“La musica è cambiata. La canzone italiana dal ’68 in poi” di Luca Pollini

Dott. Luca Pollini, Lei è autore del libro La musica è cambiata. La canzone italiana dal ’68 in poi edito da Cairo: come si è evoluta la canzone italiana negli ultimi 50 anni?
La musica è cambiata. La canzone italiana dal '68 in poi, Luca PolliniNegli ultimi cinquant’anni la canzone italiana ha vissuto diversi momenti che l’hanno profondamente trasformata. Se nella prima metà degli anni Sessanta a dettare legge è il Festival di Sanremo, dove a farla da padrone è la canzone neomelodica zeppa di rime “cuore/amore” verso la fine del decennio si comincia ad assistere a una timida rivoluzione. Sono sempre di più, infatti, gli artisti all’epoca definiti “capelloni” capaci di proporre canzoni con testi un po’ più impegnati. Su tutti i coraggiosi Giganti che nel 1967 hanno il merito – e soprattutto il coraggio – di portare al Festival Proposta, canzone pacifista che, probabilmente grazie al ritornello orecchiabile «Mettete dei fiori nei vostri cannoni», riesce addirittura a piazzarsi al terzo posto dietro a Non pensare a me – cantata da Claudio Villa e Iva Zanicchi – e Quando dico che ti amo – di Annarita Spinaci e Les Surfs. Le cose cominciarono forse a scricchiolare da quel momento: e nei primi anni Settanta mentre Sanremo propone imperterrito le sue melodie nei festival alternativi la musica italiana comincia a cambiare. Si fanno largo cantautori cosiddetti “impegnati”, gruppi di progressive e di rock nostrano. Ma a fine decennio, in contemporanea con il tramonto dei movimenti politici giovanili, ecco che la canzone di impegno sociale comincia ad avere meno seguito. Una generazione di giovani, logorata da un decennio di violenza, vuole iniziare a divertirsi. Inizia il periodo del disimpegno che ha una regina indiscussa come colonna sonora: la discomusic. E gli italiani sono maestri a scriverla e a suonarla, tanto che le nostre produzioni scalano le classifiche di mezza Europa. In tutto questo battere in 4 (il ritmo della batteria nella musica disco) riesce a trovare un suo spazio una nuova canzone d’autore come Ruggeri, Fossati, Mannoia, Alice, Battiato, Vasco Rossi, Zucchero e molti altri che ancora oggi riescono ad essere presenti nelle classifiche. Classifiche che dall’inizio del nuovo secolo sono intrise di nomi nuovi, provenienti dai talent che, però, durano lo spazio di un paio di album e niente più.

Quando e come nasce la canzone politica?
Nel mio libro parlo di “nuova” canzone politica, escludendo quindi i canti partigiani. Nasce dopo lo scoppio della bomba di piazza Fontana a Milano, nel dicembre 1969. Durante i funerali di Pino Pinelli – sospettato di avere piazzato la bomba e precipitato dal quarto piano dalla finestra della stanza dell’interrogatorio della questura di Milano – quattro militanti anarchici improvvisano le parole di una canzone che intitolano Il feroce questore Guida (Marcello Guida è il questore di Milano). Il testo arriva nelle mani di Joe Fallisi, tenore e anarchico anch’esso ricercato in quei giorni, che lo rielabora e cambia il titolo ne La ballata del Pinelli. Stessa cosa è accaduta per Compagno Franceschi, giovane militante ucciso da un colpo di pistola sparato dalla polizia durante un’occupazione dell’università Bocconi di Milano nel gennaio del 1970. Il giorno del funerale migliaia di giovani, in silenzio, accompagnano il feretro tra le strade di Milano. Poi davanti all’Università Statale si alza un coro che pochi giorni dopo la Commissione musicale del Movimento Studentesco trasforma in canzone.

Come si articolò la stagione dell’impegno politico nella musica leggera?
In quel periodo anche la musica, come la politica deve porsi fuori dal “sistema”. Nascono così le etichette indipendenti che lavorano in modo autonomo, senza legarsi ad altre industrie che permettono agli artisti di esprimersi senza condizionamenti e di avere un maggiore controllo sulla produzione (arrangiamenti, copertina, promozione). I contratti prevedono bassissime royalties e i passaggi sui media (giornali, radio, tv) sono del tutto inesistenti. Per la canzone italiana sono fondamentali le prime radio “libere”, nate tra il 1975 e il 1976: grazie a loro si può ascoltare musica che, altrimenti, rimarrebbe chiusa al buio nelle cantine. Poi c’è molta attività dal vivo in scuole, università e fabbriche occupate. Dal 1971, per un’intuizione di Andrea Valcarenghi, direttore di Re Nudo, rivista di controcultura e underground, nasce il Re Nudo FreeFolkPop Festival, poi trasformato in Festival del proletariato giovanile, che dopo sole tre edizioni è già uno degli appuntamenti fondamentali per la controcultura giovanile. Gli artisti chiamati sul palco giocano un ruolo di primo piano, si trasformano in portavoce di ideologie e battaglie. E così la musica diventa sempre più importante del cambiamento radicale del costume e della cultura delle masse giovanili. I concerti iniziano ad acquistare importanza sociale ma verso la metà degli anni Settanta c’è chi è convinto che la musica alternativa si stia trasformando in un business e stia perdendo la sua missione di megafono della controcultura. Inizia un’escalation di “sciopero del biglietto” perché è opinione diffusa che dietro a ogni concerto ci siano grossi interessi.

Così gli scontri con le forze dell’ordine sono frutto di una contestazione sempre più “organizzata” contro i “padroni della musica”, identificati prima con gli organizzatori, poi con gli artisti stessi. Nell’aprile del ’76 al Palalido di Milano Francesco De Gregori è sottoposto a un vero e proprio processo politico perché accusato di percepire cachet alti e di non destinarli alle lotte dei lavoratori, la contestazione non risparmia nessuno, nemmeno i cantanti più politicizzati e militanti o le rock star internazionali.

E poi, cosa assai importante, si legge anche tra le righe delle canzoni: Lucio Battisti, cantante che ha rivoluzionato la musica italiana, prima viene tacciato per «qualunquista» poi, dopo la pubblicazione de La canzone del sole, si sparge la voce che sia di destra: al movimento non piace per niente la frase del ritornello: «…..oh mare nero, oh mare nero, oh mare ne…» che viene riconosciuta come metafora della simbologia fascista. Ed è stato solo l’inizio. Quando esce l’album Il mio canto libero in copertina sono fotografate delle braccia che si stagliano verso il cielo: «rappresentano un inno alla libertà» dichiara Mogol; «No, sono saluti romani» replicano i gruppi della sinistra.

Cosa significò la svolta della discomusic?
Il ciclone Febbre del Sabato Sera si abbatte in Italia in un momento storico preciso: il film esce il 13 marzo del 1978, quando si è al culmine del conflitto politico tra estrema sinistra e estrema destra; Aldo Moro viene sequestrato dalle Brigate Rosse tre giorni dopo. Il successo, in realtà, è più di costume che di botteghino.

«La febbre del sabato sera – si legge su L’Unità – non ha un messaggio, non c’è ideologia, non c’è un disegno politico». E meno male, perché i giovani non sognano più la rivoluzione, ma solo di essere felici. Il fenomeno “disco” è stato condannato oltre che dalla politica anche dalla chiesa e dalle istituzioni senza capire che è stato uno sfogatoio per una generazione delusa e spersa, stanca di violenza: se prima i giovani si picchiavano ora ballano. La musica disco è sì un’arte minore ma è riuscita in qualche modo a fare da tampone alle tensioni sociali, stemperando le rabbie e le insoddisfazioni politiche accumulate nel decennio precedente dai giovani, e restituendo energia e voglia di spensieratezza. Lo spirito del Sessantotto è definitivamente abbandonato ma gli intellettuali non lo capiscono e definiscono il nuovo fenomeno «multinazionale del rimbecillimento di massa» senza riuscire a scorgere la doppia vita che scorre sotto la pista da ballo: il proletario, di giorno operaio, di notte ballerino (come il personaggio di Toni Manero ne La febbre del sabato sera). Le discoteche italiane sono affollate da una generazione che non ne può più della violenza, delle bombe, delle sprangate, delle cariche e delle manifestazioni. Ma anche di cantautori impegnati, profughi cileni e canzoni di lotta. Un’inversione decisa verso il disimpegno e la voglia di spensieratezza, dovuta al troppo impegno del decennio precedente, che le stesse organizzazioni extraparlamentari di sinistra – pochi anni prima monopoliste delle ideologie e del tempo libero dei giovani – non sanno comprendere. Perché quello del “sabato sera” diventa un rito a cui, prima o poi, si piegano tutti: proletari, borghesi, progressisti e reazionari. All’inizio le discoteche sono viste solo come luoghi frequentati da giovani di destra, poi hanno cominciato ad andarci i gay, poi i gay di sinistra e qualche femminista, alla fine anche i “compagni”. I dati Siae dimostrano che nel 1978 le presenze nelle sale da ballo sono aumentate del 40-50 per cento rispetto all’anno precedente.

Qual è il panorama musicale italiano contemporaneo?
A mio parere la musica italiana non gode di ottima salute. Oggi, a differenza degli anni precedenti, la musica è dappertutto: alla radio e alla tv, sul web e nei telefonini, negli ascensori e nei supermercati, all’autolavaggio e all’interno di uno sportello del bancomat, nelle sale d’aspetto e nei mezzanini della metropolitana. Ce n’è troppa, un’overdose di note e suoni che alla fine l’hanno trasformata in rumore di sottofondo. E così a lungo andare s’è persa non solo l’educazione all’ascolto ma anche il saper riconoscere la musica, saperla scrivere e suonare. Una nazione, ha detto lo scrittore Tiziano Scarpa, è fatta dai ritornelli che sceglie di canticchiare all’infinito perché la musica leggera è lo specchio più immediato e reale di quello che è un Paese, la forma d’arte che più di ogni altra rappresenta i sentimenti della gente. E da una decina di anni non si cantano più i ritornelli perché non si scrivono più belle canzoni. Lo stato attuale della musica italiana versa ai minimi storici: secondo diversi critici le canzoni pubblicate oggi nella quasi totalità è robaccia. I testi – tranne rare eccezioni – non spiegano il mondo e la realtà, nella migliore delle ipotesi sono un elenco di luoghi comuni che vorrebbero fustigare la società, ma che diventano poco più che didascalie.

Cosa rimane oggi di questi 50 anni di storia musicale?
Rimangono molte canzoni – alcune davvero splendide – che sono pagine della storia d’Italia. Brani come Chi non lavora non fa l’amore di Adriano Celentano, Contessa di Paolo Pietrangeli, Musica ribelle di Eugenio Finardi, Quando è moda è moda di Giorgio Gaber, L’avvelenata di Guccini, L’anno che verrà di Lucio Dalla fotografano alla perfezione il momento storico in cui sono state scritte.

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