
Come giunse la peste nell’Europa del Trecento e quale percorso seguì il contagio in Italia?
Quando la peste giunse nell’Europa occidentale, il batterio responsabile del morbo (noto come Yersinia Pestis) esisteva già da millenni. Il nucleo originario di partenza sembra essere stato l’Altopiano del Tibet, dove il bacillo era endemico tra le popolazioni dei roditori locali. Un’ipotesi interessante colloca al periodo dell’invasione mongola dell’impero cinese della dinastia Xi-Xia (1210-1227) la prima diffusione medievale dell’epidemia nell’uomo, dovuta al contatto degli eserciti, delle loro provviste e dei loro rifiuti, con i roditori infetti e con le relative pulci, responsabili del contagio. In ogni caso, la peste arrivò in Europa molto dopo. Si è dato credito a lungo alla testimonianza, indiretta e posteriore, del cronista piacentino Gabriele de Mussis, autore di una storia della diffusione del morbo, secondo il quale i conflitti in essere a Caffa, avamposto veneziano sul Mar Nero, con i mongoli dell’Orda d’Oro avrebbero costituito la causa scatenante del contagio: i mongoli avrebbero, infatti, usato i cadaveri dei propri uomini deceduti di peste come una sorta di “arma batteriologica”, lanciandoli oltre le mura della città per infettare i nemici. Oggi sappiamo che, in realtà, non fu questo conflitto che generò il contagio, ma, al contrario, la sua fine: terminate le ostilità, poterono, infatti, riprendere i commerci di grano tra il Mar Nero e l’Italia, tramite navi che portavano con sé anche i topi infetti e le pulci. L’arrivo delle prime navi genovesi a Messina fra l’estate e l’autunno del 1347, segnò dunque l’ingresso della peste non solo in Italia, ma in tutta Europa, che nel giro di un lustro fu interessata dalla peste quasi ovunque tra l’Inghilterra e la Russia. Le vie commerciali segnarono il percorso del contagio: in Italia i principali porti – Messina, Genova, Venezia, Pisa, Napoli ed altri – divennero luoghi di propagazione verso l’interno. Entro la fine del 1348 praticamente ogni regione italiana era stata contagiata, con l’eccezione di Milano (che però non sarebbe sfuggita alla seconda ondata, nel 1361). È probabile che alla diffusione della malattia per via animale si sia presto aggiunta anche quella per via umana, dovuta ai droplets di saliva (per quanto riguarda la versione polmonare della peste), e, probabilmente, all’azione del pidocchio umano: è quest’ultima un’ipotesi avanzata recentemente da alcuni scienziati, che, in effetti, spiegherebbe la velocità di propagazione del contagio, senza incorrere in una serie di problemi altrimenti presenti, primo fra tutti la massiccia presenza di topi infetti, mai segnalata dalle fonti.
Da quali altre epidemie fu preceduta?
La pandemia di peste del 1347-1348 non fu affatto la prima abbattutasi sull’Europa. I suoi abitanti la percepirono comunque come un’inquietante novità perché il precedente più vicino risaliva al VI secolo, la cosiddetta peste di Giustiniano, dal nome dell’imperatore in carica in quel momento: anche in quel caso furono i commerci con l’Oriente a portare in Europa l’antenato antico del batterio medievale della peste, dando vita a tanto vivaci quanto tragici resoconti sui suoi effetti a Costantinopoli, in Gallia e in Italia da parte di autori come Procopio di Cesarea, Giovanni di Efeso o Gregorio di Tours. Così come dopo il 1347 la peste sarebbe progressivamente diventata endemica, ripresentandosi periodicamente fino al XVIII secolo, anche la peste del VI secolo inaugurò una lunga stagione di convivenza con la malattia, che si sarebbe interrotta solo alla metà dell’VIII secolo. Pur abituati a convivere con problemi sanitari di vario genere, anche mortali, gli uomini del Trecento non avevano dunque mai sperimentato qualcosa di così devastante, e gli intellettuali dell’epoca trovarono normale utilizzare le immagini descritte da Procopio, Gregorio o anche altri autori di celebri descrizioni di epidemie dell’Antichità non legate alla peste, per dar voce al loro sconforto.
Quale impatto demografico e insediativo ebbe la peste?
Ciò che colpì molto la società trecentesca fu l’alta mortalità della peste: mortalitas è una delle parole latine con cui viene più frequentemente indicata nelle fonti a nostra disposizione. Le stime più attendibili – non possediamo infatti dati statistici per quest’epoca – ci parlano, per la sola Italia, di più o meno 4 milioni di morti su un totale di 12 milioni circa: stiamo dunque parlando di un terzo della popolazione totale, con punte del 50% in alcune zone particolarmente sfortunate, come l’Italia centrale. Sono perdite difficilmente immaginabili per noi, aggravate dalla rapidità con cui si verificarono in ciascun luogo colpito (tre/quattro mesi), dalla casualità – i poveri certo risultavano più colpiti, ma nessun gruppo sociale rimase immune da pesanti perdite – e, soprattutto, dal ripetersi delle ondate ogni dieci/quindici anni nei decenni successivi. La crisi demografica, motivo della lentezza del recupero dei livelli di popolamento precedenti, fu infatti determinata dall’impossibilità di riempire i vuoti lasciati dalla prima ondata nel giro di una generazione, dal momento che molti dei figli dei sopravvissuti andavano incontro a nuove epidemie prima di aver raggiunto l’età fertile. Sul piano insediativo tutto ciò si riflesse, in ambito urbano, con il brusco arresto di quella crescita che aveva caratterizzato i secoli dopo il 1000: interi quartieri progettati per raccogliere nuovi abitanti furono abbandonati, progetti di allargamento di alcune cinte murarie persero di senso etc. Oltre alla morte, anche la fuga dal morbo generava flussi migratori che contribuivano a spopolare le città più colpite, ma, passato il pericolo, anche a ripopolare le aree maggiormente idonee alla ripresa (sgravi fiscali e procedure facilitate per ottenere la cittadinanza per i nuovi immigrati furono attivati da numerose città proprio per riempire i vuoti causati dalla peste). In ambito rurale lo spopolamento generò accorpamenti di comunità in precedenza a sé stanti, riorganizzazioni delle maglie insediative, ma anche maggiori possibilità di selezione degli ambienti più favorevoli.
Come reagirono le istituzioni all’epidemia?
Va da sé che l’arrivo improvviso di una mortalità così alta colse impreparate le istituzioni, che furono, tra l’altro, decimate anch’esse dal morbo: interi comuni si trovarono a dover rimpiazzare buona parte dei propri gruppi dirigenti, spesso con giovani alle prime esperienze di governo o nell’amministrazione della cosa pubblica. Fondamentalmente la mentalità dell’epoca attribuiva al giudizio divino (iudicium è un’altra parola ricorrente per indicare la peste) quanto stava avvenendo e toccava dunque aspettare che il peggio passasse, possibilmente il più presto possibile. Sarebbe, tuttavia, profondamente errato immaginarci una società completamente passiva nell’attraversare il terribile momento di difficoltà: specifiche commissioni sanitarie vennero affiancate alle istituzioni di governo in molte città, principalmente rivolte ad inasprire norme e controlli su igiene pubblica e pulizia delle strade. Toccò, inoltre, gestire l’enorme problema dell’incontrollato proliferare dei funerali e delle sepolture di massa, con le conseguenti interruzioni degli assembramenti. Molte attività economiche vennero chiuse, ma presto riaperte perché anche allora si presentò il difficile dilemma tra salute ed economia che, in maniera diversa, abbiamo imparato a conoscere anche noi negli ultimi due anni. La normativa, inoltre, non poteva essere applicata senza l’indispensabile contributo di confraternite, corporazioni, istituzioni di quartiere, reti parrocchiali e vicinali, tutti ambiti molto più formalizzati e pervasivi rispetto a quanto avviene oggi e che avevano il compito di recepire e mettere in pratica quanto veniva suggerito dai governi.
Quale fu l’impatto sociale della peste?
I racconti dei cronisti – il più noto è sicuramente quello che apre il Decameron di Giovanni Boccaccio – ci descrivono una società allo sbando, in preda alla paura, all’estremizzazione dei comportamenti, all’individualismo e alla crudeltà, persino nei confronti dei propri famigliari più prossimi. Medici, notai, sacerdoti, venivano meno ai propri doveri per salvarsi la vita, mentre becchini e commercianti lucravano sulle difficoltà aumentando a dismisura i prezzi dei loro servizi. Leggendo insieme tutti i resoconti, pare quasi di individuare una sorta di canovaccio che si ripete, tutt’altro che inservibile per rilevare lo stato d’animo di chi veniva colpito dalla peste, ma sicuramente riferibile ai momenti “caldi” dell’epidemia e non generalizzabile o interpretabile integralmente alla lettera. Le fonti notarili, nei casi in cui sono state oggetto di attenta analisi, ci restituiscono infatti tutt’altra immagine: la società dell’epoca, pur estremamente provata, si attrezzò fin da subito per superare i momenti peggiori, attivando tutte quelle reti di socialità e solidarietà che consentivano di fornire assistenza, ad esempio, a chi volesse dettare le ultime volontà pur privo di parenti o amici rimasti per fare da testimoni, a chi necessitava di aiuto per essere seppellito in maniera consona, e altre eventuali occorrenze. Notai, medici, religiosi non corrispondevano, perlopiù, alle immagini impietose fornite dai cronisti, con tutta probabilità colpiti da alcuni casi particolarmente eclatanti assunti a normalità per ragioni di efficacia letteraria (non è qualcosa di poi così lontano da noi, se pensiamo alle strategie comunicative di certi mezzi di informazione).
L’improvvisa e casuale morte di molte persone causò poi uno sconvolgimento delle reti del credito: le ricchezze di molti passarono a pochi, facendo la fortuna di coloro che si trovarono ad ereditare simultaneamente più patrimoni, ma anche la rovina di coloro che videro accumularsi su di sé i debiti di tutta la famiglia. Non dimentichiamo che gli effetti della peste si aggiungevano a quelli, già gravissimi, dei fallimenti bancari fiorentini e veneziani degli anni Quaranta del Trecento. I patrimoni di vedove e orfani furono oggetto di speculazioni. Istituzioni di governo ed enti assistenziali dovettero dunque legiferare per far fronte a questi e ad altri generi di problemi.
Quali ricadute vi furono sull’economia?
Anche questo è un tema enorme, molto dibattuto dagli storici e impossibile da sintetizzare in poche righe. Per prima cosa dobbiamo immaginarci cosa potesse voler dire il rapido venir meno di un terzo o della metà della popolazione: se umanamente si trattava spesso di veri e propri shock, in termini economici si trattava di clienti, inquilini, impiegati, lavoratori. In poco tempo proprietari terrieri e imprenditori faticarono a trovare chi lavorasse i campi e mandasse avanti le imprese manifatturiere e furono costretti ad accettare le condizioni imposte dai pochi lavoratori rimasti, con un conseguente aumento dei salari. Per chi basava invece le proprie entrate sui commerci, i mercati locali non bastavano più a raggiungere i guadagni di prima della peste, e fu dunque necessario allargare gli orizzonti verso una dimensione regionale degli scambi, con le principali potenze economiche dell’epoca – Milano, Firenze, Genova, Venezia – come motori trainanti. L’effetto combinato dell’aumento dei salari e della redistribuzione delle ricchezze incrementò rispetto a prima il numero di coloro che erano in grado di spendere al di là della sussistenza e ciò favorì la diffusione di nuove produzioni destinate alle fasce di reddito medie e medio-basse, oltre che stimolare ancora di più il traffico dei prodotti di lusso per i più abbienti. Una popolazione meno numerosa consentiva, inoltre, di ridurre sensibilmente le superfici coltivate a grano, in favore di policolture e coltivazioni specializzate che potevano così essere immesse sul mercato e favorire nuovi guadagni. Se questi fenomeni sono stati riscontrati dagli studiosi in molte aree e in molti ambiti, non dobbiamo comunque immaginarci una sorta di paese dei Bengodi post-pandemico. Accanto alle nuove fortune di molti, troviamo anche le parabole discendenti di chi della crisi fu vittima e riuscì a risollevarsi con più fatica, trovando comunque un contesto ricco di opportunità. La stagione di allargamento verso il basso del potere d’acquisto si fece sentire anche sul piano politico, con artigiani, commercianti e lavoratori delle manifatture che accrebbero in molte città il loro peso politico, ma si stabilizzò sul finire del secolo a seguito della reazione dei gruppi sociali più potenti (la fase di assestamento fu scandita da una serie di episodi rivoltosi, tra cui il tumulto fiorentino dei Ciompi del 1378 è sicuramente il più noto, ma per nulla il solo).
Quali rimedi approntò la medicina dell’epoca?
Ogni volta che compare una malattia nuova, per di più ad alta mortalità, la medicina non può che essere colta alla sprovvista. È dunque normale che anche i medici trecenteschi brancolassero nel buio di fronte a qualcosa che non avevano mai visto. Le caratteristiche della malattia e il suo decorso erano completamente nuove ai loro occhi e nessuno dei rimedi suggeriti dalle autorità della medicina dell’epoca (i grandi medici dell’Antichità come Ippocrate e Galeno o gli arabi come Avicenna). Francesco Petrarca, anche per motivi personali e legati al suo particolare percorso intellettuale, si scagliò violentemente contro la categoria, giudicata inutile e parassitaria. Ho inoltre già accennato al fatto che alcuni cronisti lamentano la codardia di alcuni medici, che preferivano scappare piuttosto che correre il rischio di contagiarsi. Al di là dei comportamenti dei singoli, sicuramente possibili, è ancora una volta sconsigliabile cedere alle immagini stereotipate delle cronache o del nostro immaginario di persone del XXI secolo: anche la medicina medievale, infatti, non si diede per vinta e mise in campo tutto ciò che le conoscenze dell’epoca permettevano di utilizzare per trovare possibili rimedi. Gentile da Foligno, uno dei più importanti medici dell’Italia trecentesca, passò giorni interi tra i malati ad osservare la malattia, trovando sì la morte, ma lasciando anche scritti che sarebbero serviti ai suoi colleghi per riconoscere la malattia, sforzarsi, per quanto possibile, di prevenirla e, con risultati molto più scarsi, di curarla. Non va, poi, trascurato il ruolo di barbieri, chirurghi e speziali (che in maniera un po’ semplicistica potremmo definire gli antenati degli odierni farmacisti), spesso in prima linea nel curare gli ammalati mettendo in atto terapie derivanti dall’esperienza più che dalla teoria. In alcune realtà a medici, barbieri e speziali era affidato il compito di comunicare alle autorità il numero degli ammalati presenti in un dato territorio, dati preziosi per consentire alle istituzioni di prendere coscienza dei livelli di gravità della situazione e di, perlomeno, tentare di arginare il più possibile il contagio. Anche la presenza del personale medico nelle istituzioni pubbliche e nelle università aumentò, a testimonianza di una certa presa di coscienza del tema sanitario. Certo, il livello delle conoscenze scientifiche non consentì grandi risultati sul pano terapeutico, ma le informazioni acquisite e accumulatesi nel tempo andarono a costituire la base dei primi ordinamenti sanitari che si sarebbero diffusi a partire dal tardo Medioevo e poi in Età Moderna, una tappa fondamentale nella storia della medicina.
Alberto Luongo, medievista, ha svolto attività di ricerca presso le Università di Pisa, Siena e Siena per Stranieri e svolge attualmente attività didattica presso l’Università Statale di Milano. Si occupa prevalentemente di storia delle città italiane fra XII e XIV secolo. Fra i suoi libri più recenti Gubbio nel Trecento. Il comune popolare e la mutazione signorile (1300-1404), Roma 2016 e Una città dopo la peste. Impresa e mobilità sociale ad Arezzo nella seconda metà del Trecento, Pisa 2019.