
Quando comincia la storia della lingua italiana?
Tradizionalmente l’atto di nascita dell’italiano corrisponde al 960 d. C., anno nel quale fu redatto un verbale notarile scritto su un foglio di pergamena, relativo a una causa discussa a Capua (donde il nome di Placito Capuano). Durante la redazione di questo verbale fu fatta una scelta insolita rispetto alle abitudini di quel tempo: fino ad allora per tutti i verbali notarili e giuridici si era usato il latino. Anche le formule di testimonianza pronunciate in volgare venivano tradotte in latino quando il processo veniva verbalizzato: in questo caso, invece, la verbalizzazione riportò per ben quattro volte formule testimoniali in volgare. La frase in volgare pronunciata dai testimoni era «Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte Sancti Benedicti». Evidentemente si voleva rendere comprensibile il risultato del processo (anche per evitare contestazioni). C’è nel Placito Capuano, per la prima volta, una consapevole separazione tra latino e volgare: chi ha scritto il verbale era cosciente di utilizzare due lingue diverse, cioè il latino notarile e il volgare parlato. Ecco perché diciamo che la storia della nostra lingua è cominciata a Capua, in Campania, nel 960 d. C.
Perché si afferma che Dante è il padre della nostra lingua?
Perché quello che ha fatto Dante per la nostra lingua non è paragonabile, per profondità e vastità di risultati, all’opera di nessuno di quelli che lo hanno preceduto e, si potrebbe aggiungere, di nessuno di quelli che sono venuti dopo. Senza ricordare qui il suo trattato intitolato De vulgari eloquentia (cioè «l’arte di esprimersi in volgare»), scritto in latino per dimostrare che il volgare italiano poteva essere usato per scrivere di scienza, di filosofia, di letteratura, e senza ricordare le sue grandi opere scritte in volgare, mi limiterò a una constatazione. Come è stato spiegato da Tullio De Mauro, il vocabolario fondamentale dell’italiano è costituito da circa duemila parole di larghissimo uso, con le quali realizziamo oltre il 90 per cento delle nostre comunicazioni parlate e scritte. Ebbene, più di milleseicento di queste duemila parole indispensabili sono già presenti nella Divina Commedia, che possiamo considerare il più importante serbatoio al quale ha attinto, e tuttora attinge, non solo e non tanto la lingua degli intellettuali, ma anche e soprattutto la nostra lingua comune. Tanto basti a dimostrare che il titolo di ‘padre della lingua italiana’ Dante lo ha meritato e lo merita davvero.
Quando viene sistematizzata la grammatica italiana?
Se dobbiamo dire chi ha inventato la grammatica italiana, la risposta è netta: Leon Battista Alberti (1404-1472). Oltre a essere stato un grande architetto e ad aver scritto trattati sui più svariati argomenti, Alberti ebbe anche il merito di scrivere non solo la prima grammatica dedicata all’italiano, ma anche la prima grammatica dedicata a una lingua neolatina. L’opera, nota come Grammatichetta vaticana (perché la si legge in un manoscritto conservato nella Biblioteca Apostolica Vaticana) è stata riscoperta solo secoli dopo, nel 1962, con l’attribuzione certa all’Alberti. La prima grammatica a essere stampata fu Le regole della volgar lingua di Giovan Francesco Fortunio (1516), che descrisse gli usi linguistici di Dante, Petrarca e Boccaccio. La stessa impostazione letteraria è alla base del trattato di Pietro Bembo, intitolato Prose nelle quali si ragiona della volgar lingua (1525), nel quale mise a punto una grammatica fondata sullo studio meticoloso del Petrarca e del Boccaccio, che da allora divenne il modello indiscusso per scrivere in versi e in prosa.
Quando compare il primo vocabolario d’italiano?
Di vocabolari della lingua volgare ne furono pubblicati molti nel corso del Cinquecento, tutti o quasi tutti compilati sulla falsariga della soluzione di Pietro Bembo e del culto delle Tre Corone, cioè Dante, Petrarca e Boccaccio. Ma il primo grande vocabolario italiano fu il Vocabolario degli Accademici della Crusca, stampato a Venezia, in prima edizione, nel 1612. Quest’opera fu anche il primo grande vocabolario apparso nell’Europa del tempo. Il fatto sorprendente è che il primo grande dizionario di una lingua moderna fu pubblicato in un’Italia divisa in stati diversi, non ancora nazione, a differenza di altri Paesi europei nei quali, invece, l’unità linguistica e politica era già avvenuta. Di quel vocabolario furono stampate cinque edizioni (ma la quinta fu interrotta nel 1923): ancora oggi quel prezioso materiale (ora consultabile anche in rete, grazie alla informatizzazione delle sue edizioni) rappresenta quattro secoli di storia della lingua italiana.
Quale importanza ha Alessandro Manzoni per l’italiano moderno?
Manzoni, nella serie ideale dei padri della lingua italiana, occupa il secondo posto, subito dopo Dante. Con i cambiamenti apportati nell’ultima edizione dei Promessi Sposi (pubblicata in fascicoli dal 1840 al 1842) lo scrittore milanese rivide integralmente la lingua del suo romanzo e sostituì tutte le parole e le forme dalla patina antica, letteraria o dialettale (cioè del suo dialetto di origine, il milanese) con forme del fiorentino parlato dai fiorentini della borghesia colta. In questo modo diede vita a un nuovo modello di lingua letteraria, vicino alle forme della comunicazione quotidiana e simile, per molti aspetti, all’italiano attuale. Con i suoi cambiamenti Manzoni pose le basi dell’italiano moderno.
In che modo il regime fascista intervenne anche sulla lingua?
Dal 1922 (l’anno in cui Benito Mussolini prese il potere) al 1943 (l’anno in cui lo perse) gli esponenti del regime fascista praticarono una politica linguistica fondata su principi nazionalistici e puristici. Il regime si distinse per un’ossessiva campagna contro i dialetti, per una lotta contro le lingue delle minoranze (in particolare, contro l’uso del tedesco in Alto Adige e contro l’uso dello sloveno nella Venezia Giulia) e per il rifiuto categorico delle parole straniere. A più di settant’anni dalla fine del fascismo ci si può chiedere che cosa sia rimasto del tentativo di politica linguistica orchestrato dal regime. Ben poco, in realtà. Sopravvivono, nel ricordo degli italiani, slogan usati ormai solo in senso ironico e scherzoso: qualcuno, purtroppo (per esempio Me ne frego!), continua a essere pronunciato non solo ironicamente o come citazione in contesti storici, ma esibito senza vergogna, come se non fosse il portato di un passato da condannare.
Quali caratteristiche presenta l’italiano della nostra Costituzione?
La Costituzione è stata definita da Carlo Azeglio Ciampi come la nostra «Bibbia laica». Tra i 556 deputati e deputate (21 donne in tutto) furono scelti 75 membri incaricati di redigere il progetto generale della carta costituzionale. I padri e le madri costituenti si impegnarono per elaborare un testo che doveva avere forza prescrittiva e regolativa, ma doveva anche essere compreso dai cittadini italiani. I costituenti erano ben consapevoli che l’Italia era ancora un Pese scolasticamente sottosviluppato. Quando si accinsero a scrivere il testo della Costituzione, i deputati furono guidati da un criterio: quello della massima chiarezza e comprensibilità. Colpisce in particolare, che tra le parole scelte per scrivere gli articoli della Costituzione siano pochi i tecnicismi giuridici e amministrativi. I costituenti riuscirono così a scrivere un testo caratterizzato da una grande trasparenza lessicale. Nonostante il tempo passato, il testo della Costituzione è tuttora valido come modello linguistico perché è scritto in un italiano che, per le caratteristiche di limpidità, scorrevolezza e chiarezza può ancora costituire un valido esempio di imitazione. Tanto più in anni in cui i testi giuridici sono spesso incomprensibili per i non addetti ai mestiere.
L’italiano, coi suoi circa 60 milioni di parlanti, appare come un’isola nell’oceano delle lingue a diffusione internazionale: quale futuro per la nostra lingua?
Difficile e inutile azzardare previsioni: il pericolo, per l’italiano, non è nel suo decadimento ortografico, grammaticale o sintattico, e neppure nel suo essere esposto all’invasione di parole ed espressioni provenienti dall’inglese. Il pericolo è nel tentativo ricorrente di limitarne l’insegnamento nella scuola e di mortificarne l’uso nell’università istituendo interi corsi di laurea in lingua inglese. Un altro pericolo è rappresentato dall’imbarbarimento dell’italiano, degradato a strumento comunicativo rozzo e violento anche nella polemica politica. Se sapremo far buon uso dell’italiano, la nostra lingua, che vive da quasi undici secoli, apprezzata e studiata in ogni angolo del mondo, continuerà a esistere per essere tramandata, con tutta la sua storia millenaria, alle nuove generazioni.
Valeria Della Valle ha insegnato fino al 2014 Linguistica italiana alla Sapienza Università di Roma. Ha pubblicato saggi sugli antichi testi toscani, sulla storia della lessicografia, sulla terminologia dell’arte, sulla lingua della narrativa contemporanea, sui neologismi. È autrice, con Giuseppe Patota, di 14 manuali di divulgazione dedicati alla lingua italiana. Con lui ha condiretto, nel 2018, Il Nuovo Treccani, e con Giovanni Adamo, nello stesso anno, Neologismi. Parole nuove dalla stampa (2008-2018), editi entrambi dalla Treccani.