
di Lucio Caracciolo
Feltrinelli Editore
«Il 24 febbraio 2022 è definitivamente finita la fine della storia. Trent’anni dopo la pubblicazione del saggio di Francis Fukuyama sopra La fine della storia e l’ultimo uomo, l’invasione russa dell’Ucraina impone sigillo all’illusione di emanciparci dalla prigionia del tempo, stigma d’ogni progressismo occidentale. Fukuyama scriveva all’indomani del miracoloso biennio avviato dal crollo del Muro di Berlino (9 novembre 1989) e chiuso dal suicidio dell’Unione Sovietica (25 dicembre 1991), con i decisivi passaggi dell’unificazione tedesca (3 ottobre 1990) e dello scioglimento del Patto di Varsavia (1° luglio 1991). […] Il presidente George H. Bush preconizzava un Nuovo Ordine Mondiale (ancora!), fondato sull’incontestata, pacifica, benevolente egemonia a stelle e strisce. […] Pax americana, dunque?
Non proprio. Prima il lungo decennio della Guerra del Golfo e dei conflitti di successione jugoslavi, poi il ventennio della “guerra al terrorismo” con le fallimentari invasioni di Afghanistan e Iraq, infine la contestazione russa dell’ordine americano via “denazificazione” dell’Ucraina da restituire al rango di Piccola Russia, parallela all’analoga sfida cinese al primato di Washington centrata sul “rimpatrio” di Taiwan. Finita era la pace, non la storia. A Bush padre come a quasi tutti i contemporanei sfuggiva che la fine dell’impero sovietico e la scomposizione dell’Urss in quindici repubbliche che dalla sera alla mattina vedevano i loro pseudoconfini amministrativi eretti a frontiere di improbabili Stati, segnavano il tramonto del vecchio ordine, non l’alba del nuovo. Le rovine dell’edificio crollato, costruito dopo il 1945 sulla spartizione dell’Europa per mano dei suoi conquistatori – base della doppia egemonia sovietico-americana sul pianeta – ostruivano qualsiasi velleità di impiantarvi il Sistema-Mondo definitivo, già battezzato “Washington Consensus”. […]
Oggi il principio europeistico di irrealtà stenta a mascherare la tragica condizione geopolitica in cui noi europei ci troviamo. Siamo fuori gioco. Oggetto di giochi altrui. Più degli americani, noi italiani e altri europei occidentali abbiamo davvero creduto nella fine della storia. Di esserne lo scopo: abbiamo immaginato l’Europa come lo spazio che per primo avrebbe superato lo Stato nazionale in vista di un utopico impero universale del diritto e della pace. […]
Non abbiamo capito che la Guerra fredda non era affatto paradigma negativo. Era l’unico equilibrio possibile per evitare la guerra calda che avrebbe distrutto l’Europa, sterminato noi europei e dilagato nel pianeta. Ancora una guerra mondiale nata nel nostro continente, ma per iniziativa di potenze esterne, essendo le interne debellate dalle due precedenti. Nella superiore disputa Usa-Cina-Russia gli europei non hanno voce, al massimo sussurrano a orecchi poco ricettivi. Esprimono interessi e valori diversi, appesantiti da secoli di dispute non solo filosofiche tra genti e culture fiere delle proprie storie e diffidenti delle altrui.
Partiamo da queste sommarie conclusioni, linee guida della nostra analisi, per svilupparle e offrirle alla contestazione. Nella speranza di suscitarla. […] L’analisi del passaggio epocale tra fine della storia e storie della fine non può che offrirsi aperta.
Percorso in due parti e sei capitoli.
La prima parte scava nelle origini ideologiche della fine della storia come teoria e come progetto. Nella sua cifra doppia: americanista ed europeista. A ciascuna il suo capitolo.
Nel primo indaghiamo l’ideologia della fine della storia quale inno all’apogeo dell’impero americano. Narrazione dominante nell’ultimo decennio del Novecento e nei primissimi anni di questo secolo, filtrata attraverso l’interpretazione neoconservatrice. Poi in crisi, oggi rigettata, ma non spenta perché consustanziale allo spirito del Numero Uno. […]
Nel secondo risaliamo il tempo alla scoperta di fonti e forme dell’ideologia europeista in quanto peculiare progetto di fine della storia, per vederne che cosa ne resta. Dopo il 1945 l’America che ha conquistato e sedotto l’Europa dei fu grandi imperi ne fa contrappunto della propria musica ideale. Riprova dei “valori comuni” che innervano l’Occidente transcontinentale e giustificano la proiezione veterocontinentale dell’impero a stelle e strisce, canonizzata nella quasi perfetta identità del corpo societario di Nato e Unione Europea.
La seconda parte ricostruisce la Guerra fredda come precedente e necessaria antitesi della tesi che identifica la sua fine con la fine della storia. Ne svela l’antinomia di fondo: aver scambiato la pace per una guerra. Salvo poi interpretare le dure repliche della storia alla teoria che la voleva estinta, maturate nell’ultimo trentennio e sfociate nel dopo-24 febbraio, scintilla che accelera le dinamiche geopolitiche globali. In quattro capitoli.
Nel primo descriviamo la parabola di Antieuropa, forma dell’impero americano in Europa cui l’europeismo si conforma: la presa degli Stati Uniti sul nostro continente come necessità di impedire che vi sorga connubio di potenze eurasiatiche capaci di sfidare il controllo delle rotte oceaniche, crisma della talassocrazia a stelle e strisce.
Nel secondo ci concentriamo su Antigermania come cuore di Antieuropa e misura della sua salute. Paradosso dell’europeismo, corroborato dall’atlantismo: l’Europa si fa contro la sua potenza centrale, inaffidabile per costituzione.
Nel terzo analizziamo la crisi dell’impero americano in quanto origine della competizione geopolitica in corso, destinata a ridisegnare le carte del continente e del mondo. Posta in gioco, la gerarchia globale delle potenze. Partita a tre: Stati Uniti-Cina-Russia. In allargamento ad altri pretendenti al rango di grande potenza. Il campo di gioco è il pianeta in tutte le sue proiezioni, Cyberspazio e Spazio compresi. La competizione è ormai al grado bellico (Russia contro Usa in Ucraina) o vi è vicina (Cina contro Usa per Taiwan). Guerra Grande, nella lettura proposta da “Limes”. A rischio di degenerare in guerra mondiale fuori tutto, in cui tutti potremmo finire fatti fuori. Quella sì incontestabile fine della storia. Perfettamente evitabile. Non per molto tempo ancora.
Nel quarto studiamo la moda della fase geopolitica corrente: l’uso dei diritti storici per legittimare il possesso di spazi terracquei. La fine della fine della storia produce questa metastasi incontrollata, che affligge tutti i protagonisti della competizione contemporanea e contribuisce a rendere permanente il clima conflittuale battezzato Guerra Grande.
Nella conclusione in forma di premessa tracciamo la sinopia dell’affresco che illustra lo stato del mondo. E ci domandiamo se l’Italia abbia ancora senso e funzione nel dopo-24 febbraio. Per rispondere con un doppio sì. A condizione che “le genti del bel paese là dove ’l sì suona” imparino a dire qualche no.»