“La paura dello straniero. La percezione del fenomeno migratorio tra pregiudizi e stereotipi” di Carmelo Dambone e Ludovica Monteleone

Prof. Carmelo Dambone, Lei è autore con Ludovica Monteleone del libro La paura dello straniero. La percezione del fenomeno migratorio tra pregiudizi e stereotipi edito da FrancoAngeli: qual è la percezione sociale dei fenomeni migratori che coinvolgono il nostro Paese?
La paura dello straniero. La percezione del fenomeno migratorio tra pregiudizi e stereotipi, Carmelo Dambone, Ludovica MonteleoneAppare evidente che in questi anni stiamo assistendo a un evidente mutamento sociale e culturale e non è possibile non rimanere colpiti dalle vicende che quotidianamente vengono trasmesse in TV e scritte attraverso la carta stampata. Oggi nel nostro paese c’è una paura dell’immigrato e dello straniero, tanto da sentire il diverso come una minaccia, un pericolo. In questo scenario di paura, il diverso dal “noi”, dal “volto”, diviene qualcosa da cui mantenerci lontani. Ovvio che anche fra quegli immigrati ci saranno persone disoneste, soggetti tanto disperati da spingersi ad atti delinquenziali, ma quelle stesse persone, senza morale né valori, esistono in ogni cultura e società e non è necessario andare molto lontano geograficamente per ritrovare esempi simili. Le paure e le insicurezze ci proiettano verso un comportamento difensivo e, al contempo, di rabbia. Ecco allora nascere i pregiudizi e l’odio, che si possono manifestare sotto forma di gesti razzisti. A mio parere, anche la non conoscenza del numero reale di immigrati fa emergere una errata percezione del fenomeno migratorio e dell’atteggiamento verso l’immigrazione. È come se all’aumentare dell’ostilità verso gli immigrati, aumenta anche l’errore nella valutazione sulla presenza di immigrati nel proprio Paese. Ovvio che l’atteggiamento fortemente negativo verso l’immigrazione potrebbe essere la causa di una sovrastima degli immigrati presenti nella società così come potrebbe esserne la conseguenza. Ritengo che la paura dello straniero è sempre, in un certo modo, la paura dello straniero che ciascuno di noi è per se stesso e da cui ci difendiamo per proteggere la nostra identità. Viviamo in tempi sicuramente complessi la cui lettura riesce difficile da ridurre a un quadro coerente che possiamo ricostruire e cogliere al volo. E questo lascia spazio a facili dicotomie, noi contro loro, che vengono alimentate fino allo “scontro” per gli scopi più diversi.

Quali fattori culturali e psicopatologici contribuiscono a generare disagio e paura nella società multiculturale?
Nel libro viene ribadito che ogni viaggiatore che arriva porta con sé un bagaglio carico di esperienze, usanze, credenze, paure e insicurezze che per il loro essere così personali inevitabilmente differiscono da quelle di chi accoglie. Si riconosce una cultura ovunque esista o sia esistita una società umana con propri modi di vita; un patrimonio non genetico che può essere appreso e che in quanto tale fa riferimento a una pluralità di individui e si moltiplica e realizza in più e diverse forme. In virtù di questa complessità, il relativismo culturale invita a riconoscere tali differenze e a rispettarle. I processi di inculturazione, ovvero quelli che portano all’assimilazione di una data cultura, si mescolano a quelli di acculturazione nella rete di scambi che caratterizza la società multietnica di oggi. Se in alcuni casi questo processo avviene in modo naturale e senza difficoltà e permette allo straniero di riconoscersi parte integrante della società che lo accoglie acquisendone le pratiche, in altri casi può provocare un senso di inadeguatezza e insicurezza che ne determina l’esclusione e l’alienazione. Tuttavia, le sole differenze fisiche sono spesso sufficienti a innalzare barriere ideologiche e a costruire false credenze sugli altri. L’estraneità si impone come un muro separatore tra il proprio mondo e un mondo che risulta difficile da interpretare e controllare. Spaventa ciò che non si conosce: un altro colore della pelle, una muscolatura più accentuata, una statura più alta. Le condizioni in cui versano le strutture dedicate all’accoglienza dei migranti in molte città d’Italia non favoriscono l’accettazione del fenomeno. In molti casi non è possibile garantire una gestione ottimale delle attività, così molti ospiti passano le loro giornate nelle strade, chiedendo l’elemosina o semplicemente vagando. Questo lasciarsi vivere è peraltro una condizione comune di chi si ritrova catapultato in un ambiente che non riconosce e al quale non sente di appartenere, seppure la scelta di partire e lasciarsi alle spalle i ricordi e le abitudini di una vita passata sia stata una scelta consapevole e attiva. Si tratta di quello che l’antropologia culturale definisce “fallimento del sogno migratorio” il cui verificarsi è causa dell’insorgere della “sindrome della persa via”. Lo straniero perde la sua umanità. Il suo corpo si svuota di storia ed emozioni per diventare il freddo contenitore delle paure e delle ansie che la popolazione “invasa” proietta su di lui. In questo scenario, allora, si rende necessario approfondire lo studio e verificare le relazioni tra la psicopatologia e la cultura, ossia uno studio sui disturbi e le sindromi psichiatriche tenendo conto sia dello specifico contesto culturale in cui si manifestano, sia del gruppo etnico di provenienza o di appartenenza del soggetto. Al contrario della psichiatria e della psicologia classiche, appare opportuno approfondire l’argomento attraverso l’etnopsichiatria L’obiettivo che questa branca della psichiatria si pone è capire se esistano patologie psichiatriche tipiche di una specifica cultura, con caratteristiche e sintomi propri. Al riguardo ci sono vari pareri degli esperti. Siamo concordi sull’universalità della malattia mentale, che rimane tale in ogni Paese o cultura e che fa parte dell’individuo, ma che può variare nella sintomatologia e in alcuni aspetti psicopatologici a seconda della nazionalità del soggetto e del Paese in cui il disturbo si manifesta. È evidente come più di tutti gli immigrati si trovino a dover reinventare la loro vita e se stessi nel nuovo Paese in cui approdano, trovandosi di fronte a un contesto altro e sconosciuto. Tuttavia, le complessità dello stesso percorso migratorio possono avere effetti collaterali che inducono a una perdita del sé. Si tratta di quelle condizioni che Devereux definisce di “stress culturale” o “traumatismo psico-culturale”: situazioni nelle quali “la connessione con il sé si interrompe e i cambiamenti non producono più senso ma solo confusione, disorientamento e dissonanza semantica e cognitiva” che possono causare disturbi della personalità e psicopatologie.

Come viene raccontato dalla cronaca l’immigrato?
L’informazione è oggi in grado di rispondere alle esigenze di un pubblico sempre più vasto grazie a una varietà di mezzi a sua disposizione che la rendono efficiente e veloce e le permettono di raggiungere simultaneamente più parti del mondo veicolando notizie in tempo reale. Tutte queste forme di giornalismo si avvalgono di particolari strumenti per rendere le notizie immediatamente fruibili al pubblico. Tra questi, importante considerazione deve essere data alla fotografia che, con il suo forte potere evocativo, è in grado di ergere a simbolo di un intero evento un singolo particolare, basti pensare a Aylan, il bambino con i pantaloncini blu e la maglietta rossa che giaceva a pancia in giù sulla riva di una spiaggia in Turchia, da dove era partito in fuga verso l’Europa. Con la fotografia i contenuti della notizia non riguardano più l’evento in generale, ma gli aspetti particolari di quanto il fotografo ha ritratto. Il concetto di notizia è a sua volta esteso e allo stesso tempo non assoluto. Tuttavia, di uno stesso fatto si possono dare versioni diverse e addirittura opposte, pur essendo queste sempre legittime, perché nessun evento è a priori una notizia, ma è il giornalista che la riconosce come tale quando questa è capace di generare interesse per un determinato pubblico. Per quanto fedele alla realtà essa possa essere, sarà quindi sempre reinterpretata dalla mano dell’esperto. Esistono comunque dei criteri valutativi, che permettono di fare una selezione delle informazioni verificando la “notiziabilità” di un avvenimento. Per questo motivo, quando si parla di immigrazione, è consigliabile evitare di utilizzare il termine “clandestino” per indicare tutte quelle persone che per varie ragioni non sono in regola con le norme nazionali sui permessi di soggiorno: oltre a essere fortemente stigmatizzante, questo termine non ha alcun significato giuridico. Allo stesso modo si è resa stigmatizzante la parola “extracomunitario” che per definizione indica tutti coloro che non sono cittadini dell’Unione europea, ma che per consuetudine è stata associata soltanto a persone provenienti da Paesi poveri e mai, per esempio, a cittadini statunitensi, svizzeri o australiani. Nella cronaca nera è importante fare riferimento con consapevolezza alla nazionalità dell’autore del reato. Si è ormai diffuso l’uso della “nazionalità sostantivata”: l’autore del reato viene identificato secondo la sua provenienza e non secondo attributi più generali come l’essere uomo o donna, giovane o anziano. Frasi come “africano arrestato per rapina” possono alimentare sentimenti razzisti e xenofobi dovuti alla diffusione dell’idea, errata, che la causa di questi avvenimenti sia proprio l’appartenenza dei responsabili a una certa etnia. Che si tratti di giornalismo cartaceo, televisivo o online, è dovere di chi fa informazione non arrestarsi al margine degli eventi, ma indagare fino in fondo le cause che sottostanno a questo fenomeno tanto imponente quanto complesso, capirne le dinamiche ed eliminarne gli stereotipi. Accanto all’ “allarme – o emergenza – migranti” che appare ormai su ogni titolazione, che si tratti di informazione cartacea o televisiva, e che trova risposta nelle politiche del “rimandiamoli a casa loro”, il racconto allarmistico si concreta quando le pagine di cronaca nera includono tra i loro protagonisti i cittadini stranieri e le trasmissioni televisive diventano il palcoscenico di una guerra verbale tra immigrati e italiani. L’opinione pubblica nutre serie preoccupazioni sulla garanzia della sicurezza nei singoli Paesi, attribuendo la responsabilità del ripetersi di tali episodi all’immigrazione e all’incapacità degli Stati di controllarla. Nel testo degli articoli le parole “magrebino”, “nordafricano” e “immigrato” sono usati come sinonimi per indicare il soggetto, mentre raramente vengono usati termini quali “giovane”, “aggressore” o “responsabile”. Già questo può provocare in chi legge un forte sentimento di diffidenza e di paura quando si trova nei dintorni di queste zone e inculcare nella pubblica opinione l’idea che chiunque provenga da queste aree sia inavvicinabile e pericoloso. Per coloro che si soffermano all’anteprima il post diventa infatti fulcro di sfoghi razzisti che si diffondono con le condivisioni, innescando un circolo vizioso che sfocia in altro odio. Il risultato di questo atteggiamento, che dai media si è riversato sull’opinione pubblica e sul pensare comune, ha prodotto un’incontrollabile crescita della paura nei confronti degli stranieri, che nella maggior parte dei casi si è scoperta ingiustificata.

Che rapporto esiste tra immigrazione e terrorismo?
Come abbiamo già detto, non è difficile comprendere come le nostre idee e convinzioni siano facilmente influenzate da ciò che la società vuole comunicarci, e se consideriamo gli effetti dei potenti mezzi di comunicazione di massa e dai quali attingiamo sostanzialmente le informazioni, rischiamo di considerare veritiero un messaggio distorto e “creato”, che spesso non prende in considerazione prove empiriche. Il dibattito pubblico spesso prescinde dai dati conoscitivi e cerca piuttosto dati che confermino le visioni preconcette. Se lo straniero diventa immigrato, il passo verso l’assimilazione dell’immigrato alla figura del terrorista è breve. Da qui nasce il binomio “immigrazione-terrorismo”, che trova ampio spazio nella rappresentazione mediatica di coloro che entrano nel nostro Paese, seppur con motivazioni e storie eterogenee. “Tutti gli immigrati sono terroristi”, “tutti gli islamici sono terroristi”. Queste frasi hanno formato convinzioni da cui è difficile allontanarsi, una sorta di “trappola” mentale. Fintanto che le notizie sui giornali rafforzeranno queste idee, sarà sempre più difficile trovare un dialogo, e tantomeno considerare la diversità delle casistiche, l’eterogeneità dei singoli, i dati e statistiche oggettive ed esplicative dei flussi migratori e del fenomeno terroristico. Purtroppo il ruolo mediatico ha contribuito a creare luoghi comuni che ci schierano dalla sponda opposta di tolleranza e comprensione. Ciò che favorisce il binomio “immigrazione-terrorismo”, è la nostra percezione filtrata dai mass-media. È la costruzione giornalistica alla base del “problema immigrazione” che crea non pochi pregiudizi e generalizzazioni errate. Siamo di fronte a un fenomeno che viene definito come un problema da risolvere, caratterizzato dai due poli opposti “noi” e “loro”. Di fatto, la tendenza più comune è di accostare l’immagine del migrante a quella di portatore di disordine; egli diventa un criminale pericoloso. Gli “islamici” sono così tutti fondamentalisti e molto probabilmente terroristi. Di fatto, gli attacchi terroristici hanno fatto riemergere la paura di un legame tra flussi migratori e minaccia alla sicurezza nazionale, rinforzando ulteriormente la separazione tra “noi” e “loro” e gli stereotipi di conseguenza, negati invece dal discorso politico ufficiale. La nostra percezione dello straniero immigrato e terrorista è talmente esasperata al punto da considerare terroristi anche innocenti che scappano dai loro Paesi a causa della guerra. La relazione tra il fenomeno migratorio e quello terroristico è complessa. L’opinione pubblica italiana sottolinea il pericolo che i terroristi possano nascondersi tra i rifugiati. Ma al contrario di quanto si possa ritenere, le statistiche mostrano una minaccia minima.

In che modo l’esperienza personale può agire quale garanzia contro il pregiudizio e la paura a priori?
Ritengo che l’esperienza personale, la conoscenza dell’altro, possa favorire e facilitare l’integrazione all’allontanando paure e pregiudizi. È un problema anche di fallimento dell’approccio multiculturale, che intendeva porre ogni cultura sullo stesso piano, diventando ben presto un’ideologia che ha comportato l’isolamento delle minoranze all’interno di una società frammentata. Infatti, non è sufficiente riconoscere pari dignità, se poi l’indifferenza relazionale tra chi è concretamente obbligato a vivere a stretto contatto dà origine a sentimenti ostili e di paura per la propria incolumità personale e identità culturale. Oggi la cultura, come in passato la natura, rischia di chiudere a priori i gruppi e gli individui sulla base della loro origine e di una genealogia intesa come immutabile e fissa. Occorre un nuovo contratto sociale basato su una dialettica in cui la diversità tra rappresentazioni, valori e libertà di comportamento sia in relazione fra le diverse culture presenti. La complessità del percorso di integrazione richiederà, in futuro, sempre più interventi coordinati, che tengano conto delle diverse esigenze in un’ottica di lungo periodo per evitare che si creino sacche di emarginazione e risentimento. Spesso sono le parole del silenzio o la sterile eloquenza che trasformano gli “altri” in “mostri”, creando un confine fatto di “noi” e “loro”, un divario dove l’odio per il “diverso” ha la necessità di prevalere. L’odio è un fenomeno sociale che si sviluppa all’interno dell’interazione con l’altro e prevede una percezione di superiorità del proprio gruppo rispetto a un altro. Ed è proprio all’interno di tale dinamica, conflittuale, che questo tipo di fenomeno prende il sopravvento radicalizzandosi. Un arduo compito quello del confronto, ma inevitabile e non più arrestabile. Per un processo di integrazione è necessario un nuovo modello di pensiero, una rivoluzione culturale che metta le basi per nuovi valori e nuove istituzioni in grado di includere l’“altro”. Le “differenze” non sottraggono nulla agli “altri”, ma aggiungono. Perché si possa evitare un “pericolo”, il linguaggio ce lo presenta in modo che noi si possa vivere un “effetto”, un evento psicologico, che ce lo fa sembrare incombente, reale come se fosse presente nell’istante in cui lo concepiamo, lo pensiamo o ne parliamo. Ognuno di noi ha esperienza di essere andato in vacanza con un amico o amica che trasporta un bagaglio di dimensioni almeno doppie del proprio per gli stessi giorni. E alla innocente domanda “Cosa hai messo dentro?”, risponde “Non si sa mai”. Vi è mai capitato? Il “non si sa mai” è la risposta che la nostra mente spesso ci offre in situazioni in cui temiamo di non essere abbastanza, di non avere abbastanza, per fronteggiare “i pericoli”. I pensieri evocano continuamente al timore di “trovarsi in difficoltà” e suscitano una serie di emozioni e sensazioni che innalzano i livelli di ansia, senza peraltro avere avuto esperienza diretta della vacanza (che sarà nel futuro) o del luogo in cui ci si recherà. E tutto ciò è magari il frutto del semplice collegare ricordi di altre vacanze, o viaggi, con istruzioni, pagine di informazioni, guide turistiche e consigli di altri amici. Questo meccanismo la nostra mente lo applica in tutti i momenti e in tutte le situazioni, anche se in quel momento siamo sicuri nella nostra caverna “lontani dal leone”. E come tutte le medaglie anche questa ha un rovescio. I pensieri generano, a seconda dei contesti, fiducia o anche ansia. Possiamo reagire con terrore al pensiero che il futuro non si allinei con quanto sognato e, se ci “beviamo” le storie che ci racconta la nostra mente, rimaniamo prigionieri di esse. “Prevedere” diventa utile in alcune circostanze e si rivela disastroso in altre. In talune condizioni, che viviamo come particolarmente restrittive, ci sentiamo in trappola e la mente si chiude offrendoci sempre scenari catastrofici cui reagiamo con passività o con aggressività, quasi mai in modo funzionale. La nostra mente non ci è nemica, nemmeno quando ci propone questi scenari (disastrosi). La nostra mente fa “di tutta l’erba un fascio” e “trasporta” sulle nuove conoscenze gli effetti della vecchia. E la generalizzazione di sentimenti di odio e di rabbia verso i terroristi spesso non si ferma qui e comincia a trasferirsi ad altre persone che condividono lo stesso colore della pelle, la religione e il paese di origine. Quest’atteggiamento può trasferirsi al cibo mediorientale, vestiti e opere d’arte, così come a persone che non sono di nazionalità medio orientale, ma hanno caratteristiche fisiche simili. Il pregiudizio, per definizione, non viene da un’esperienza diretta con il gruppo su cui si esprime il giudizio, ma è un atteggiamento che si costituisce in assenza di un’esposizione diretta o mediata del contatto. Le ricerche ci dicono che il pregiudizio, la paura dell’estraneo, di restare soli, dell’ignoto hanno tutte la medesima base. Sono manifestazioni diverse della medesima proprietà della mente: quella di “preservarci”, di “salvarci dai pericoli” e poco importa se siano reali o presunti. Basta che la nostra mente lo creda. E questi giudizi emergono da pensieri veloci che portano a decisioni altrettanto veloci. Non è facile trovare una soluzione ma forse un primo passo potrebbe essere suggerito dalla “funzione deittica” del linguaggio, l’abilità di prendere una prospettiva. Quando apprendiamo a parlare prendendo prospettive diverse, per esempio quella del Sé e quella dell’Altro, quella del qui e quella del là, quella del presente e quella del passato/futuro, sviluppiamo la cosiddetta teoria della mente, cioè l’abilità di “capire” gli stati mentali altrui, di immedesimarci nell’altro. Sviluppiamo l’empatia. Ritengo che provare ad agire in una direzione più empatica e valoriale, attraverso l’esperienza personale, sia il modo per rimanere umani.

Carmelo Dambone, psicologo clinico, psicoterapeuta, è docente di Comunicazione, mass media e crimine presso l’Università IULM di Milano. È fondatore e presidente della Società Italiana di Psicologia Clinica Forense, direttore scientifico del corso di perfezionamento in Audizione e valutazione dell’idoneità a testimoniare in minori vittime di abuso sessuale e maltrattamento, docente di Psicologia clinica forense e Psicopatologia forense in varie scuole di psicoterapia. In Italia ha sottoscritto l’aggiornamento della Carta di Noto IV, linee guida nazionali sull’ascolto del minore vittima di abuso. Autore di diversi articoli scientifici nel campo della psicologia clinica forense. Per FrancoAngeli ha pubblicato: La violenza spettacolarizzata. Il crimine e l’impatto psicologico della comunicazione (2019), La paura dello straniero. La percezione del fenomeno migratorio tra pregiudizi e stereotipi (2019).

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