
Come viene rappresentato il tempo nell’arte?
È difficile parlare di “rappresentazione” del tempo, termine che evoca una similitudine e una relazione diretta, materiale, finanche figurativa, con l’oggetto rappresentato. Il tempo, al contrario, è una dimensione sfuggente, una grandezza immateriale e per molti aspetti soggettiva. Anche volendo superare la pregiudiziale esclusione dell’orizzonte temporale dalle arti figurative, dobbiamo riconoscere che il tempo può essere espresso, implicato, evocato, comunicato, ma forse non rappresentato, se non in modo obliquo, attraverso forme e modi altri, che il libro cerca di mettere in luce. Gli artisti si sono variamente cimentati con la temporalità, cercando di aggirare gli ostacoli obiettivi che ne impedivano la visualizzazione diretta, creando delle strutture e mettendo a punto delle strategie compositive e comunicative che potessero suggerire, ad esempio, lo sviluppo temporale di un racconto, la successione di accadimenti la cui narrazione era tradizionalmente appannaggio della poesia e delle forme artistiche legate alla parola.
Quali soluzioni hanno adottato gli artisti per la messa in figura del calendario?
La storia della misurazione del tempo ci parla di approssimazioni successive a una ideale misura di esattezza, testimonianze di un’urgenza profonda e ancestrale; misurare significa, infatti, ordinare, controllare, o quanto meno averne l’illusione, nel desiderio di sottrarsi alla fluttuazione incerta di un divenire privo di scopo, sospeso nel nulla. Grazie ai calendari e agli orologi, il tempo assume una forma certa e condivisa, divenendo un sistema di riferimento per inquadrare azioni e avvenimenti e, soprattutto, instaurando un orizzonte di attese che trova, nella scansione e nella ripetizione, senso, conferme e certezze. È importante sottolineare
come anche l’idea del tempo sia stata culturalmente determinata, sottostando a diverse regole, a seconda del luogo e dell’epoca. Così, la predominanza di una visione ciclica piuttosto che lineare del tempo, o i modi della loro interrelazione, variano a seconda delle religioni e delle società e, ancora oggi, sono in uso calendari diversi che mostrano con chiarezza tanto la convenzionalità delle date e delle scansioni temporali, quanto il diverso modo di pensare il tempo.
Se i calendari, di cui abbiamo testimonianze antichissime, ci raccontano le diverse versioni della misurazione del tempo, i Calendari figurati sono la prima e più immediata forma di trascrizione visiva delle idee che sostanziavano le varie concezioni del tempo: presenti già nel mondo classico, soprattutto in opere musive, vengono recuperati e investiti di nuovi significati nella cultura medievale, in cui il tema acquista una straordinaria importanza e diffusione. I Cicli dei Mesi, dove il lavoro scandisce la vita dell’uomo, vengono inseriti all’interno delle principali decorazioni religiose, come i portali delle Cattedrali, vere summae della visione del mondo medievale, ma si trovano anche negli affreschi, nelle miniature, nei mosaici pavimentali, etc., diventando una specie di verbo comune, una convenzione narrativa ispirata a una medesima visione del tempo, che si diffonde in tutta Europa.
Il tempo del lavoro, scandito e orientato dal succedersi dei mesi, finalmente liberato dalla condanna di essere la conseguenza del peccato originale, collega l’umano al divino in un unico progetto universale; si muove, infatti, in un orizzonte ciclico che corrisponde al ritmo della vita, ma deve essere necessariamente rivolto a Dio e alla fine dei tempi. I segni dello zodiaco fungono da elementi di mediazione tra il cielo e la terra, giacché nessuna contraddizione viene vista tra il tempo degli astri, tempo appartenente alla natura, e quello della Chiesa.
In che modo, nel genere della Vanitas, la fragilità dell’esistenza e il carattere effimero dei beni terreni divengono espliciti?
Come sempre è accaduto, la riflessione sugli aspetti fondamentali del credo religioso è supportata e guidata dalle immagini e attorno al memento sulla transitorietà e fugacità dell’esistenza si è condensato uno dei più ricchi filoni della produzione della pittura di genere europea, quello della Vanitas. Vero e proprio sotto-genere della natura morta, il tema trova infinite declinazioni, ma il teschio, come rimando ultimo e definitivo al destino ineluttabile dell’uomo, è l’elemento distintivo primario che ci permette di riconoscere, in modo inequivocabile, qualsiasi natura morta ove compaia la testa della morte come una Vanitas. Accanto al teschio o altre ossa umane, compaiono generalmente elementi che alludono alla misurazione del tempo, come le clessidre o gli orologi; al suo trascorrere, in primis le candele fumiganti; al suo potere corruttivo che fa sfiorire la bellezza, normalmente esplicitata nel fiore che perde i petali e inizia a sfiorire.
Ma, se questi sono gli indici del tempo più ricorrenti e di immediata comprensione, soprattutto nelle versioni scarne e essenziali del tema, il repertorio oggettuale delle Vanitas si moltiplica e si espande a dismisura, quanto più l’accento si sposta dalla riflessione sulla morte a quella sulla sostanza effimera delle cose e della bellezza.
Non solo teschi, candele o fiori, dunque, ma cibo che marcisce, insetti e roditori, pipe e tabacchiere, oggetti preziosi e una grande insistenza sull’opulenza, la ricchezza e il potere come simboli della vanità umana, in un caleidoscopio di invenzioni e di impaginazioni, tutte volte a sottolineare l’assoluto potere distruttore del tempo che rende vano qualsiasi attaccamento ai beni materiali.
Come si manifesta l’esperienza di un continuum temporale nella serie?
Quando parliamo di serie intendiamo un insieme di opere, collegate tra loro, da considerare come un blocco unico, organico e coerente: la percezione unitaria prolunga e dilata il tempo della singola immagine, offrendo l’esperienza di un’immersione nella durata temporale. La scelta di molti artisti, che sta diventando quasi una tendenza nell’arte contemporanea, di lavorare su dei nuclei tematici ripetitivi — spesso lo stesso soggetto ripreso in diversi momenti del giorno o reiterato in modo strutturalmente simile, ma con sottili differenze — genera delle immagini che trovano nella dialettica tra permanenza e variazione la chiave per registrare e rendere visibile l’influsso e la presenza della temporalità. Solo nella visione d’insieme, nel passaggio dall’opera singola alla serie, è possibile, infatti, mettere in scena un’articolazione in cui la vibrazione specifica che caratterizza ogni immagine deve essere letta in relazione alle altre, acquisisce il suo significato di marca temporale “solo attraverso il confronto e la successione della serie intera”, per usare le parole di Monet che è stato uno dei primi artisti a fare della serie una scelta espressiva.
Quali significati ha acquisito, nelle ricerche dei più importanti artisti contemporanei, il tema della memoria e della sua salvaguardia?
Il tema della memoria e della sua trasmissione ha sempre rappresentato una delle principali ragion d’essere e dei moventi propri dell’opera d’arte — basti pensare alla funzione del monumento, dal latino monumentum, letteralmente ricordo, ma derivato dal verbo monere che significa anche far ricordare, illuminare, istruire — e lo stesso patrimonio culturale è considerato un deposito della memoria, luogo in cui si intersecano memorie individuali, di gruppo, sociali e storiche; tenere viva la memoria, in tutte le sue forme, è, dunque, una responsabilità collettiva, ma anche un modo per sconfiggere l’oblio, l’usura del tempo. Dopo gli orrori della Seconda Guerra mondiale, tutto muta di significato, ma soprattutto si trasforma l’idea di memoria e delle immagini possibili con cui attraversarla e la necessità anche “politica” della memoria, come testimonianza da trasmettere alle generazioni future, monito contro la barbarie, è divenuto uno dei temi portanti della riflessione collettiva, non solo a livello artistico. Dai “luoghi della memoria” ai musei della memoria, fino alle risposte fornite da artisti come Richter, Kiefer o Boltanski, la ricerca di un linguaggio efficace, ma non retorico, in grado di porsi come argine alla perdita della memoria che caratterizza il mondo contemporaneo, è diventata una necessità morale.
Beatrice Peria è una storica dell’arte con una formazione iconologica. Ha pubblicato studi specialistici sull’iconografia dell’arte veneta del ‘500, in particolare del tema dell’Ultima cena, ma si è occupata anche del rapporto tra parola e immagine, di pittura italiana dell’Ottocento, di Libro d’artista. I suoi interessi si sono spostati recentemente sulla continuità e circolazione di temi e motivi tra arte classica, moderna e contemporanea. Ė docente di Storia dell’arte all’Accademia di Belle Arti di Roma, dove si occupa anche del coordinamento di progetti internazionali.