
Quali forme assumeva la musica sacra nel Cinquecento?
Innanzi tutto c’erano le forme “umili”, ordinarie, ma numericamente prioritarie, rappresentate dal canto piano (quello che oggi chiamiamo “Gregoriano”). Queste forme erano talora molto antiche e facevano parte di un grande patrimonio tradizionale della musica cristiana. Le composizioni polifoniche più recenti comprendevano quella che oggi chiamiamo “musica liturgica” in senso proprio (ossia le versioni musicali dell’Ordinario della Messa e dei Salmi dell’Ufficio), e musica sacra ma non liturgica, come i mottetti – brevi composizioni su testo sacro “libero”, inseribili più o meno a piacere nelle funzioni religiose – oppure gli inni. Non trascurabile è infine il repertorio “devozionale”, spesso non ammesso nella liturgia ma pervasivo: canti nelle lingue locali, canti per le processioni, per il catechismo, per la devozione popolare, per i pellegrinaggi.
Che funzione aveva la musica per i riformatori?
In realtà dovremmo parlare di “funzioni” al plurale, sia perché vi erano tante funzioni, sia perché vi erano tanti riformatori, con idee spesso molto divergenti fra loro. Quasi tutti concordavano nel considerare la musica un dono di Dio. Lutero era il riformatore forse più entusiasta rispetto alla musica, e le attribuiva poteri mistico/taumaturgici, pastorali (la capacità di diffondere la Parola di Dio), catechetici (aiutare la memorizzazione dei contenuti della fede), di consolazione, di rafforzamento della fede, e la capacità di creare comunione all’interno di una comunità. Altri riformatori erano un po’ più scettici: Calvino riteneva che la musica, proprio per la sua grande forza espressiva ed affettiva, potesse sia promuovere la religiosità, sia traviare l’essere umano. Ancor più rigido era Zwingli, che di fatto bandì la musica nelle chiese di Zurigo durante tutta la sua (breve) vita. In generale, comunque, quasi tutti erano favorevoli o favorevolissimi all’uso della musica, di cui intuivano le immense potenzialità.
Come si sviluppò la pratica musicale nelle chiese evangeliche?
Anche qui dipende da Chiesa a Chiesa. In quella luterana, Lutero e i suoi collaboratori crearono, adottarono e adattarono i “corali”, melodie semplici con testo in lingua locale, basate sul Vangelo. Da queste melodie germinò un amplissimo repertorio, basato su di esse, che costituì una delle massime ricchezze della Chiesa luterana, e assunse svariate forme (polifonica, monodica, strumentale etc.). Nelle Chiese calviniste si praticava invece in forma esclusiva il canto dei salmi: nessun altro testo veniva ammesso, e i salmi erano cantati in monodia (ossia all’unisono, senza polifonia) e senza accompagnamento di strumenti, in una forma musicale molto sobria e direi ascetica. I salmi avevano un ruolo fondante anche nella Chiesa anglicana, seppure con tutte le oscillazioni dovute ai numerosi cambiamenti di rotta imposti dalle diverse concezioni religiose (e politiche) dei vari sovrani.
Cosa stabilì il Concilio di Trento in tema di musica sacra?
Il Concilio si espresse sulla musica in modo piuttosto marginale: naturalmente il cattolicesimo aveva problemi più pressanti e complessi da risolvere in un periodo tanto controverso e difficile. Gli orientamenti ufficiali dettati dal Concilio, dopo amplissime discussioni e consultazioni che coinvolsero ecclesiastici, religiosi, laici e politici, furono molto semplici in merito alla musica: si limitarono a raccomandare l’uso di una musica sobria e priva di elementi “lascivi” che potessero distogliere la comunità dalla serietà del rito che veniva celebrato. In realtà, ciò che venne percepito e recepito non fu tanto il pronunciamento ufficiale, sintetico e conciso, quanto l’impressione che fosse necessaria una maggiore intelligibilità del testo cantato. Ciò portò a cercare nuove forme espressive, sia rendendo la polifonia più lineare e meno intricata, più capace quindi di far percepire le parole, sia esplorando soluzioni relativamente nuove come la monodia accompagnata di cui parlavamo prima. Paradossalmente, tuttavia, questa ricerca di intelligibilità portò, nell’epoca barocca che subito seguì Trento, a risultati che andavano in direzione completamente opposta rispetto alla “sobrietà” tridentina. Si iniziò infatti a praticare in modo sempre più frequente lo “stile policorale”, ossia l’adozione di più cori, posizionati in luoghi diversi delle chiese, che creavano un magnifico e indubbiamente imponente effetto stereofonico. Se così, per certi versi, il testo verbale poteva effettivamente essere percepito più chiaramente che in una polifonia densa, il risultato sonoro (e anche le spese connesse!) sicuramente tendeva al gigantismo e allo sfarzo, ben contrari alle direttive conciliari.
Come si articolò il processo di confessionalizzazione della musica?
Con il termine “confessionalizzazione” si intende il progressivo distaccarsi e differenziarsi delle varie confessioni cristiane; un processo che non fu immediato, e spesso si presentò in modo assai tormentato e complesso per tutti coloro che vi erano coinvolti. La musica vi giocò un ruolo non indifferente. Innanzi tutto, contribuì a creare e a manifestare, all’interno e all’esterno, l’identità della confessione stessa. I Salmi calvinisti, per esempio, divennero delle vere e proprie bandiere musicali, che identificavano in modo immediato coloro che li cantavano. Questo ruolo si manifestò anche in situazioni molto difficili come le persecuzioni che colpirono gli ugonotti in Francia, ma anche i campi di battaglia in cui i Salmi risuonarono quasi come “armi” musicali. Ruoli analoghi vennero svolti anche dai Corali luterani, e in particolare da alcuni di essi, come per esempio Ein feste Burg ist unser Gott.
Proprio in virtù dell’identificazione che si realizzò fra determinati canti e determinate confessioni, divenne possibile anche utilizzare i canti “dell’altro” in modo ironico o sarcastico, per esempio modificandone le parole in senso parodistico.
Un altro ruolo fondamentale della musica nel processo di confessionalizzazione fu quello propagandistico. In società che erano ancora largamente analfabete, e in cui era possibile confiscare e distruggere libri e testi pubblicati dalle altre confessioni, un canto propagandistico presentava innegabili vantaggi. Poteva infatti essere imparato “a orecchio”, quindi anche da chi non sapeva leggere; veniva memorizzato più facilmente rispetto a un trattato composto di sole parole; non era un oggetto materiale che si potesse trovare e sequestrare; e si prestava a essere diffuso molto facilmente, in tutte le classi sociali. In contesti di persecuzione, certi canti fornivano addirittura un modello di comportamento (additando l’esempio dei martiri) che i credenti potevano adottare.
Mi preme però concludere questo intervento ricordando che la musica ebbe un ruolo fondamentale non solo nell’opposizione fra le Chiese, pagina dolorosa e triste della Storia della Chiesa, bensì anche e soprattutto nel tenere unito quel filo – sottile ma tenace – di fede, di preghiera, di lode e di amore che comunque resisteva, forte e nascosto allo stesso tempo. Tanti cristiani potevano pregare con melodie e parole simili, nonostante fossero nominalmente su sponde opposte; e fu forse proprio questo ruolo umile ma cruciale della musica a preparare la strada per quel fondamentale riavvicinamento che va sotto il nome di ecumenismo e che sta caratterizzando, in modo molto positivo, il cammino odierno delle Chiese cristiane.
Chiara Bertoglio (Torino, 1983) è concertista di pianoforte, musicologa e teologa. È autrice di numerosi libri in italiano e inglese, fra cui Reforming Music, sulle Riforme del Cinquecento, pubblicato da De Gruyter nel 2017 e in versione italiana da Claudiana nel 2020, con cui ha vinto il RefoRC Book Award. Di prossima pubblicazione Musical Scores and the Eternal Present, per Pickwick. Altri suoi libri sono usciti per Effatà, Paoline, Cittadella e altri. Incide dischi per Da Vinci Classics. Il suo sito è www.chiarabertoglio.com.