
- autoritarismo/conformismo/deresponsabilizzazione: la “personalità autoritaria” descritta da Adorno, per esempio, è caratterizzata da un atteggiamento remissivo nei confronti delle persone più potenti e nel contempo prepotente verso chi si reputa più debole. I soggetti con personalità autoritaria hanno scarsa capacità di identificazione con le persone e si identificano piuttosto con l’autorità in quanto ruolo, e questo potrebbe dar conto di come si possano prima compiere “massacri autorizzati” e poi, mutata la rappresentanza del potere, tornare a far propri valori diversi e tornare alla propria normalità. Questi soggetti, inoltre, hanno bisogno di un sostegno esterno, e da ciò l’inclinazione a consegnarsi a un uomo forte, a un demagogo carismatico che fornisca promesse palingenetiche e risposte dogmatiche, spiegazioni attraenti non perché giuste ma perché drastiche.
- sordità per la coscienza e negligenza per l’autonomia di giudizio. Ci sono frasi illuminanti dei gerarchi al Processo di Norimberga, Hans Frank per esempio disse: “Io non ho una coscienza; Adolf Hitler è la mia coscienza”; uno dei dirigenti del progetto di uccisione dei disabili, un chimico, si preoccupava di risolvere i problemi non di chiedersi di quali problemi si trattasse: “Non ho mai riflettuto sulla questione. Dopo che Nebe mi disse che aveva ordine di uccidere i pazienti malati di mente in quella regione, non c’era niente a cui io dovessi pensare”. Soprattutto in periodi di timore e di incertezza, un’autorità assoluta a cui delegare il compito di fornire interpretazioni preconfezionate senza faticosi distinguo può sollevare dal gravoso compito di cercarle da sé; per esempio la semplificazione secondo cui lo straniero è minaccioso e fonte dei nostri guai fornisce una bussola interpretativa.
- soprattutto è importante lo “altrismo”, il considerare l’“Altro” diverso da noi in una differenza che non suscita interesse e desiderio di conoscenza, bensì gerarchizzazione e ostilità. Il termine altrismo, meglio ancora di quello “razzismo” consente inoltre di preoccuparci anche delle discriminazioni di genere, di quelle contri i disabili, contro gli omosessuali, di tutte le discriminazioni insomma. Viene messa in questione dell’unità del genere umano, è la non identificazione con l’umanità nel suo complesso, è il rifiuto dell’universale, ed è l’atteggiamento per cui le persone non sono considerate nella loro individualità ma come tipi e stereotipi. Dunque “i neri sono …”, “gli ebrei sono…”, “gli italiani sono …”, insomma, vale per tutti. Si vede e si “pre-giudica” l’altro come esemplare di un gruppo, non come individuo a se stante.
Quali dinamiche insorgono quando la devianza diviene norma sociale?
Quelle che ho detto, che talora si rivestono dei pregiudizi condivisi del “complotto” e della “difesa”. Quello del complotto è un tema ricorrente: di fronte a difficoltà o vere e proprie sciagure collettive, il cortocircuito ideologico consiste nel cercare qualcuno a cui attribuire la colpa, si va in cerca di una persona o, meglio ancora, di un gruppo di persone che sono reputate scientemente e malignamente colpevoli. Il gruppo dev’essere abbastanza debole da essere attaccato, ma essere creduto abbastanza forte da essere reputato origine del problema di volta in volta in questione.
La tesi del complotto è utile per giustificare l’aggressione che diviene difesa, naturalmente legittima. “La natura del movimento antisemita era puramente difensiva”, affermerà Rosenberg al Processo di Norimberga che lo vedeva imputato, e, sempre a Norimberga, Hoess racconta: “Vede, noi SS non dovevamo pensare a queste cose, non ci capitava mai. Per di più, davamo per scontato che gli ebrei fossero responsabili di qualsiasi cosa venissero accusati”.
Il libro analizza un caso storico eclatante, quello dell’antisemitismo nazista: cosa lo ha reso possibile?
Ho analizzato in particolare, ma non solo, l’antisemitismo per varie ragioni: la prima è il fatto che esso e in particolare quel suo esito estremo che è stato la Shoah sono stati molto studiati, e pertanto le teorie da prendere in esame sono numerose. L’antisemitismo è poi probabilmente la matrice di ogni razzismo o etnocentrismo o altrismo, non foss’altro che per anzianità di servizio, dato che il pregiudizio contro gli ebrei ha una storia millenaria che di volta in volta si è rivestita di razionalizzazioni differenti e ha assunto fisionomia diversa a seconda del bisogno contingente. Questa proteiformità consente di analizzare le molteplici cause chiedendoci quali e quante potrebbero essere “riciclate” per essere utilizzate contro altri gruppi di persone, appunto alla bisogna. Il razzismo, insomma, è uno, anche se può assumere diversi aspetti e diversi obiettivi.
Manifestazioni recenti di “paura dell’altro” confermano l’attualità del tema: quali fattori determinano la possibilità che persone comuni compiano eccidi?
In sintesi, probabilmente il motivo più convincente per spiegare le trascorse atrocità e il fatto che persone comuni le abbiano commesse è da individuarsi nell’altrismo, nella distinzione fra “noi” e “loro”.
Quando gli altri sono visti come diversi da noi, cominciano i guai.
Il “noi” e “loro” diventa pericoloso quando si traduce in “superiori” e “inferiori”, in “migliori” e “peggiori”, e non per quello che si fa ma per quello che si è.
Questo significa che siamo tutti uguali? No, non lo siamo. Forse la pratica della criminologia mi ha aiutato a non cadere nel tranello demagogico di pensarlo: non siamo tutti uguali, per esempio non siamo tutti uguali a un serial killer che si compiace della sofferenza delle proprie vittime e non siamo uguali –speriamo- agli aguzzini fin qui descritti. Alcuni sono migliori e altri peggiori, altrimenti svapora anche la distinzione tra bene e male. Ma sono migliori o peggiori per quello che scelgono di fare.
Tragedie come quella della Shoah sono forse destinate a ripetersi?
“La storia potrà vacillare di nuovo?” si chiedeva Bayard. Difficile che qualche vicenda, storica e non, si ripeta identica, e nel nostro caso non possiamo che sperarlo. Neppure la distinzione fra “noi” e “loro” è uguale oggi rispetto a com’era il razzismo dei secoli trascorsi.
Ho detto però che gli orrori del genocidio sono stati resi possibili partendo dalla non identificazione con l’umanità nel suo complesso, dal rifiuto dell’universale, e dal sentimento di minaccia che gli “altri” suscitano. Da questo punto di vista segni inquietanti si hanno anche oggi. Le ricerche hanno evidenziato una quota non trascurabile di pregiudizio, di timore, di aggressività, da esse emerge che le posizioni razziste e antisemite sono minoritarie ma non trascurabili, tali da far riaffacciare il dubbio che ancora una volta, come nel tragico passato, costituiscano lo spostamento di altre preoccupazioni, e che la richiesta non sia tanto “difendiamoci/difendeteci dagli stranieri”, bensì aiutateci e difendeteci dai molti motivi di insicurezza, disagio, smarrimento che abbiamo veicolato verso il problema degli stranieri, o che siamo stati indotti a veicolare verso il problema stranieri.
Isabella Merzagora è professore ordinario di Criminologia all’Università degli Studi di Milano e Presidente della Società Italiana di Criminologia. Tra le opere di cui è autrice: Uomini violenti (2009), Colpevoli si nasce? (2012), Lo straniero a giudizio (2017).