“La piccola morte di Alessandro il Grande. La fine di un eroe tra storia e mito” di Ernesto Damiani

Prof. Ernesto Damiani, Lei è autore del libro La piccola morte di Alessandro il Grande. La fine di un eroe tra storia e mito edito da Marsilio: cosa sappiamo della morte del sovrano macedone?
La piccola morte di Alessandro il Grande. La fine di un eroe tra storia e mito Ernesto DamianiSulla morte di Alessandro III di Macedonia, detto «il Grande», abbiamo alcune certezze. Sappiamo di sicuro che il re del mondo, come è definito in un testo babilonese in caratteri cuneiformi edito nel 1997 dal professor Giuseppe Del Monte, è deceduto nel 323 a.C., all’età di 33 anni non ancora compiuti, a Babilonia, circa un anno dopo essere tornato dalla spedizione in India. La data di morte è generalmente compresa tra il 10 e il 13 giugno, anche se lo stesso testo babilonese indica con maggiore precisione come data probabile, o almeno accettata ufficialmente allora, la notte tra il 10 e l’11 giugno. È anche sicuro che Alessandro non morì in combattimento, o per le conseguenze di ferite riportate in battaglia, e che la morte arrivò improvvisa e senza preavvisi, mentre Alessandro stava pianificando una nuova spedizione nella penisola Arabica. Tutte le fonti antiche concordano sul fatto che il percorso cronologico conclusosi con la morte Alessandro iniziò dopo la sua partecipazione a un banchetto offerto da un compagno, il tessalo Medio.
Da lì in avanti, molta nebbia è stata sparsa sulla vicenda della morte del giovane sovrano macedone, a mio parere non sempre per nobili finalità attinenti alla Storia. Il fatto che la letteratura giornalistico-divulgativa privilegi l’ipotesi dell’avvelenamento non sorprende, perché, mutuando le parole usate da Beniamino Placido proprio a riguardo della morte di Alessandro Magno, «lo si dice sempre in questi casi-che c’è stata una congiura: che è stato avvelenato». In particolare, nel caso dell’improvvisa scomparsa di un Líder Máximo, l’ipotesi dell’avvelenamento è spesso utilizzata contro gli avversari politici a fini propagandistici, basti pensare ai casi recenti del presidente dell’Autorità palestinese Yasser Arafat, che sarebbe stato avvelenato con il polonio210 dai servizi israeliani, o del presidente venezuelano Hugo Chavez, che sarebbe stato addirittura ‘avvelenato’ con un cancro trasmessogli dai servizi statunitensi. Si tratta di storia vecchia, e che ha un precedente proprio nella vicenda di Alessandro. Infatti, già Plutarco ricordava che l’ipotesi dell’avvelenamento di Alessandro da parte di Iolao, figlio di Antipatro che nel 323 a.C. era reggente di Macedonia, fu avanzata da Olimpiade, madre di Alessandro, soltanto sei anni dopo la morte del figlio, come strumento di lotta propagandistica nei confronti di Antipatro, divenuto nel frattempo il sovrano della Macedonia. A tutto ciò va aggiunto il fatto che la tendenza a inserire elementi romanzeschi nella storia è sempre esistita. Già Tucidide avvertiva contro questo pericolo, ammonendo che «il tono severo della mia storia, mai indulgente al fiabesco, risulterà meno attraente all’orecchio». Infine, va tenuto presente l’interesse dell’editoria nel promuovere libri maggiormente vendibili al grande pubblico, anche se storicamente meno attendibili. Come scriveva il grande storico Fernand Braudel (1902-1985), «pensate al successo e alla diffusione delle biografie romanzate, letteratura a forte tiratura e ad alto rendimento economico, e paragonateli alla tiratura dei veri libri di storia». Murder in Babylon è un titolo senz’altro più accattivante, e dunque vendibile, di Alessandro morì di tifo addominale.
Ad ogni modo, altra cosa sicura è che la teoria dell’avvelenamento, così gradita alla letteratura giornalistica e divulgativa, è del tutto marginalizzata nella bibliografia scientifica. Infatti, quest’ipotesi è stata presa in considerazione soltanto in 6 dei 74 lavori scientifici, che ho analizzato nel mio lavoro. In altri termini, meno del 10% del totale degli autori considera credibile la morte per avvelenamento, con buona pace di tutti i libri, e sono stati tanti, pubblicato nel 2004 opportunisticamente in coincidenza con l’uscita nelle sale cinematografiche del film Alexander di Oliver Stone, uno dei più grandi fiaschi della storia cinematografica. Ovviamente, poiché i veleni considerati sono stati troppi (arsenico, stricnina, elleboro, calicheamicina, cicuta), e poiché le sintomatologie causate da questi tossici sono del tutto differenti tra loro, non si può non rimanere assai perplessi di fronte al fiorire di queste ipotesi. La stragrande maggioranza degli studi scientifici seri, pubblicati sulle riviste peer-reviewed, ha concluso che Alessandro è morto per cause naturali, anche se con una eccessiva disparità di opinioni relative alla specifica malattia.

Quali fonti ha analizzato nella stesura del libro?
Gli scrittori antichi che hanno raccontato la morte di Alessandro Magno, sono, in ordine cronologico, il greco Diodoro di Agirio detto Siculo (I a.C.), autore di una storia universale, Biblioteca, dai tempi mitologici fino al 60 a.C.; il più famoso Plutarco di Cheronea, autore tra la fine del I d.C. e l’inizio del II d.C. delle Vite parallele, in cui accoppia la narrazione della vita di Alessandro a quella di Giulio Cesare; il greco Lucio Flavio Arriano di Nicomedia (ca 95-175 d.C.), autore della Anabasi di Alessandro, una storia di Alessandro in sette libri; e infine lo storico romano Marco Giuniano Giustino (forse II d. C), autore di un compendio delle Historiae Philippicae di Pompeo Trogo. A queste fonti, andrebbero aggiunte, infine, le Storie di Alessandro Magno dello storico latino Quinto Curzio Rufo (I d.C.), opera che pur essendo considerata tra le più attendibili, è purtroppo lacunosa proprio nella parte riguardante la morte di Alessandro, e dunque inutilizzabile ai fini diagnostici.
La lettura di queste fonti rivela immediatamente che non possono essere utilizzate come un singolo, unitario gruppo. Da una parte, ci sono le narrazioni di Plutarco e di Arriano, quasi del tutto confrontabili tra loro, dall’altra i resoconti di Diodoro Siculo e Giustino, totalmente incompatibili con quelli di Plutarco e di Arriano e anche discordanti tra loro. Diodoro racconta la morte di Alessandro in sole quattordici righe, quasi del tutto prive di indicazioni semeiologiche ad eccezione del dolore, e senza fornire alcuna indicazione sulla durata della malattia. Per quanto riguarda Giustino, poi, la sua versione descrive una malattia protrattasi per sei giorni, di cui non fornisce alcuna descrizione, fatta eccezione per un dolore trafittivo d’esordio. In aggiunta, va detto che Plutarco nega esplicitamente gli eventi riportati da Diodoro Siculo, dicendo che «[Alessandro] non aveva bevuto alla tazza di Eracle, né lo aveva preso all’improvviso un dolore di schiena…come poi alcuni hanno ritenuto di dover scrivere, quasi volessero costruire la fine tragica e dolorosa di un grande dramma», mentre Arriano li considera «dicerie non degne di fede».
Purtroppo, la meta-analisi della letteratura scientifica rivela che molti autori non hanno letto personalmente le fonti antiche. Infatti, molte pubblicazioni sono ‘Letter to the Editor’, in cui gli autori hanno proposto ipotesi diagnostiche, sulla base di quanto riportato da altri. A questo grave errore metodologico si aggiunge che, in molti casi, le fonti sono state assemblate a piacere. È del tutto evidente, che la prassi di assemblare a piacere le fonti antiche, sebbene antitetiche, è del tutto criticabile, in quanto ha il solo risultato di creare un decorso clinico della malattia di Alessandro che differisce da ogni singola descrizione degli autori antichi, inficiando così qualsiasi affidabile conclusione. Al contrario, è del tutto legittimo utilizzare le diverse fonti isolatamente, laddove non siano comparabili tra loro. Per questa ragione, ci si può basare sul resoconto della coppia Plutarco-Arriano, oppure sulle narrazioni di Diodoro o di Giustino, ma non su Diodoro e Giustino assieme, in quanto le due fonti non sono mediabili tra loro.
Nel mio lavoro, dunque, mi sono basato sulle descrizioni della morte di Alessandro tramandateci da Plutarco e da Arriano. Le ragioni a favore della scelta di basarsi su Plutarco e su Arriano per formulare un’ipotesi diagnostica sono molteplici. Innanzi tutto, la descrizione della malattia riportata da questi due autori si fonda su una fonte primaria e ufficiale, le Efemèridi reali, cioè Diari del re quotidianamente redatti da due segretari del sovrano, Eumene di Cardia primo segretario fino al 324 a.C., e poi Diodoto d’Eritrea fino alla morte del sovrano macedone. Il fatto, che già a partire dall’epoca del padre di Alessandro, Filippo II, i re macedoni redigessero una sorta di Diario storico, è generalmente accettato. Sebbene alcuni abbiano sollevato dubbi sull’autenticità dei Diari del re, la pluralità e la sostanziale concordanza delle testimonianze al proposito non permettono di nutrire molti dubbi sull’esistenza di tali diari. Sappiamo, infatti, che Tolomeo possedeva una copia dei Diari reali, probabilmente proprio quella personale di Alessandro, della quale Tolomeo sarebbe entrato in possesso durante il trafugamento della mummia di Alessandro. Di questa copia delle Efemèridi reali, Tolomeo si sarebbe servito nella redazione della sua opera storica su Alessandro, andata perduta ma estesamente citata da Arriano. Inoltre, esiste una notizia del lessico bizantino Suda, secondo il quale nella prima metà del III secolo a. C. un certo Strattis di Olinto avrebbe scritto un commento in 5 libri sulla copia delle «Efemèridi reali» conservata nella biblioteca di Alessandria. Il fatto che Plutarco e Arriano si basino sulla versione integrale delle Efemèridi reali riguardante l’ultima malattia di Alessandro marca una differenza sostanziale rispetto a Diodoro Siculo e Giustino. Infatti, sebbene questi autori non dichiarino esplicitamente su quali fonti costruiscano la loro versione della morte di Alessandro, tuttavia l’opinione generale è che si basino su fonti secondarie, popolari e sensazionali, note complessivamente come la Vulgata, il cui autore più noto nell’antichità fu Clitarco di Colofone, storico greco contemporaneo di Alessandro, il quale peraltro non aveva accompagnato in Oriente il re macedone.
Il secondo argomento a favore dell’utilizzo delle versioni di Plutarco e di Arriano è che sono molto simili tra loro, anche se non identiche. Per questa ragione, da tempo tra gli storici di Alessandro è invalsa la prassi di considerare le due versioni unitariamente. Il primo a fondere in un unico testo i due resoconti fu Guillaume-Emmanuel-Joseph de Clermont-Lodève Guilhem, meglio noto come barone di Sainte Croix (1746-1809), a cui si deve il primo studio di critica storica sulle fonti antiche relative ad Alessandro. Lo stesso fecero William Vincent (1739-1815), rettore di Westminster e studioso della geografia antica, che nel 1797 pubblicò il resoconto del viaggio di ritorno di Nearco dall’Indo a Babilonia , e George Grote (1794-1871), uno dei principali storici di Alessandro, autore nel 1846 di una fondamentale History of Greece. Ultimo in ordine di tempo, ma non d’importanza, fu Émile Littré (1801-1881), un filologo classico prestato alla Medicina, meglio noto come curatore del Corpus Hippocraticum, che nel 1853 analizzò la morte di Alessandro basandosi «sugli estratti dei Diari reali concordanti tra loro tramandati da Arriano e da Plutarco». In tempi recenti, Francesco Sisti ha riproposto la lettura vis à vis dei due testi.
La terza ragione, fondamentale per lo scopo diagnostico del mio lavoro, è che i resoconti di Plutarco e di Arriano sono lunghi, e particolarmente dettagliati. Entrambi descrivono tredici giorni di malattia febbrile, lentamente ma costantemente ingravescente, non accompagnata da alcuna sintomatologia d’organo (tosse, espettorazione, vomito, diarrea, dolori, tumefazioni visibili), o da alterazioni cutanee (modificazioni del colore, presenza di lesioni elementari). Gli unici sintomi desumibili dalle narrazioni, in aggiunta alla febbre, sono una progressiva perdita della mobilità, la perdita della voce e un’alterazione dello stato di coscienza nella seconda settimana di malattia . Queste descrizioni, dunque, a mio parere contengono particolari dell’ultima malattia e della morte di Alessandro sufficienti a confutare l’opinione popolare che questo eroe sia morto avvelenato.

Nel Suo testo, Ella conduce una vera e propria indagine diagnostica per giungere a formulare ipotesi cliniche sulle cause della morte di Alessandro: con quali conclusioni?
Proprio l’abbondanza delle considerazioni semeiologiche, deducibili dalle dettagliate descrizioni di Plutarco e di Arriano, permette di formulare plausibilmente l’ipotesi, che Alessandro sia morto di febbre tifoide, una malattia infettiva causata dal batterio Salmonella tiphi. Questa conclusione si basa sulla compresenza nella malattia di Alessandro dei due sintomi fondamentali della febbre tifoide, la febbre remittente e lo stupor.
La febbre remittente è un particolare tipo di febbre, in cui la temperatura inizia a salire alla sera, per quindi scendere nuovamente nelle ore mattutine del giorno successivo, per poi salire in modo più considerevole la sera successiva. In questa tipologia di febbre, questo stadio iniziale, caratterizzato da fasi di ascesa che si alternano a fasi di parziale remissione, può durare fino a una settimana, dopo di che la febbre diviene alte continua, di giorno e di notte. Questa termografia, che ha preso il nome di curva di Wunderlich, dal nome del medico tedesco Carl Reinhold Wunderlich che per primo lo descrisse, è talmente specifica della febbre tifoide, che la diagnosi può essere fatta con sicurezza basandosi unicamente su tale andamento febbrile. Il primo argomento decisivo per sostenere l’ipotesi della febbre tifoide è che l’evoluzione della febbre di Alessandro, descritta da Plutarco e da Arriano, corrisponde in pieno a quello della curva di Wunderlich. Infatti, la febbre di Alessandro ascende lentamente e in modo progressivamente ingravescente nei primi sette giorni di malattia. Il sovrano è descritto come febbricitante di notte nei giorni 17 e 18 Daisio. Poi, la febbre, diviene continua notturna in quarta giornata, elevata e continua al 22 Daisio, infine molto alta di notte dal 25 Daisio, e molto alta di giorno e di notte a partire dal 26 Daisio. Questa marcia della febbre, lenta e per oscillazioni ascendenti, detta a «scalini» o a «scaglioni» o a «denti di sega» a seconda dei differenti Autori, mentre corrisponde fin troppo alla curva di Wunderlich, differisce in maniera nettissima dalle febbri che ascendono in maniera rapida e senza remissioni, come accade ad esempio nella malaria. In aggiunta, è da notare che, nella descrizione della malattia di Alessandro, non compaiono mai i sintomi «brivido» e «sudorazione», che infatti non sono caratteristici della febbre remittente, ma che sono viceversa tipici delle febbri malariche acute.
Se, dunque, a mio parere non è difficile evidenziare nei resoconti di Plutarco e di Arriano la descrizione di una febbre remittente di tipo tifoide, più ardua è stata la dimostrazione dell’altro sintomo tipico della febbre tifoide, lo stupor, uno stato di alterazione di coscienza caratterizzato sonnolenza profonda, da un’assenza più o meno completa di movimenti, insieme con mancanza o ridotta reazione agli stimoli esterni. La dimostrazione della presenza anche dello stupor nelle relazioni di Plutarco e di Arriano è stato l’oggetto di un recente lavoro, in corso di pubblicazione negli Atti e Memorie dell’Accademia galileiana di Padova. I Diari reali riportano che, in stadio avanzato di malattia, Alessandro fosse ἄφωνος. In questa parola è contenuto l’indizio chiave dello stupor. Infatti, sebbene il termine greco sia in genere tradotto letteralmente come «privo di voce», in realtà è un termine tecnico sintomatologicamente espressivo, facente parte del lessico della patologia ippocratica. Questa nozione ci è stata trasmessa da Celio Aureliano, un medico probabilmente africano vissuto tra la fine del IV e l’inizio del V secolo d.C. Nel II libro del suo opus magnus, De morbis acutis et chronicis libri VIII, Celio spiega che il termine ἀφωνἰα era usato sia da Ippocrate che da Diocle di Caristo, altro medico greco del IV secolo a.C., per indicare una specifica malattia febbrile, caratterizzata da ottundimento del sensorio e sonnolenza, da inattività e rallentamento motorio, e da una peculiare lentezza nel rispondere alle domande. Per Ippocrate, dunque, ἀφωνἰα non significa banalmente «perdita di voce», ma definisce una malattia sui iuris, in cui lo stato di depressione del sensorio con assopimento profondo si associa a febbre acuta, sia essa continua oppure intervallata da fasi di remissione. La somiglianza tra questa condizione e lo stato tifoide, definito come lo stato febbrile di alterazione della coscienza tipico della febbre tifoide, è stringente.
La ragione per cui Ippocrate usa l’afonia, cioè un segno di malattia, per denominare il morbo ce la spiega Galeno, famoso medico greco del II secolo d.C. Infatti, nei suoi commenti agli Aforismi di Ippocrate, per ben due volte Galeno afferma che era consuetudine di Ippocrate denominare le malattia sulla base di un sintomo precipuo. Dunque, Ippocrate chiamava muti (ἄφωνοι) tutti coloro che versavano in uno stato di grave depressione del sensorio e della mobilità, e che di conseguenza erano privi della voce. Questo utilizzo da parte di Ippocrate del termine ἄφωνος, come indicativo di uno stato di alterazione della coscienza, si trova anche in altre parti del Corpus Hippocraticum, ad esempio nelle Epidemie, in cui Ippocrate definisce semplicemente afoni coloro che si trovano in uno stato di totale incoscienza, anche a seguito di uno svenimento.
Al termine di questa indagine sulla malattia fatale ad Alessandro, a mio parere è possibile trarre legittimamente alcune conclusioni. La prima è che, sulla base del concetto ippocratico di ἀφωνία, così come tramandatoci da Galeno e da Celio Aureliano, negli ultimi giorni di malattia Alessandro si trovasse in uno stato di alterata coscienza, e questa era la ragione per cui non aveva voce. D’altro canto, la compresenza dello stupor e della febbre remittente nel quadro clinico di Alessandro permette di concludere in maniera inequivocabile, che Alessandro fosse malato di febbre tifoide.
In conclusione, la spiegazione più probabile, dunque, è che Alessandro sia inaspettatamente morto a causa di un batterio, avendo avuto in sorte una vita straordinaria e unica nella storia dell’umanità, ma anche una morte ordinaria da uomo qualunque.

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