“La questione meridionale in breve. Centocinquant’anni di storia” di Guido Pescosolido

La questione meridionale in breve. Centocinquant'anni di storia Guido PescosolidoProf. Guido Pescosolido, Lei è autore del libro La questione meridionale in breve. Centocinquant’anni di storia edito da Donzelli: quando e come nasce la questione meridionale?
Con l’espressione “questione meridionale” si indica generalmente quell’insieme di problemi posti dall’esistenza all’interno dello Stato italiano di una vasta area, corrispondente grosso modo alle regioni dell’ex Regno delle Due Sicilie, la quale rispetto al Centro-nord della penisola ha presentato sin dalla nascita dello Stato unitario e presenta tutt’ora un più debole sviluppo economico, uno svolgimento meno avanzato dell’insieme delle relazioni sociali, un più basso livello di importanti aspetti della vita civile. La “questione” nasce quindi con la formazione dello Stato unitario, perché da allora le condizioni sociali, economiche e politiche del Mezzogiorno cessarono di essere un problema interno del Regno delle Due Sicilie e divennero un problema del neonato Stato italiano, quindi un problema di tutti gli italiani.
La presa di coscienza da parte del governo della problematicità politica dell’inserimento del Mezzogiorno nello Stato unitario la si ebbe subito nel 1860-61 con l’insorgere del brigantaggio. La denuncia delle particolari condizioni economico-sociali del Mezzogiorno e l’introduzione stessa dell’espressione “questione meridionale” la si ebbe poi negli anni Settanta dell’Ottocento con la pubblicazione delle Lettere meridionali di Pasquale Villari e delle inchieste di Leopoldo Franchetti e Sidney Sonnino.

Quali vicende hanno segnato l’evolversi della questione meridionale?
Represso il brigantaggio, la questione meridionale si è configurata come problematica soprattutto economica e sociale di un Mezzogiorno che in 150 di vita dello Stato italiano ha fatto registrare in termini assoluti progressi considerevoli (il reddito pro-capite reale del Sud tra il 1861 e il 2010 si è moltiplicato per più di nove volte), mentre in confronto con il Nord (tranne un breve periodo tra 1962 e 1973) ha accumulato un ritardo crescente in termini di Prodotto interno lordo (pil) per abitante e di altri indicatori dello sviluppo economico, sociale e civile (investimenti, valore della produzione, occupazione, consumi pubblici e privati, livello dei servizi pubblici ecc.). Nel 1861 il divario tra Nord e Sud in termini di pil per abitante si aggirava intorno al 10% circa a favore del Nord, e il valore della produzione sia agricola che industriale segnava una differenza non dissimile; oggi il pil per abitante del Sud è pari a meno del 55% di quello del Centro-Nord). I termini della questione sono cambiati rispetto al 1861. In particolare né il Sud né il Centro-Nord d’Italia potevano allora definirsi aree industrializzate, data l’abissale distanza che le separava entrambe da Inghilterra, Francia, Belgio, Germania Olanda. Erano quindi due aree quasi ugualmente arretrate dal punto di vista industriale. Le differenze più marcate si registravano invece nelle infrastrutture (poco più di 100 km di ferrovie nel Regno delle Due Sicilie, contro circa 850 del solo Piemonte; la lunghezza della rete stradale meridionale era stimata circa un terzo di quella centro Settentrionale), nel sistema creditizio, nello sviluppo civile in genere (il Sud continentale aveva l’87% di analfabeti, la Sicilia l’89%, Piemonte-Lombardia-Liguria il 50-54%).

Con l’introduzione nel 1861 del sistema fiscale piemontese il Mezzogiorno, che col regime borbonico aveva un regime di tassazione più tenue ma anche una più bassa spesa pubblica in servizi, vide innalzarsi il proprio livello di tassazione a fronte di un maggiore sforzo in costruzioni ferroviarie e opere pubbliche. Con l’adozione del libero scambio nel commercio con l’estero, le poche industrie meridionali, specie quelle siderurgiche e meccaniche, ma anche tessili, entrarono in crisi, con esiti in alcuni casi esiziali; l’agricoltura meridionale invece si avvantaggiò della possibilità di collocare più facilmente all’estero i propri prodotti specializzati (vino, olio, seta, agrumi) che ebbero uno sviluppo vertiginoso, compensando in termini di produzione e reddito le perdite subite dal Sud nelle attività manifatturiere. Nell’insieme fino agli anni Ottanta dell’Ottocento il divario Nord-Sud nel pil per abitante non crebbe e cominciarono a ridursi le distanze in materia di dotazione di rete ferroviaria.
Negli anni Ottanta si ebbe nel Nord una prima fase di industrializzazione, mentre il Sud consolidava la vocazione eminentemente agricola della sua economia. Nel 1887 l’Italia abbandonò la politica commerciale liberista e adottò una tariffa doganale a protezione della cerealicoltura e dell’industria. La Francia introdusse per ritorsione dazi commerciali sulle importazioni di prodotti agricoli dall’Italia. Vino, olio e agrumi meridionali subirono pertanto un colpo micidiale, al quale si aggiunse negli anni Novanta la diffusione della fillossera della vite. Il reddito per abitante meridionale ebbe per alcuni anni e per la prima volta dopo l’Unità una flessione in termini assoluti. Il divario Nord-Sud nel pil per abitante cominciò costantemente a crescere, giungendo nel primo decennio del Novecento a più che raddoppiarsi rispetto al 1861, in conseguenza della formazione nel Nord di una autentica base industriale, grazie alla quale l’Italia iniziò però ad accorciare le distanze rispetto ai paesi europei più avanzati. Nel contempo l’economia del Sud restava marcatamente e persistentemente agricola, anche se ben più dinamica che in passato.

La prima guerra mondiale accentuò il divario Nord-Sud, richiedendo lo sviluppo un’industria bellica largamente concentrata nelle regioni settentrionali, mentre il Sud contribuiva alle spese di guerra e poi anche al peso finanziario dei dissesti seguiti alla riconversione dell’economia di pace.
Durante il fascismo, i contenuti successi conseguiti in materia di bonifiche e la nascita di un consistente polo industriale intorno a Napoli, peraltro quasi del tutto distrutto dai bombardamenti durante il secondo conflitto mondiale, furono ai fini del reddito per abitante furono in gran parte annullati dalla forte crescita della popolazione promossa dalla politica demografica del regime. La guerra fece il resto e all’inizio degli anni Cinquanta del Novecento il divario Nord-Sud nel pil per abitante toccò i suoi massimi storici (il reddito p.c. del Sud al 55% di quello del Centro-Nord), la differenza tra un Nord industrializzato e un Sud prevalentemente agricolo era tutt’altro che attenuata, l’inferiorità meridionale era netta in materia di infrastrutture e di sviluppo civile in genere (il Sud aveva ancora il 24% di analfabeti, mentre nel Nord il fenomeno era pressoché scomparso).

Con gli anni Cinquanta prese avvio la più grande fase di sviluppo economico che l’Italia unita abbia mai avuto e contestualmente anche il più determinato e finanziariamente imponente sforzo di dirottamento di risorse a favore del Mezzogiorno grazie all’intervento straordinario e all’istituzione della Cassa per il Mezzogiorno. Per la prima volta tra il 1962 e il 1973 il divario Nord-Sud nel Pil per abitante si ridusse, Anche nel Mezzogiorno nacquero numerosi nuclei industriali, l’agricoltura perse decisamente terreno di fronte all’avanzata dell’industria e soprattutto delle attività terziarie, scomparve quasi completamente la società contadina meridionale esistente nel 1861.
Dal 1973 in poi tuttavia il trend si invertì. Progressivamente entrò in crisi la maggior parte delle attività industriali e agricole, non compensate da un adeguato aumento dei flussi turistici e delle attività terziarie. Negli anni Ottanta venne messa in liquidazione la Cassa per il Mezzogiorno, definitivamente chiusa nel 1992-3. Si ebbe un drastico crollo di investimenti e un persistente ristagno della produzione. Il divario riprese ad allargarsi fino a ritornare nel XXI secolo più o meno al livello degli anni Cinquanta.
Nel frattempo mafia, camorra e ‘ndrangheta, da fenomeno specificamente meridionale sono diventate fenomeno nazionale,

Quali sono le cause dell’arretratezza del Mezzogiorno d’Italia?
Al momento dell’Unità i fattori di inferiorità dell’economia e della società meridionale rispetto a quella settentrionale, non stavano tanto, come abbiamo detto, nella produzione pro-capite, quanto nei sistemi infrastrutturali terrestri (strade e ferrovie), nel sistema creditizio, nella struttura economica e sociale delle campagne dominate all’interno ancora dal latifondo, nella presenza di criminalità organizzata legata alla gestione dei latifondi, nell’analfabetismo. Tali fattori trovavano tutti la loro origine nei decenni e nei secoli preunitari, e quasi tutti, tranne l’esistenza del latifondo, chiamavano in causa le scelte di politica economica effettuate dai Borboni nella prima metà dell’Ottocento. Essi determinarono il fatto che nei decenni seguenti il Mezzogiorno giunse a tutti gli appuntamenti con le occasioni di sviluppo in condizioni di maggiore debolezza rispetto al Nord. Sarà una pura coincidenza, ma resta un dato di fatto inoppugnabile che negli anni Ottanta dell’Ottocento l’industrializzazione ebbe il suo primo avvio nelle tre regioni (Liguria, Lombardia e Piemonte) che al momento dell’Unità avevano il maggior numero di km di ferrovie e il più basso tasso di analfabetismo. Successivamente l’economia meridionale fu penalizzata dal protezionismo adottato nel 1887, dalle conseguenze della prima e della seconda guerra mondiale, dalle scelte del regime fascista in materia di infrastrutturazione, che ricrearono un gap che il regime liberale aveva se non del tutto eliminato, certo drasticamente ridotto.

Quali sono stati, nel corso di questi 150 anni, i tentativi di risolvere la questione meridionale e perché sono falliti?
Nei primi quaranta anni di vita dello Stato liberale non furono adottate significative misure rivolte specificamente a favore del Mezzogiorno, che fino al 1880-7 non vide comunque aggravarsi il ritardo in materia di produzione e reddito. Senza leggi specifiche, ma nel quadro di una strategia di modernizzazione su scala nazionale, lo Stato liberale promosse un massiccio processo di infrastrutturazione ferroviaria che giunse ad annullare prima della Grande guerra il gap iniziale del Mezzogiorno rispetto al Nord nella rete a binario unico. Il primo rilevante tentativo, non certo di risolvere completamente, ma comunque di cominciare a sostenere con misure straordinarie il Mezzogiorno, fu costituito dalle leggi speciali all’inizio del secolo XX. Esse mirarono soprattutto a promuovere nel Sud lo sviluppo agricolo, infrastrutturale (strade, ferrovie, elettrodotti, acquedotto pugliese) e, limitatamente a Napoli, lo stabilimento siderurgico di Bagnoli. Furono misure positive che comunque non scalfirono la configurazione nettamente dualista dell’economia italiana, e il divario anziché diminuire, crebbe.
Il tentativo più rilevante in assoluto di eliminare il dualismo Nord-Sud, o comunque di ricondurlo entro le dimensioni consuete degli squilibri interni di tutti i paesi avanzati, fu attuato nel secondo dopoguerra con l’intervento straordinario. I risultati conseguiti nel cambiamento delle condizioni economiche e sociali del Mezzogiorno restano a tutt’oggi i più rilevanti della nostra storia unitaria, ma l’obbiettivo di avvicinare in modo risolutivo le due macroaree del paese fallì un po’ per l’insufficienza dei fondi destinati all’intervento straordinario (lo 0,7% del pil in media all’anno), ma soprattutto perché all’inizio degli anni Settanta, nel momento in cui sarebbe stato necessario intensificare e ottimizzare l’impiego delle risorse mediante una politica dei redditi rigorosa e una programmazione concepita in funzione della chiusura dello storico divario, le maggiori forze sindacali e politiche attuarono strategie salariali e di impiego delle risorse pubbliche che non permisero né politica dei redditi né programmazione mirata a risolvere il problema del Sud, ma diedero invece luogo ad un aumento dei consumi e delle spese improduttive che portarono all’aumento del debito pubblico che conosciamo e fecero dell’intervento straordinario uno dei terreni di caccia del clientelismo dei partiti politici e della corruzione. A loro volta le classi dirigenti delle regioni meridionali, istituite negli anni Settanta, non si sono dimostrate all’altezza dei loro compiti, non hanno ottenuto risultati migliori di quelli raggiunti dalla soppressa Cassa per il Mezzogiorno, hanno utilizzato in modo pessimo quantitativamente e qualitativamente i fondi europei e hanno alimentato a livello regionale clientelismo, corruzione e dissipazione di risorse.

Quale futuro per il Mezzogiorno?
Negli ultimi due anni e mezzo si è verificata un’ inversione di tendenza nell’andamento dell’economia meridionale rispetto al catastrofico seiennio 2008-14. L’andamento del pil per abitante è tornato a crescere e a tratti più di quello del Centro-Nord. Sono tornati a crescere in tutta Italia produzione e occupazione. Insomma come minimo il Sud sta tenendo il passo del Nord, anche se entrambi crescono meno della media dell’UE. Credo che il futuro del Mezzogiorno dipenderà interamente dalla sua capacità almeno di tenere il ritmo dell’Italia del Centro-Nord, e il futuro dell’Italia nel non perdere terreno rispetto all’Europa. A tal fine sarà indispensabile ricreare un quadro istituzionale ed economico-sociale che sia attrattivo per gli investimenti produttivi, un quadro in cui le finalità delle politiche di governo siano quelle di accompagnare con investimenti pubblici la ricostituzione delle capacità del sistema Italia, e soprattutto del Mezzogiorno, di produzione e offerta di beni competitivi, senza dissipare risorse nel sostegno ai consumi superflui.

Guido Pescosolido è ordinario di Storia moderna nell’Università di Roma La Sapienza

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