
In che modo il gioco si pone come figura del rapporto drammaturgico fra senso e nonsenso?
All’origine della facoltà simbolica degli esseri umani non c’è una forza, né una volontà di potenza, ma, anzi, il riconoscimento dell’esposizione, della vulnerabilità, della posizione passiva e recettiva dei singoli individui e delle colettività rispetto all’accadere degli eventi. Qui cogliamo l’essenziale prossimità tra il simbolo e il gioco, che attraversa le pagine del libro. Gli eventi si distinguono dai fatti proprio perché essi capitano a “x”, e non sono a prescindere dal loro esser accaduti in una situazione, in un determinato contesto. Il mondo è, nella prospettiva vivente del simbolo, una continua matrice di eventi ed evento esso stesso, divenire che si differenzia. Così, il come della domanda che istituisce il simbolo, ossia la dimensione del senso, intende rispondere ad una provocazione che ha negli eventi della vita la sua ragione e, al contempo, la sua fonte di insicurezza, l’apparire del limite del nonsenso. A questa insicurezza il simbolo non cerca di porre rimedio mediante la soppressione della datività dell’evento, rovesciando nella stabilità del concetto la prensilità e l’apparente mancanza di vie d’uscita con cui l’evento afferra e trascina. Il simbolo, a differenza del concetto, non cerca di anticipare il possibile esito letale dell’evento nel rassicurante schermo intellettuale e cognitivo che isola e neutralizza l’oggetto dalla variabilità della vita e ne fa mero spettacolo, ma piuttosto disegnando figure di azioni e reazioni possibili, cioè generando trame di vita. Il gioco, sia per gli animali superiori in generale, sia per quella particolare specie di animale che si autodefinisce Homo sapiens, consiste soprattutto nel far finta che (to play, spielen, jouer sono verbi che, nelle loro lingue madri, descrivono vuoi l’attività del gioco, vuoi quella del recitare), ovvero nell’assumere comportamenti “come se”, immaginando circostanze diverse dalla realtà che si sta vivendo, ma, contemporaneamente, dimostrando che si è consapevoli dei limiti di questa finzione. I gatti, i leoni e le tigri ritirano gli artigli, i cani mordono dolcemente, i delfini urtano appena. Il gesto contiene se stesso assieme alla sua elusione. Simulare, da simul, significa essere insieme, simultaneamente, l’uno e l’altro: due mondi, quello della realtà e quello della possibilità, che stanno insieme distinguendosi e intrecciandosi. Nel gioco si tratta da un lato di possibilizzare la realtà, di rinunciare al primato del reale, alla sua imponenza, alla sua indiscutibilità; dall’altro di realizzare la possibilità, di togliere alla possibilità la sua vaghezza e/o la sua intransigenza visionaria, per farne apparire l’ibridazione con la realtà.
Che rapporto esiste fra gioco e lavoro nello sport?
Nel mondo contemporaneo lo sport sembra sempre più allontanarsi dalle sue origini ludiche. Non solo per quanto concerne l’ambito professionistico, ma anche in quanto pratica ricreativa dilettantistica, lo sport cessa di essere una “forma di vita” laterale e autonoma, che si avvicinava alla sfera del gioco di contro al principio di prestazione del lavoro e della produzione, e si inserisce a pieno titolo nell’orizzonte unidimensionale della società dello spettacolo postmoderna. Ma la perdita della caratteristica ludica dello sport non si deve soltanto all’emergere del professionismo sportivo, quanto alla sua banalizzazione all’interno di una società che privilegia la spettacolarizzazione, l’autorispecchiamento e, quindi, la riduzione dello sport a qualcosa di assolutamente fittizio e consapevolmente irreale. Quella in cui cresce il fenomeno dello sport è, infatti, è la società dello spettacolo dove, come ci ha insegnato Guy Debord, «lo spettacolo non è un insieme di immagini, ma un rapporto sociale tra persone, mediato dalle immagini». Ecco allora che anche gli sportivi dilettanti finiscono per assumere una concezione alienata di se stessi e del loro stesso corpo, inteso come uno strumento, come una macchina che può essere sempre sospinta oltre i suoi momentanei limiti. Il corpo del singolo sportivo diventa un’immagine che si modella secondo gli stereotipi forniti dagli atleti professionisti, scolpito in palestra e negli allenamenti come si trattasse di un vero e proprio lavoro. Nel dilettantismo sportivo non sono infrequenti i casi di doping e la violenza del tifo è il corollario di molti eventi sportivi professionistici. L’interpretazione dello sport in termini di “evasione”, vuoi anche di evasione come “fruzione di uno spettacolo”, coincide storicamente con l’organizzazione del tempo libero all’interno dell’attività produttiva. D’altra parte, chi spinge lo sport verso il gioco e verso una sfera completamente estranea al lavoro ottiene, talvolta, il suo esatto contrario, ossia l’approssimazione e l’assimilazione dello sport a un tipo particolare e determinato d’industria, quella dello spettacolo: lo spettacolo di sé e del proprio corpo, per lo sportivo dilettante, lo spettacolo del record o della finale storica, per lo sport professionistico. Il paradosso del tempo libero diventa, allora, la sua trasformazione nel tempo organizzato e capillarmente sfruttato dall’industria dello spettacolo, modellato ad immagine e somiglianza del tempo lavorativo e governato dalla stessa etica del forcing. La ricerca di una sensazione culminante e disperata è ciò che tiene assieme una miriade di fenomeni sociali contemporanei, dal gioco d’azzardo patologico e compulsivo allo shopping seriale, dai comportamenti giovanili più pericolosi e temerari, come il parkour sui tetti metropolitani, fino alle più “tradizionali” forme di tossicodipendenza e, ovviamente, agli sport cosidetti estremi, in cui spesso si mette a repentaglio la propria vita per motivi che appaiono futili. Ci pare, infatti, che la vita sia un bene troppo prezioso e serio perché degli uomini possano metterla a rischio tanto stupidamente e, per così dire, quasi per gioco. Ancora una volta la metodica alterazione quantitativa del desiderio sembra essere ben altro che una degenerazione della nostra epoca, quanto il suo tratto distintivo, la cifra stilistica che sta all’orizzonte contemporaneo così come lo slancio verticale degli archi a sesto acuto caratterizzava, nel tardo medioevo, l’età del gotico. Eppure, c’è una libertà che viene prima di ogni confronto con gli altri, con i nostri simili, e che anticipa qualsiasi regola e qualsivoglia prescrizione sociale. Potremmo descrivere questa libertà prepolitica come una sete d’esperienza, come un intimo impulso a mettersi alla prova, nonostante tutto e tutti. L’esperienza è, in questo senso, quell’attimo miracoloso in cui gli individui hanno l’impressione di disporre liberamente del mondo, ossia di esserne in qualche modo sovrani.
Andrea Tagliapietra (Venezia, 1962) è professore ordinario di Storia della filosofia, Storia delle idee e Filosofia della cultura all’Università San Raffaele di Milano, dove coordina il Corso di Laurea Magistrale in Teoria e Storia delle Arti e dell’Immagine. È direttore del Centro di ricerca CRISI (Centro di Ricerca Interdisciplinare di Storia delle Idee) e di ICONE, Centro Europeo di Ricerca di Storia e Teoria dell’Immagine e codirige la rivista internazionale di filosofia “Giornale Critico di Storia delle Idee” (www.giornalecritico.it). Tra le sue pubblicazioni più recenti: Esperienza. Filosofia e storia di un’idea (Raffaello Cortina 2017), Filosofia dei cartoni animati. Una mitologia contemporanea (Bollati Boringhieri 2019) e Voltaire, Rousseau, Kant, Filosofie della catastrofe (Raffaello Cortina 2022).