L’opera è in gran parte un’analisi di percezioni e stati affettivi nei quali si svela il carattere assurdo che l’esistenza, nello spazio e nel tempo, assume per la coscienza, quando questa giunga a vivere il mondo come un puro “apparirle”, una volta spogliate le cose e gli uomini della loro quotidianità di “utensili”. Lo smarrimento dell’uomo in una realtà priva di solidità, di ordine, di significato univoco è “Nausea”: esperienza della gratuità dell’esistente nel suo originario manifestarsi come tale senz’altra aggiunta.
Antoine Roquentin – il protagonista – dopo lunghi viaggi in Europa, in Africa e in Oriente, si è stabilito da tre anni a Bouville per completare una ricerca storica sul marchese di Rollebon: il diario copre le ultime settimane di soggiorno nella cittadina. La stanza d’albergo, la piccola biblioteca, i caffè e le strade (con le loro creature ambigue e sfuggenti) sono i luoghi in cui Roquentin scopre, mano a mano, i molteplici aspetti dell’esistenza, vivendola come Nausea.
Un giorno Roquentin sente, all’improvviso, che gli oggetti intorno a lui hanno cominciato a prendere, senza posa, volti nuovi e imprevedibili, sottraendosi ai consueti rapporti, stabili e precisi, con la sua coscienza: la paura delle cose, inafferrabili e “innominabili”, perché fattesi mutevoli e autonomamente viventi, avvelena le sue giornate. Egli tenta di rifugiarsi nel lavoro storico e trascorre assonnati pomeriggi sui documenti che dovrebbero permettergli di ricostruire la vita del marchese di Rollebon, ma qui ha una seconda rivelazione: il passato “storico” non esiste, l’ordine che egli tenta di dare agli eventi resta loro esteriore. Roquentin ha scoperto di non “avere” un passato, di non possedere che il proprio corpo; ciò che è stato gli sfugge, reale è solo ciò che “appare” nel presente, e dietro questo apparire non c’è nulla: come sperare di riuscire a salvare il passato di un altro? Lo spazio e il tempo gli si sono sciolti tra le mani e fondono in un coagulo informe.
E gli altri uomini? Essi vivono insieme, mettono al bando i tipi “strani” come Roquentin (per difendersi), si riuniscono in gruppi per sentirsi solidi, per non pensare all’esistenza: l’incoscienza beata e canagliesca dei borghesi di Bouville è l’altra faccia della loro malafede e del loro deliberato autoinganno: imbalsamano il proprio passato e lo spacciano sotto l’etichetta di Esperienza e di Saggezza, così si illudono che non sia andato perduto. Nell’agglutinato palpitante della realtà (cadute le abitudini e i comodi schemi logici), la coscienza si coglie come un vuoto doloroso e stupito: solo a tratti essa riesce a riconquistare l’identità col mondo e a dimenticarsi come “coscienza dell’esistenza”: “Tutto s’è fermato; la mia vita s’è arrestata: questo vetro, quest’aria greve, azzurra come l’acqua e io stesso formiamo un tutto immobile e compatto: sono felice”.
Roquentin vorrebbe andarsene in un posto che fosse “suo”, ma il suo posto non è da nessuna parte ed egli “si sente di troppo”: è la Nausea. Un giorno, per sfuggirle, si rifugia in un giardino pubblico, ma anche là è travolto dalla “gelatina” dell’esistenza: gli alberi lo assalgono, lo penetrano; perduta la loro individualità astratta e inoffensiva, restano “delle masse mostruose e molli, in disordine – nude, d’una spaventosa e oscena nudità”. “Tutto è gratuito, questo giardino, questa città, io stesso. E quando vi capita di rendervene conto… ecco la Nausea… io ero la radice del castagno. O meglio io ero, tutt’intero, la coscienza della sua esistenza”.
L’esistenza è senza senso, ma necessaria: il nulla è un’idea e, come tale, nasce nell’esistenza e viene “dopo” di essa. Anny (un antico amore perduto di vista) si rifà viva all’improvviso, scrivendogli di raggiungerla a Parigi: Roquentin sente che c’è ancora possibilità di scampo alla Nausea; forse con Anny potrà ricominciare una vita. Ma quando la incontra, scopre di aver a che fare con un’altra persona, tanto lontana dall’immagine che egli ne
conservava quanto egli è lontano dal “vecchio” Roquentin.
Anny viveva un tempo nell’attesa di “situazioni privilegiate” in cui realizzare “momenti perfetti”; Roquentin la irritava con la sua concreta e sensata goffaggine, incapace di comprendere ciò che si doveva fare al momento giusto per non “rovinare tutto”. Ora Anny non ha più l’illusione che ci si possa sottrarre alla quotidianità: i momenti perfetti non esistono. Si separano senza promesse: il tentativo di evadere nell’amore è fallito, la coscienza dell’esistenza costringe alla solitudine. Roquentin decide di trasferirsi a Parigi, dove vivrà – senza scopo – della sua piccola rendita: “Sono libero: non mi resta più nessuna ragione di vivere… Il mio passato è morto. Il signor di Rollebon è morto. Anny è tornata soltanto per togliermi ogni speranza. Sono solo… e libero. Ma questa libertà assomiglia un poco alla morte”.
L’esistenza, priva di ogni giustificazione, è diventata senso di peccato, dal quale ci si può lavare, un poco, vivendo in rapporto agli altri: è questa la tenue speranza con cui si chiude La nausea. Al momento di abbandonare Bouville, Roquentin è colto da un’idea timida e confusa: scrivere un libro, forse così potrà salvarsi. Scrivere una storia “come non possono capitarne, un’avventura. Dovrebbe essere bella e dura come l’acciaio, e che facesse vergognare le persone della propria esistenza”. Sarebbe, nel futuro, un punto di riferimento per osservare e ordinare il passato, per dargli un senso: “… sentirei il mio cuore battere più in fretta e mi direi: quel giorno a quell’ora è cominciato tutto. E arriverei – al passato, soltanto al passato – ad accettare me stesso”.
La nausea, che sembrerebbe concludere con il più integrale e irrimediabile scetticismo, può essere considerata il punto di partenza negativo verso quell’umanesimo tragico e ottimista insieme che è, per definizione dell’autore, il suo esistenzialismo.
La nausea si presta alla facile critica (costantemente rivolta a tutte le opere letterarie di Sartre) di essere nient’altro che l’esemplificazione e l’illustrazione forzata di una tesi precostituita. In effetti, può venir considerata come un condensato narrativo – a livello di esperienza interiore – della tematica sartriana in via di formazione e trova evidenti complementi teoretici in L’immaginazione (L’Imagination), in Schizzo di una teoria delle emozioni (Esquisse d’une théorie des émotions, 1939) e in L’essere e il niente (L’être et le néant, 1943). La nausea offre soprattutto un “clima”, che produce nella coscienza del lettore degli stati vissuti i quali, schematizzati ed espressi in termini concettuali, pongono “il problema dell’esistenza”: è evidentemente impossibile riassumere questo clima, che è, peraltro, costitutivo del significato filosofico dell’opera.
L’elemento stilistico-formale non è, pertanto, accessorio e autonomo rispetto alla tesi, ma si identifica con essa. La predilezione di Sartre per la narrativa e il teatro corrisponde appunto alla sua concezione della filosofia come “impegno” e, di conseguenza, al proposito di farla scendere dalla torre specialistica sulla pubblica piazza.»