Denso di umorismo nero, il racconto si incentra su uno dei temi più cari allo scrittore, ossia l’obbligo che ciascun individuo ha di indossare una maschera diversa a seconda del contesto e della situazione sociale in cui si trova.
La novella ha come protagonista il giudice D’Andrea, “la vasta fronte protuberante”, i “piccoli occhi plumbei”, una “magra, misera personcina”. È un tipo meticoloso e preciso nel proprio lavoro e, benché “così sbilenco, con una spalla più alta dell’altra, andava per via di traverso, come i cani”, è un giudice integerrimo: “nessuno però, moralmente, sapeva rigar più diritto di lui. Lo dicevano tutti”.
Il giudice si trova alle prese con il caso di tale Rosario Chiarchiaro, ex impiegato al banco dei pegni. Chiarchiaro è stato licenziato con l’accusa di portare iella, e si trova davanti al giudice perché ha denunciato per diffamazione due ragazzi che al suo passaggio hanno fatto le corna. Non sono certo né i soli né i primi ad averlo trattato in quel modo: tutti in paese lo considerano uno iettatore e non c’è cittadino che, nell’incontralo, non faccia gli scongiuri.
E così, da un lato il retto giudice vorrebbe aiutare l’uomo, prima di tutto perché non crede affatto alla sfortuna e poi perché il poveretto, ora senza lavoro, si trova a dover mantenere una moglie paralizzata e due figlie nubili. Dall’altro D’Andrea non se la sente di addossare tutta la colpa ai due giovani, che a ben vedere non hanno fatto altro che rendere esplicito quello che tutto il paese – avvocati e giudici compresi – pensa da sempre.
Dato che sembra chiaro che dal processo non si possa ricavare nulla di buono per il povero Chiarchiaro, il giudice decide di farlo venire all’ufficio d’Istruzione per convincerlo a ritirare la denuncia, perché “quei due giovanotti non potevano essere condannati, secondo giustizia, e che dalla loro assoluzione inevitabile sarebbe venuto a lui certamente maggior danno, una più crudele persecuzione”.
Ma l’uomo che compare davanti al giudice nel suo ufficio “s’era combinata una faccia da jettatore, ch’era una meraviglia a vedere. S’era lasciata crescere su le cave gote gialle una barbaccia ispida e cespugliata; si era insellato sul naso un paio di grossi occhiali cerchiati d’osso, che gli davano l’aspetto d’un barbagianni; aveva poi indossato un abito lustro, sorcigno, che gli sgonfiava da tutte le parti”. Sì, perché Chiarchiaro non è affatto turbato dal fatto che tutti lo considerino uno iettatore. Anzi, di fronte allo scetticismo del giudice si indispettisce e cerca di convincerlo della veridicità delle voci che circolano: “Signor giudice, non mi tocchi!”, gli intima, “Se ne guardi bene! O lei, com’è vero Dio, diventa cieco!”
Il povero giudice è stupito e disorientato. Quell’uomo che tanto avrebbe voluto difendere dall’ingiustizia di essere additato come iettatore è invece il primo a rivendicare tale nomea.
Di più: sembrandogli che D’Andrea non riesca a capire le sue rivendicazioni, aggiunge che può persino produrre “prove anche, prove documentate e testimonianze irrepetibili dei fatti spaventosi su cui è edificata incrollabilmente, incrollabilmente, capisce, signor giudice? La mia fama di jettatore!”.
Ciò che Chiarchiaro è venuto a rivendicare in tribunale è una certificazione ufficiale che attesti il suo essere un porta iella: “la patente”, appunto, che dà il titolo alla novella.
Non è infatti possibile, e l’uomo l’ha ben capito, togliersi di dosso la maschera di cui la società lo ha rivestito. L’unica scelta rimane quella di far fruttare tale ruolo come meglio si può, cercando di ottenerne dei vantaggi. E l’uomo ha già in mente come far rendere la patente: “Basterà che io mi presenti; non ci sarà bisogno di dir nulla. Mi pagheranno per farmi andar via! Mi metterò a ronzare attorno a tutte le fabbriche; mi pianterò innanzi a tutte le botteghe; e tutti, tutti mi pagheranno la tassa, lei dice dell’ignoranza? io dico la tassa della salute! Perché, signor giudice, ho accumulato tanta bile e tanto odio, io, contro tutta questa schifosa umanità, che veramente credo d’avere ormai in questi occhi la potenza di far crollare dalle fondamenta una intera città!”
Il giudice D’Andrea, sconfitto, non può far altro che accettare di aiutare l’uomo: la maschera che questi indossa, dunque, non può essere tolta, ma solo assecondata.
Silvia Maina