
A tutto ciò va aggiunto che le università delle origini, se hanno sempre, necessariamente, una controparte politica, dalla quale si aspettano sia assistenza (alloggi nella quantità richiesta dall’afflusso degli studenti e affittati a prezzi convenientemente calmierati, prestiti agli scolari, facilitazioni fiscali, nei casi più generosi il pagamento degli stipendi dei docenti e un contributo fattivo nel reclutamento dei maestri più prestigiosi), sia il rispetto della propria libertas (inviolabilità delle sedi universitarie, quasi fossero un luogo di culto, creazione di tribunali ‘speciali’, che sottraggono gli studenti alla giustizia ordinaria, autonomia statutaria …), tuttavia solo eccezionalmente hanno a che fare con uno Stato (nel caso delle università italiane l’orizzonte politico è inizialmente, nella maggioranza dei casi, quello comunale) e comunque si tratta di uno Stato di regola ancora piuttosto lontano dal possedere in misura compiuta gli elementi costitutivi, che la dottrina gli attribuisce (sovranità, territorio e popolo).
Ciononostante si constata, in modo particolare a partire dal Quattrocento, quando in Italia si afferma uno Stato territoriale, che subentra ad un quadro di volta in volta dominato dai comuni e dalle signorie, una graduale e complicata metamorfosi delle università delle origini in università di Stato. Ma fin dal tardo Duecento la laurea, pur conservando formalmente il suo carattere di licentia docendi, aveva subito un’evidente dislocazione in una direzione professionale: in particolare i laureati in diritto cesareo, vale a dire romano, il sapere alla base del nuovo Stato in costruzione, erano stati reclutati a corte e immessi nelle file dell’allora sparuta burocrazia. Tra Due e Trecento anche la finanza universitaria aveva cambiato pelle: si era passati dall’autofinanziamento – gli stipendi dei docenti erano pagati dalle collette degli studenti – al finanziamento pubblico: evidente, con il trascorrere dei decenni, la maggior ricaduta collaterale, il graduale passaggio della nomina dei professori dalle assemblee degli stessi studenti a organi politici, nel caso della Padova quattro-cinquecentesca al Senato veneziano. Maggiormente significativa, comunque, la svolta del Quattrocento, quando si affermò un triplice paradigma, che collegò strettamente, per certi aspetti, l’università allo Stato: 1) l’università fu concepita, accanto alle forze armate, alla burocrazia, alla diplomazia ecc., quale un ingrediente quanto meno opportuno, se non affatto necessario, della formula statale: uno Stato non poteva dirsi tale se non possedeva un’università; 2) fatta eccezione per lo Stato della Chiesa, altrove in Italia fu praticato il principio di ammettere una sola università per ogni Stato, il che trasformava automaticamente quell’università in un’università, se non di Stato, quanto meno dello Stato; 3) si decise, in prima battuta soltanto a Venezia, che le lauree, che permettevano di accedere ad una serie di professioni considerate di rilevanza pubblica, fossero considerate valide soltanto qualora fossero state rilasciate dall’università dello Stato, nella fattispecie quella di Padova.
La nascita dell’università di Stato fu quindi un processo lungo e assai poco lineare, che tra l’altro in paesi diversi dall’Italia, che per la necessità di semplificare il più possibile l’analisi ho scelto quale paese di riferimento, assunse spesso caratteristiche assai diverse (le dialettiche entro regni più o meno consolidati fin dal Medioevo come quelli di Spagna, di Francia, d’Inghilterra, di Svezia ecc. si svilupparono, come testimonia il volume, seguendo percorsi più o meno lontani da quelli italiani), anche se, in fin dei conti, rispettando un copione relativamente uniforme, le cui voci riguardavano il finanziamento dei corsi universitari, la nomina dei professori, la gestione dell’istituzione, la redazione degli statuti, le facilitazioni fiscali, i rapporti tra la capitale e la città sede dell’università ecc.
Come si era sviluppato il dibattito sul tema sin dall’istituzione di una laurea «auctoritate Veneta»?
In effetti il dibattito latitò lungo il Seicento e la prima parte del Settecento, vale a dire nel corso dei secoli che videro l’egemonia della Controriforma cattolica. D’altra parte, se il governo veneziano non ignorava che l’istituzione di una laurea di Stato avrebbe suscitato una reazione negativa da parte degli ecclesiastici (e anche da parte della nobiltà padovana, che affollava i collegi dottorali presieduti dal vescovo locale, dal quale comunque la Serenissima poteva aspettarsi un certo grado di connivenza, dal momento che si trattava di un patrizio veneziano), tuttavia poteva giocare – e in effetti giocò – una serie di carte, che puntavano a minimizzare gli elementi di novità a tutto vantaggio della continuità della politica universitaria. In particolare il governo della repubblica presentò la laurea «auctoritate Veneta», che tra l’altro in un primo tempo riservò unicamente ai medici, una professione che, diversamente da quella dei giuristi, aveva da fare soltanto tangenzialmente con lo Stato, quale un espediente, al quale era stato costretto a ricorrere dopo che aveva privato i conti palatini, le famiglie nobili padovani alle quali l’imperatore aveva concesso una serie di poteri giuspubblicisti, tra i quali quello di conferire, con l’assistenza di professori dello Studio, la laurea universitaria, dei loro privilegi in quanto questi ultimi rappresentavano un vulnus per la piena sovranità della repubblica.
Ciò che il governo veneziano aveva sottovalutato era il fatto che, dopo che il papa aveva imposto ai laureandi di riconoscersi in una professione di fede, che riassumeva gli esiti dottrinali del Concilio di Trento, i conti palatini erano diventati il refugium peccatorum di tutti coloro che desideravano sottrarsi alla laurea nei collegi dottorali sia per motivi religiosi (protestanti, ortodossi, ebrei), sia per motivi finanziari (la laurea elargita dai conti palatini costava meno di quella concessa dai collegi). La laurea «auctoritate Veneta» cercava quindi di proteggere le ‘minoranze’, anzi, nelle motivazioni ufficiali soprattutto i ‘poveri’, mentre agli eterodossi si alludeva tramite una formula criptica: «et altri». Soltanto dopo un paio di decenni la repubblica avrebbe ammesso in un documento ufficiale che tra gli «altri» si trovavano in prima fila quei protestanti, la cui presenza tra gli scolari padovani era ufficialmente negata, ma che in realtà all’epoca costituivano una componente importante del corpo studentesco, una componente che secondo il governo veneziano andava in ogni modo tutelata (non era affatto una scelta di campo dettata da simpatie religiose o da una visione ispirata da una tolleranza di tipo erasmiano: per Venezia l’università rappresentava in primo luogo un ‘capo di commercio’ e quindi la logica mercantile imponeva di rimuovere tutti gli ostacoli, che ne potevano minacciare i ‘traffici’, vale a dire l’affluenza degli studenti).
Fu nel Settecento illuminista che il tema dei rapporti tra l’università – e ancora prima lo Stato – e la Chiesa ritornò alla ribalta, ma di fatto le riforme preferirono lasciare in piedi le strutture tradizionali, sia pure cercando, in alcuni casi, di ridimensionare il più possibile i poteri ecclesiastici. Di conseguenza la laurea di Stato sopravvisse come una peculiarità della Serenissima, che non fu presa ad esempio dagli altri regimi, anche nei casi in cui erano impegnati in un progetto riformatore.
L’istituzione di una laurea di Stato trovò la sua definitiva consacrazione soltanto in età napoleonica: quali furono le conseguenze per gli Studi generali?
Il sistema napoleonico per un verso consolidò dei processi che si erano affermati o comunque erano stati suggeriti nel corso dell’età delle Riforme (ad esempio, la fine del monopolio del latino quale lingua della didattica a vantaggio delle lingue ‘nazionali’, l’ampliamento dell’arco professionale omologato dall’università al di là del binomio tradizionale giuristi-medici, un ampliamento che a sua volta rispondeva all’esigenza di ricalibrare l’università, trasformandola da un ‘capo di commercio’, che cercava di attirare soprattutto gli studenti forestieri, a un’istituzione ‘nazionale’ che si preoccupava di soddisfare la domanda, che veniva dal territorio e dal popolo, che l’abitava), mentre per un altro riorganizzò l’università secondo moduli estranei all’Antico Regime. Scomparvero anche di nome le università studentesche, fu individuato un rettore quale tramite tra il governo e l’università, furono introdotte le facoltà, i professori diventarono degli impiegati pubblici privi di una qualsiasi autonomia corporativa, gli studenti furono assoggettati, in linea di principio, ad un regime disciplinare e costretti ad arruolarsi in battaglioni dediti alle esercitazioni militari. Mentre la laurea «auctoritate Veneta» era stata, di fatto, un espediente, le cui implicazioni strategiche erano state sottaciute, se non del tutto ignorate, la laurea di Stato napoleonica suggellava un rapporto a senso unico tra lo Stato e l’università, che faceva della seconda un terminale del primo.