44,8%. Naturalmente si agì anche con interventi strutturali sulla spesa che influenzarono l’assetto produttivo e lo sviluppo economico.

E poi il nuovo Millennio che si è aperto con anni difficili non solo dal punto di vista economico-finanziario, ma anche politico-sociale: il dramma delle Torri Gemelle e la bolla immobiliare che tra il 2007 e il 2008 provocò il fallimento di numerose banche di affari.

Infine la pandemia. Come ben sappiamo l’Europa, oltre a alcuni contributi ha messo a disposizione prestiti agevolati. Ai governi il compito di spendere bene quei denari.

Un’ultima curiosità: il volume, oltre che di grafici e tabelle è disseminato di schede descrittive.
Sono curiosità, brevissimi racconti o brani di fonti archivistiche che rendono la lettura più stimolante.

Così sulla parte del debito dedicata a Firenze si trova una scheda che racconta come Alamanno Rinuccini e Piero Parenti, grandi personaggi del tempo, accusavano Lorenzo il Magnifico di avere indebitamente prelevato dalle casse del debito 200.000 fiorini, per agevolare la nomina a Cardinale del figlio tredicenne, Giovanni, che nel 1513 divenne Papa Leone X.

In altra scheda si racconta delle sorelle Notaras, esponenti di una importante famiglia bizantina che, prigioniere di Maometto II dopo la presa di Costantinopoli, furono riscattate. Per raccogliere le enormi somme necessarie furono ceduti sul mercato secondario titoli del debito pubblico veneziano e genovese.

Per concludere cito la scheda che spiega le tecniche di Marketing adottate dal Regno d’Italia per stimolare la sottoscrizione dei prestiti emessi durante la Grande Guerra. Proprio allora si utilizzarono i famosissimi manifesti di Mauro Mauzan, l’affichiste italiano di guerra più conosciuto.

Angela Orlandi è docente di Storia economica della moneta e della banca all’Università degli studi di Firenze

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