
Quali caratteri aveva la nuova monarchia?
Il Plan de Iguala fu perentorio nel conformare l’Impero messicano come una monarchia costituzionale, la cui Carta sarebbe stata redatta da un Congresso rappresentativo della nazione. Nel frattempo, una Giunta provvisoria e una Reggenza avrebbero rispettivamente esercitato il potere legislativo e il potere esecutivo fino alla riunione del costituente e alla venuta dell’imperatore. Iturbide selezionò personalmente i membri della Giunta, cercando di inserirvi le anime politiche e i gruppi di interesse più rilevanti; la stessa Giunta, poi, lo elesse presidente della Reggenza. All’interno del Plan de Iguala, rifinito e completato dal cosiddetto Trattato di Cordoba, che Iturbide aveva stipulato il 24 agosto 1821 con il liberale Juan O’Donojú (ultimo jefe político e capitano generale della Nuova Spagna), risaltava un onnicomprensivo principio di uguaglianza formale: anche i discendenti liberi di schiavi africani vennero riconosciuti come cittadini del nuovo Impero, all’opposto di quanto prescriveva la Costituzione di Cadice, che negava i diritti politici a questi gruppi etnico-sociali. Completava il quadro valoriale dell’emancipata monarchia americana la sanzione di alcuni principi fondamentali come l’intolleranza religiosa (del resto presente anche nella Carta di Cadice), l’indipendenza assoluta della nuova nazione da ogni altra e l’unione socio-politica tra tutti gli abitanti del nuovo Impero: tale trittico venne esaltato e identificato col nome di “Tre Garanzie”. Il vertice della monarchia fu offerto a Ferdinando VII o a un suo familiare: in effetti, se pure il diritto dei popoli a garantirsi un governo migliore, o ad autodeterminarsi allo scopo, era implicito negli stessi principi liberali che in Spagna avevano imposto al re Borbone il ristabilimento del governo costituzionale, con questa mossa dal sapore legittimista bisognava ribadire che tale buon diritto della nazione a emanciparsi dalla Madrepatria (il cui sistema di governo era inadeguato a garantire la “felicità” dei messicani) non andava in alcun modo confuso con un’odiosa ribellione nei confronti del monarca, considerato esente da colpe per il cattivo stato dei territori americani. Ribadendo la fedeltà a Ferdinando VII, perciò, l’indipendenza non violava le prerogative della dinastia legittima e si metteva al riparo – così si dovette auspicare – da eventuali reazioni della Santa Alleanza. Il Trattato di Cordoba, tuttavia, previde che, in caso di rifiuto del trono da parte dei Borbone, il Congresso avrebbe potuto eleggere l’imperatore tra i personaggi preferiti dalla nazione.
In attesa della stesura della Carta messicana, Iturbide e i suoi sodali si posero il problema del vuoto normativo originato dall’automatica caducazione della Legge fondamentale della monarchia ispanica in conseguenza dell’emancipazione: perciò, di certo convinto in tal senso anche dalla preferenza delle classi dirigenti per le istituzioni liberali gaditane, nel corso della campagna indipendentista Iturbide impose che, fino alla stesura del Documento autoctono messicano, si continuasse a osservare la Costituzione di Cadice; il Plan de Iguala, in origine, ne aveva conservato solo la parte dedicata alla persecuzione dei delitti. La rinnovata centralità del sistema del 1812 si sarebbe però rivelata piuttosto problematica, soprattutto a causa della preminenza istituzionale che esso conferiva al Legislativo, in virtù del suo rapporto privilegiato con la sovranità nazionale: su queste basi, non solo la Giunta provvisoria si proclamò subito “sovrana”, ma lo stesso Congresso costituente, una volta riunitosi il 24 febbraio 1822, si proclamò esclusivo rappresentante, appunto, della sovranità della nazione e mise in crisi il ruolo e le funzioni dell’Esecutivo nonché, di conseguenza, la rilevanza politica di Iturbide.
Come si sviluppò la parabola politica di Agustín de Iturbide?
Militare di carriera nato in una ricca famiglia dell’importante città di Valladolid de Michoacán, Iturbide acquisì prestigio nell’esercito del re durante la repressione dell’insurrezione degli anni Dieci: si diceva che non avesse mai perso uno scontro armato, ma la sua presunta invincibilità non gli evitò l’allontanamento dal comando, a causa di voci sulla sua condotta violenta e disumana nei confronti dei ribelli e su un florido commercio illegale praticato nella regione del Bajío. Caduto in disgrazia, alla fine del decennio Iturbide si stabilì a Città del Messico, dove entrò in contatto col mondo politico della capitale e strinse amicizie potenti, sia negli ambienti più conservatori, che in quelli liberali. Ai primi appartenevano i membri del clero i quali, alla notizia del ripristino dell’ordinamento gaditano in Europa, che avrebbe altresì comportato la reviviscenza dei decreti anticlericali, stavano progettando di emancipare la Nuova Spagna per affrancarsi dalla Madrepatria rivoluzionaria; tra i secondi, invece, si collocavano gli autonomisti che, in attesa della riunione delle Cortes di Cadice, stavano preparando il “piano B” per il caso del rigetto delle proprie proposte. Entrambi i gruppi videro in Iturbide il potenziale leader militare dei rispettivi piani emancipatori, ma la sua preferenza finale per il “partito” liberale indicherebbe che il futuro Libertador non coltivasse idee reazionarie. Perlomeno, egli sembrava avere consapevolezza della rilevanza centrale dei sistemi costituzionali rappresentativi in un “orbe Atlantico” che stava via via tentando di liberarsi delle persistenti scorie dell’Antico Regime, così come del fatto che non si potesse tornare indietro dalla nuova consapevolezza su diritti e libertà di popoli e individui, sull’irrinunciabilità del principio di sovranità nazionale e sul ruolo principale delle Carte fondamentali, contenitori di tali conquiste “ideologiche” della modernità. Al limite, si può sospettare che Iturbide dubitasse dell’effettiva utilità della Costituzione di Cadice in quanto modello per il nuovo esperimento monarchico costituzionale messicano: troppo instabile appariva quel sistema, sbilanciato verso l’assemblea legislativa monocamerale e mortificatore delle attribuzioni regie. Quando il Congresso messicano, autoproclamatosi erede dell’esperienza giuspolitica delle Cortes straordinarie di Cadice, tentò di penalizzare le attribuzioni del vertice dell’Esecutivo per ridimensionare il peso politico del Libertador, i gruppi che lo sostenevano ritennero che solo la sua elezione a imperatore (possibile perché nel frattempo le Cortes di Madrid avevano rigettato il Tratto di Cordoba e dunque impedito a Ferdinando VII di diventare monarca del Messico) avrebbe potuto ripristinare gli equilibri istituzionali della monarchia. Tuttavia, la proclamazione di Iturbide, il 19 maggio 1822, esacerbò ulteriormente i contrasti istituzionali, che culminarono nell’arresto di diversi deputati del Congresso, accusati di far parte di una cospirazione repubblicana. Di lì a poco, l’imperatore sciolse il costituente e lo sostituì con una Giunta istituente da lui selezionata: si trattò di un macroscopico errore politico, che in seguito a convulse vicende fornì ai settori scontenti dell’esercito il pretesto per abbattere la monarchia con l’appoggio degli insoddisfatti gruppi dirigenti delle province, esiliando Iturbide (che aveva intanto abdicato) nella primavera del 1823. Ritornato in Messico sotto mentite spoglie dopo un breve passaggio in Europa, il Libertador finì i suoi giorni nel luglio del 1824, nel villaggio di Padilla, dove fu smascherato e giustiziato in forza di un decreto del Congresso della nuova Repubblica federale messicana, nel frattempo costituitasi.
Quali valutazioni ha tradizionalmente espresso la storiografia sull’esperimento monarchico messicano e quale diversa lettura ne è in realtà possibile fornire?
Uno dei problemi interpretativi nell’approccio alla vicenda dell’Impero è la sua quasi completa identificazione con l’infelice parabola di Iturbide: poiché la monarchia cadde insieme al suo fondatore in conseguenza di un’apparentemente univoca reazione nazionale alla deriva “dispotica” del suo controverso potere, e poiché il risultato di questo processo rivoluzionario fu la definitiva fondazione di una Repubblica federale, fin dalla prima metà dell’Ottocento si è considerato l’Impero come una sorta di “incidente di percorso” sulla via dell’affermazione della forma repubblicana di governo. Del resto, il discorso repubblicano, dopo l’intermezzo imperiale, pareva riannodarsi automaticamente alla vicenda insurrezionale degli anni Dieci e alle proposte, appunto, repubblicane allora esplicitate anche col contributo di alcuni intellettuali e uomini politici poi coinvolti in prima linea nell’opposizione a Iturbide. Alla nuova mitologia repubblicana, che impose la proscrizione del Libertador dal pantheon dei veri artefici dell’indipendenza, nei decenni è andata a contrapporsi la tendenza uguale e contraria, e perciò ugualmente decontestualizzante, a ripristinare l’immagine eroica dell’effimero imperatore, esaltandone i meriti per l’affermazione nazionale messicana. A partire dalla metà del Novecento, la storiografia ha però iniziato a rivisitare l’epopea dell’Impero, in particolare arrivando a reinterpretare il Plan de Iguala al di là della personalità e del ruolo di Iturbide (che ebbe comunque il merito di esserne l’abile attuatore), considerandolo un documento pregno di significato politico e istituzionale, le cui peculiarità – compreso il principio monarchico – risultano pienamente calate nel contesto delle rivoluzioni liberali di quegli anni messe in moto, sull’una e l’altra sponda dell’Atlantico, dalla grande forza propulsiva del liberalismo ispanico. Quella che, però, andrebbe tentata con maggiore decisione – ed è questa la direzione che il libro ambisce prendere – è una rilettura anche delle fasi successive, quelle in cui Iturbide sembrò abusare della propria dignità istituzionale di imperatore e “metaistituzionale” di Libertador per continuare a imporre non solo la monarchia, messa in discussione dalla crescente emersione delle simpatie repubblicane (coerenti con il più generale contesto ispanoamericano), ma un tipo di monarchia che appare distante dal modello gaditano. Tale svolta può ancora essere motivata con un’autoreferenziale appetito di potere da parte di Iturbide, magari da soddisfare convertendo la monarchia costituzionale messicana in un’anacronistica monarchia assoluta? In realtà, se si rileggono i documenti pubblici e privati, i periodici e i pamphlets (che ho potuto consultare durante soggiorni di ricerca in Messico e negli Stati Uniti, per lo svolgimento dei quali è stato decisivo il sostegno scientifico della mia Tutor, Prof.ssa Valeria Ferrari, e quello finanziario di “Sapienza” Università di Roma, del Dipartimento di Scienze Politiche diretto dal Prof. Luca Scuccimarra e del Dottorato in Studi Politici), si potrebbe forse ipotizzare che Iturbide e i suoi sostenitori tentarono piuttosto di imporre un progetto monarchico pur sempre costituzionale, ma alternativo al – secondo loro – instabile modello ispanico del 1812. Iturbide e i suoi sodali, convinti della bontà intrinseca della monarchia come forma di governo portatrice di una stabile governabilità, a maggior ragione in un contesto politicamente immaturo come quello del neoemancipato Messico, avrebbero forse preferito avvicinare l’Impero alla Francia di Luigi XVIII, che col suo bicameralismo e il rafforzamento della prerogativa regia sembrava aver sepolto con successo la stagione degli eccessi rivoluzionari. Non (o almeno non solo) una virata verso la concentrazione dei poteri nelle mani dell’imperatore per fini meramente autocratici, quindi, ma il tentativo da parte di un gruppo di potere (rivelatosi tuttavia maldestro) di impostare un cambio del modello politico di riferimento, per risolvere alcune criticità della monarchia costituzionale ispanica che, del resto, il discorso pubblico europeo già segnalava da tempo; un esperimento, perciò, che per quanto effimero fu perfettamente “atlantico” e non certo da confinare a una dimensione meramente “regionale”, e che nel contesto delle rivoluzioni liberali dei primi anni Venti dell’Ottocento merita attenzione, al netto delle innegabili specificità del caso messicano e nonostante i tradizionalmente segnalati demeriti e le miopie politiche di Iturbide.
Ludovico Maremonti ha conseguito con lode il titolo di dottore di ricerca in Studi Politici presso il Dipartimento di Scienze politiche della Sapienza Università di Roma