
La Mara che torna a Colle è molto maturata, e volendo allontanarsi dal paese va a lavorare come ragazza a servizio per una ricca famiglia di Poggibonsi. Qui frequenta la compaesana Ines e Stefano, un vetraio di grande sensibilità. Mara è confusa, scissa tra la nuova passione per questo operaio che scrive poesie e la fedeltà a Bube, che torna a scriverle dopo mesi di silenzio. La situazione si complica quando la Francia espelle i rifugiati comunisti. Bube deve affrontare il processo in Italia e può confidare solo in un’amnistia. Quando Mara lo rivede in carcere, decide di troncare la relazione clandestina con Stefano e di rimanere al fianco del suo fidanzato, promettendogli di attenderlo fino alla sua scarcerazione.
Scritto tra il 1958 e il 1959 e pubblicato per Einaudi nel 1960, La ragazza di Bube vince il premio Strega nello stesso anno e diventa in breve tempo un best seller. Il soggetto del romanzo è tipico di tutto il neorealismo; ma, contrariamente a molte delle opere riconducibili a questo filone, sembra mancare qualunque idealizzazione del periodo resistenziale – come del resto accadeva già in Fausto e Anna, la cui «visione antieroica» venne considerata da Palmiro Togliatti niente di meno che un vilipendio alla lotta di Liberazione. Non è facile capire lo scandalo rappresentato da questo romanzo negli anni Sessanta, in anni in cui il “revisionismo storico” si è tramutato in una gara a chi attacca con più veemenza la Resistenza. C’è però una chiara critica degli eccessi del periodo postbellico: agli occhi di Mara, del cugino Arnaldo e infine di Bube stesso, il giovane partigiano non è interamente responsabile di quanto accaduto: troppo incosciente delle sue azioni, e troppo disposto a obbedire agli ordini dei veri responsabili dei crimini commessi, ai quali «non gli succede nulla, e la pagano quelli che hanno meno colpa». Forse, oggi più di ieri, si può condividere il giudizio di Geno Pampaloni: «Il significato politico de La ragazza di Bube coincide con il suo significato poetico: una generazione sconfitta nella sua giovinezza. La Resistenza italiana non è tutta qui, ma è anche questo». Fortissimo è l’elemento esistenziale che fa di questi personaggi delle donne e degli uomini lacerati: Bube non può dimenticare il suo passato partigiano, sebbene la guerra civile sia conclusa, e sente il dovere di onorare la sua nomea di “Vendicatore” anche quando le circostanze non lo renderebbero necessario; Mara, invece, personaggio riuscito quant’altri mai nella narrativa di Cassola, vive il Bildungsroman di una ragazza di campagna che si erge, sia pure da piccoli centri toscani, a fronteggiare le ingiustizie della Storia e i tormenti del privato.
L’eccezionale successo del libro non mancò di scatenare vivaci polemiche. […] Più in generale, la critica accusò il romanzo di essere un prodotto consumistico; così il Gruppo 63, che di fronte al successo di vendite di Cassola lo definì la “Liala del 63”. Ma la più grave delle stroncature fu probabilmente quella di Nada Giorgi, moglie del Bube “storico”, quel Renato Ciandri condannato a quasi vent’anni di carcere e per la liberazione del quale Cassola stesso si prodigò. La Giorgi ebbe parole d’insoddisfazione per il libro che avrebbe dovuto parlare della sua storia, non riconoscendosi nel personaggio di Mara, e anni dopo, scomparsi sia Ciandri che Cassola, chiese allo scrittore Massimo Biagioni di stendere la sua biografia.
Il successo del romanzo ebbe in ogni caso un ulteriore rilancio dal film omonimo che Luigi Comencini realizzò nel 1963, con Claudia Cardinale nei panni di Mara e George Chakiris in quelli di Bube.
tratto da Il romanzo in Italia IV. Il secondo Novecento, a cura di Giancarlo Alfano e Francesco de Cristofaro, Carocci editore