“La psicologia del giocatore di scacchi” di Reuben Fine

La psicologia del giocatore di scacchi
di Reuben Fine
Adelphi

«Nella letteratura psicoanalitica, la trattazione classica sugli scacchi è quella di Ernest Jones intitolata The Problem of Paul Morphy, letta alla British Psychoanalitical Society nel 1930 e pubblicata nel 1931.

Lo scopo di questo saggio così penetrante è di delineare una patografia di Paul Morphy, del quale parleremo più tardi. Per quanto riguarda invece la questione più generale della psicologia degli scacchi, Jones stabilisce i seguenti punti: gli scacchi sono, come è evidente, un gioco sostitutivo dell’arte della guerra; il movente inconscio che spinge all’azione i giocatori non è semplicemente il gusto per l’agonismo, che è caratteristica comune a tutti i giochi competitivi, ma quello più oscuro dell’uccisione del padre. Inoltre, l’aspetto matematico proprio di questo gioco dà ad esso una peculiare coloritura sado-anale. Il senso di predominanza provato da uno dei due giocatori trova il suo corrispondente in quello di impotenza totale provato dall’altro. È proprio questa qualità sado-anale che lo rende così idoneo a gratificare contemporaneamente sia gli aspetti omosessuali sia quelli antagonistici, propri della contesa tra padre e figlio. Gli altri saggi in proposito, come quelli di Karpman, Coriat, Menninger, e Fleming, non aggiungono molto di sostanziale alla tesi di Jones. Tutti concordano nel sostenere che negli scacchi si sublima una
mescolanza di impulsi omosessuali e aggressivi.

Questo tipo di approccio è centrato sui conflitti della libido, ma pur chiarendo certi aspetti del gioco, ne trascura tuttavia molti altri. Dopotutto, il conflitto tra antagonismo ed affetto nei confronti del padre è alla base di qualsiasi scontro fra due uomini. A causa della presenza generalizzata dei sottostanti conflitti della libido, la psicoanalisi moderna (specialmente negli ultimi trent’anni) ha sempre più concentrato la sua attenzione sull’io. Scopo di questo nostro saggio è di affrontare la questione di ciò che differenzia il giocatore di scacchi dagli altri uomini, sia dal punto di vista dell’io sia da quello dell’es.

La letteratura psicoanalitica ci offre su questo punto diversi studi interessanti, che riassumeremo in breve.

In occasione del torneo internazionale di scacchi svoltosi a Mosca nel 1925, tre professori di psicologia, Djakow, Petrowski e Rudik, sottoposero dodici partecipanti ad una serie di test psicologici, compreso quello di Rorschach. […]

Nei test psicometrici, i maestri di scacchi si dimostrarono di gran lunga superiori ai controlli (non ulteriormente descritti) in tutte le prove relative alla scacchiera e ai pezzi, come per esempio la capacità di ricordarne le posizioni. Ma in altri test questa superiorità fu confermata soltanto in due prove: nella capacità di notare simultaneamente molte cose diverse (Aufmerksamkeitsvertilung), e nel pensiero astratto (serie numeriche). Non fu quindi provata l’idea che i giocatori di scacchi abbiano in generale un’intelligenza maggiore, una memoria superiore e sappiano concentrarsi meglio degli altri. Secondo i criteri attuali in materia, i test scelti erano tuttavia così rozzi e i metodi così inefficaci che non si può dare grande valore a queste conclusioni. […]

Samuel Reshevsky, campione del mondo occidentale, quando era un ragazzo prodigio di nove anni (raggiunse il livello di maestro a cinque anni), si sottopose ad una serie di test psicometrici da parte della psicologa svizzera Franziska Baumgarten. La sua intelligenza verbale era inferiore alla media, e il suo sviluppo generale non raggiungeva nemmeno quello di un qualsiasi ragazzo berlinese di cinque anni. In un solo test, quello mnemonico coi numeri, egli raggiunse risultati eccezionali. La conclusione della psicologa è quindi analoga a quella degli psicologi russi. Anche qui, però, il metodo seguito era difettoso, e non teneva conto del fatto che il ragazzo era stato assorbito dagli scacchi per anni, a tal punto che non aveva frequentato regolarmente la scuola. Reshevsky finì poi l’università negli Stati Uniti, dimostrando comunque un’intelligenza superiore alla media. […] Nel 1938 lo psicologo olandese A. de Groot, che è anche un maestro di scacchi, analizzò i processi mentali di un certo numero di maestri e di alcuni dilettanti. La sua conclusione più utile fu forse la conferma che il giocatore di scacchi nell’analizzare una posizione segue un processo mentale molto simile a quello di un ricercatore che vuol trovare la soluzione di un problema scientifico. Il giocatore di scacchi è però in uno stato di tensione e di incertezza continue fin quando non trovi la mossa giusta, e in molti casi egli non può sapere con certezza quale sia questa mossa giusta.»

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