
di Marc Fumaroli
traduzione di Laura Frausin Guarino
Adelphi
L’avvicendarsi delle guide
«Quando oggi ci imbattiamo nell’espressione un po’ misteriosa di «Repubblica delle Lettere», ci rendiamo subito conto di avere a che fare con una figura retorica di pensiero, nel caso presente con un’allegoria politica, elogiativa o ironica, nata nel Quattrocento per designare quella istituzione informale di ricerca e di cooperazione amichevole che assicura ai suoi membri, al di là dei confini e delle specificità politiche e religiose, un margine comune di cooperazione sapiente neolatina, nonostante differenze linguistiche e politiche: monarchie «assolute» (Roma, Vienna, Madrid, Parigi), repubbliche aristocratiche (Firenze, Venezia), repubbliche borghesi (Province Unite olandesi, 1579-1795), liberi porti anseatici.
La Repubblica delle Lettere, Stato senza Stato, non ispirava alcuna diffidenza alle monarchie dell’Ancien Régime che, sull’esempio di Luigi XIV, l’avevano nazionalizzata nelle loro accademie mondane o dotte. Dalle file delle società letterate locali, parti di un tutto che è la Repubblica delle Lettere europea, reclutata per cooptazione tra pari sotto gli occhi del principe, lo Stato monarchico assume spesso il suo personale, scegliendolo fra quello più competente e sollecito, all’occorrenza chiamandolo anche dall’estero. […]
La «Repubblica delle Lettere» nasce nel contesto di una lunga querelle de la langue, nel corso della quale il latino scolastico e medioevale – lingua dotta, lingua dell’insegnamento universitario parigino, lingua dei teologi, lingua comune alle università europee – si trova decostruito e svalutato dai filologi cosiddetti «umanisti». Essi fanno «rinascere» il latino classico, quello delle bolle papali e di Cicerone, e incoraggiano i partigiani delle lingue vernacolari a correggere il loro dialetto sulla base del latino di Cicerone o di Seneca. Dante, Petrarca, Bembo scrivono fra i tre poli linguistici in conflitto, il latino universitario di ieri, il neolatino ciceroniano e virgiliano conservato dalla curia romana, e quello ripreso per proprio conto dal poeta Petrarca. Il vernacolo toscano, riformato sul modello ciceroniano da Dante, depurato da Petrarca, nobilitato da Pietro Bembo sul modello grammaticale e retorico del latino augusteo, offre all’Europa una linea di discendenza esemplare, che concilia il principio unitario e molteplice della curia romana con lo stesso principio molteplice e federatore che fa coesistere nel Sacro Romano Impero Germanico i tanti diversi principati e regni cattolici. […]
Alla fine del Settecento, anche le università tedesche devono sacrificare il latino e ricorrere nel loro insegnamento alla lingua vernacolare, mentre le corti tedesche, dopo i trattati di Vestfalia, si sono convertite alla diplomazia e alla galanteria in lingua francese, non senza resistenze del mondo accademico a tale colonizzazione linguistica. L’accentramento francese ha permesso allo Stato monarchico un’espansione decisa e di lungo respiro, secondo una linea di straordinaria continuità che parte da Francesco I, passa per Richelieu e viene perfezionata con successo da Colbert. L’amministrazione regia spinge le sue ambizioni fino a fare del francese dei letterati e dei sapienti la lingua universale dell’Europa erudita, destinata a succedere al latino di Cicerone, dei papi, e della curia romana. Parigi è stimolata dai suoi grandi ministri a diventare un importante laboratorio di traduzione, e a moltiplicare nelle capitali europee la diffusione di «notizie» politiche e letterarie stampate in francese, fenomeno che non sopravvivrà di molto al Blocco continentale napoleonico. […]
Il «sublime», segreto della libertà dei letterati
Nell’Alessandria dei Tolomei, diversi secoli dopo Pericle e dopo Demostene, un retore sconosciuto (lo «pseudo-Longino», l’Anonimo), aveva espresso uno scoramento intriso di superbia: era nato troppo tardi in un’epoca sterile e al contempo raccomandava alcuni mezzi per salvarsi dalla decadenza. Il sublime trattato Del sublime ebbe notevoli ripercussioni durante tutto l’Impero romano su Tacito e il suo Dialogo sull’oratoria, su Quintiliano e la sua Institutio oratoria, e tornò a fare sentire clandestinamente la propria voce nel Quattrocento italiano. […]
Dopo un lunghissimo silenzio, si arriva all’inizio del Cinquecento, nell’ambiente appassionato dell’Antichità grecizzante dell’Accademia romana, deciso a uscire dalle «tenebre» medioevali e a basarsi sull’Antichità ritrovata per far «rinascere» una cultura urbana , nel senso in cui la intende nel 1528 Il Cortegiano di Baldassarre Castiglione, e cioè nobiltà cortese dallo spirito libero e dal fisico armonioso: un kalòs kagathós cristiano, uguale e diverso. […].
Nasce allora quella scienza così singolare per noi, l’antiquaria, che per tre secoli estenderà su tutta l’Europa la sua vasta rete di ricerche e di collezioni. L’oggetto della Repubblica delle Lettere, almeno per i suoi cittadini più grandi, un Pirro Ligorio, un Fulvio Testi, un Nicolas Fabri Peiresc, un Cassiano dal Pozzo, uno Scipione Maffei, un Anne de Caylus, un Quatremère de Quincy, oggi sconosciuti, è quello stesso che nel suo trattato lo pseudo-Longino indicava alle grandi anime isolate e nate troppo tardi, in un tempo inaridito: l’impegno nella riscoperta, ricostituzione e imitazione delle opere, distrutte o lacunose, prodotte dal genio dell’Antichità greco-romana, delle più gloriose come delle più modeste.
Una comunità di grandi anime si è proclamata con discrezione Repubblica delle Lettere nell’Europa denominata dalle monarchie dell’Ancien Régime. Questa vasta rete di eruditi – filologi e archeologi, numismatici e medaglisti – ha funzionato da incubatrice perché, pur riportando in vita il mondo antico e pur imitandolo nel senso dello pseudo-Longino (in altre parole, reinventandolo), ha mantenuto la temperatura della ricerca e il margine della libertà filosofica a un livello favorevole alla nascita del mondo moderno. Il segreto della Repubblica delle Lettere va ricercato nel trattato dello pseudo-Longino, che insegna a non essere prigionieri del proprio tempo sterile e tardo e neppure del tempo antico e fecondo, nonostante la genialità delle sue scoperte e delle opere originarie che bisogna reinventare.»