
Quale potere politico avevano i banchieri genovesi?
A Genova molto forte, non foss’altro perché la nobiltà locale era composta in larga misura da banchieri. In sede internazionale, però, il potere politico dei banchieri genovesi non deve essere esagerato. È vero che la distanza fra il negozio degli affari privati e pubblici è spesso minima, e che, nel caso specifico, gli uomini d’affari della Repubblica si rivelarono anche degli abili mediatori politici. Questo, però, avveniva quasi esclusivamente presso la corte di Madrid, dove quei finanzieri erano ben inseriti per via dei noti prestiti concessi ai re cattolici, i quali però – forti della condizione di protettorato sulla Repubblica – non si facevano scrupoli nel dichiarare bancarotta, profittando anche di momenti di crisi interna allo Stato genovese che mettevano ancor più in difficoltà i banchieri. La tracotanza dei sovrani spagnoli evidenzia una situazione di minorità politica e finanziaria che fa vacillare l’assunto storiografico della “simbiosi” fra Genova e Madrid. Del resto, di là dalle bancarotte, la Corona spagnola non mancava occasione per mostrare quali fossero i reali rapporti di forza. Alcune vicende poco studiate, o forse debitamente marginalizzate, lo testimoniano abbondantemente. Basta prendere in esame le vicende dell’annessione di Pontremoli ai territori della Repubblica. In pieno Seicento, l’oligarchia genovese s’era assicurata il possesso di quello strategico dominio dietro lo sborso di una ingente somma di denaro che servì a rimpinguare le casse della Corona spagnola, in quel momento alle prese con un importante sforzo bellico nella Penisola. Ma, cessata in breve tempo l’emergenza militare, Madrid tornò presto sui suoi passi, togliendo Pontremoli alla Repubblica per rivenderla al Granducato di Toscana per una somma talmente irrisoria da risultare insultante, se non spregiativa. Vicissitudini che mettono in luce le debolezze politiche dei banchieri genovesi, i quali avevano finanziato quell’operazione per rafforzare il peso della Repubblica negli equilibri di potere italiani, secondo una logica per cui il buon andamento degli affari dipendeva anche dall’appartenenza allo Stato genovese e alla sua natio, come conviene chiamare le comunità nazionali di Antico Regime. Essere finanzieri di grande levatura internazionale, e nel contempo governanti di uno Stato, consentiva di disporre di qualche margine negoziale di cui s’avvantaggiavano tanto i banchieri quanto la Repubblica. Era, però, un potere piuttosto limitato. Del resto, com’è nell’ordine delle cose, gli uomini d’affari genovesi speculavano anche presso la corte francese: cosa di cui le autorità spagnole erano bene al corrente; tanto che, nella seconda metà del Seicento, avviarono un’indagine sui libri contabili del patriziato genovese. Un atto d’ingerenza tutt’altro che rispettoso delle libertà della Repubblica, ma del tutto aderente alle logiche del protettorato, considerata la sua sostanziale natura di minaccioso avvertimento nei confronti dei finanzieri genovesi, i quali, dal canto loro, è ben difficile ritenere che riportassero nella contabilità ufficiale anche gli investimenti che non rientravano nel sistema di poteri spagnolo. Le sole eccezioni di un qualche rilievo riguardavano li esponenti del patriziato finanziario che facevano brillanti carriere presso la Curia romana; ma, com’è facile intuire, il loro potere politico e diplomatico non dipendeva dalla legittimazione di cittadini della Repubblica. Il protettorato, la minorità politica e anche finanziaria della Repubblica, i problemi della sua organizzazione statuale: elementi che vanno a sfumare il Siglo de los genoveses, un’etichetta storiografica imposta da molteplici operazioni di marketing culturale alle quali gli studiosi si sono prestati con troppa acritica facilità.
Che peso ebbero le cospirazioni nella storia genovese?
Mi spingo a dire decisivo. Per serietà ed effettiva pericolosità, i tentativi insurrezionali di metà Cinquecento – e cioè il golpe di Gian Luigi Fieschi, ma anche il meno studiato piano eversivo di Giulio Cybo – furono episodi di particolare importanza nel consolidamento del sistema oligarchico. Caratterizzati dal proposito di restaurare un assetto di poteri feudale, la natura anacronistica – del resto tale ai nostri occhi – di quei falliti golpe favorì infatti la gestazione della nuova Repubblica di Genova, che difatti ne uscì rafforzata, come spesso accade in questi casi. Ma non meno significative furono le successive cospirazioni che facevano leva sui dissidi interni: sia quando si trattava di congiure “popolari” come quella di Vachero, sia quando le ragioni sono da ricercare nelle insofferenze nobiliari, magari nei confronti della sudditanza della Repubblica a Madrid; anche se la soluzione era poi quella di affidarsi alla dedizione ad altri Stati, come quello francese o sabaudo. Distruzioni, targhe e colonne infamanti: un armamentario propagandistico piuttosto diffuso, e rispondente a una reale e viva preoccupazione nei confronti di un rovesciamento del regime oligarchico. Del resto, i presupposti per una sua riuscita vi erano: almeno sino alla vicenda di Vachero del 1625, che non a caso ricevette il più brusco e pesante trattamento repressivo, convincendo inoltre gli oligarchi a introdurre gli Inquisitori di Stato, i quali contribuirono non poco a far fallire tutti i successivi golpe. Tuttavia, la consuetudine con il fenomeno eversivo, che portava i governi genovesi a dover convivere con una serpeggiante atmosfera sediziosa, portò anche ad utilizzi strumentali delle cospirazioni, in specie quando avevano poco più del chiacchiericcio o dell’accusa mal fondata. Il problema di quella che ho definito “la congiura sempre sventata” fu rovesciato in favore dell’oligarchia genovese, che se ne servì per enfatizzare una certa diffusa e poco edificante immagine di Genova quale “città di cospiratori”: il che sembra avere dell’assurdo, dal momento che una simile nomea gettava discredito sulla Repubblica e sui suoi uomini di governo. In verità, tenere a bada una situazione da “golpe imminente” significava far passare il messaggio che soltanto chi conosceva bene il complicato – e per molti versi realmente incomprensibile – contesto sociale della Repubblica vi potesse mantenere l’ordine. La Genova “città di cospiratori” era insomma una città che sarebbe stato difficile governare, se occupata: tacita argomentazione che probabilmente non dissuase i propositi d’invasione covati dalle corti di Parigi e di Torino, ma che riuscì a silenziare il dissenso interno, anche quando non aveva sfumature insurrezionali. Lo abbiamo visto nel caso di Senarega, ma è possibile constatare l’utilizzo strumentale della minaccia cospirativa in episodi rimasti piuttosto oscuri, come la vicenda del medico Leveratto. Non posso dilungarmi in dettagli; ma quanto affermato trova conforto anche nell’attitudine genovese a rendere gli arcana imperii della Repubblica più arcani che altrove. Del resto, erano i fatti stessi a irrobustire l’immagine della “città dei cospiratori”. Basti pensare alle vicende dei due Raffaele Della Torre: il primo uomo di Stato di un certo spessore, e perciò posto a capo dell’istruttoria che portò a processo Vachero e i suoi accoliti; il secondo – nipote del primo – artefice di una congiura genovese sfociata in burletta. La strategia della Genova “città di cospiratori” sembra confermare la bontà delle politiche portate avanti dalle volpi della ristretta oligarchia oligarchica, incoraggiando inoltre la possibilità di condurre una più vasta e articolata attività di ricerca sul tema.
Diego Pizzorno (Genova, 1982) è autore di numerosi articoli apparsi su importanti riviste storiografiche. La sua attività di ricerca lo ha portato a pubblicare tre monografie, l’ultima delle quali di recente uscita (Una ragione di Stato cattolica. Genova e i papi della controriforma, Tab edizioni, 2022). Impegnato sullo spionaggio e la circolazione di notizie in Antico regime, predilige la storia politica, diplomatica e istituzionale, con particolare riferimento all’antica Repubblica di Genova. Scrive recensioni per la rivista «Società e storia».