
Come si è evoluta la riflessione teorica sulla moda?
La moda ha affascinato le scienze sociali sin dal loro affermarsi come discipline articolate e autonome: lo dimostra il saggio che uno dei “padri” della Sociologia, Georg Simmel, dedicò alla fine dell’Ottocento proprio a questo fenomeno, in cui egli individua come il ruolo della moda sia quello di essere al tempo stesso prodotto e motore della differenziazione sociale. Nel libro vengono presentate alcune delle teorie classiche della moda, da quelle sociologiche di Simmel, alla filosofia di Walter Benjamin, alla linguistica strutturalista novecentesca, alla semiotica di Barthes, sino all’emergere, negli ultimi decenni del Novecento, della Fashion Theory.
In che modo la moda traduce le molteplici tensioni dei corpi nella società?
Proprio la Fashion Theory concepisce la moda come il luogo dove si manifesta una complessità di tensioni, di significati e di valori, che non si riferiscono solo alla dimensione vestimentaria. Questa complessità ha al suo centro il corpo e le modalità del suo essere al mondo, del suo rappresentarsi, del suo mascherarsi, travestirsi, misurarsi e confliggere con stereotipi e mitologie. La Fashion Theory è dunque un campo del sapere complesso, molteplice e trans-disciplinare che traduce la grande forza del corpo umano quale produttore di segni e significati imprevedibili, ma anche le costrizioni, gli stereotipi la riduzione a oggetto che il corpo vive attraverso la moda e il suo immaginario.
Quali problematiche ha introdotto la pandemia?
Innanzitutto, una crisi devastante. Particolarmente in Italia, paese che detiene il 41 percento della produzione di tessile e abbigliamento in Europa, la crisi, sia economica che sociale, provocata dalla pandemia, si è sentita moltissimo in questo settore, come anche nei circuiti che appartengono comunque al benessere e all’estetica del corpo – dai parrucchieri, ai centri estetici, alle palestre. Dunque, la prima risposta alla domanda “che cosa ha a che fare la moda con la pandemia?” riguarda proprio la sopravvivenza materiale di un sistema che, a dispetto di chi pensa sia solo un fatto di “vestitini e vanità”, è uno dei giganti che reggono la vita produttiva e culturale del mondo intero.
Certo, l’industria della moda è anche il secondo settore di inquinamento globale, dopo il petrolio, è anche un sistema globale che contribuisce non poco a introdurre disparità sociali strazianti, che in parte si fonda su delocalizzazioni di comodo in luoghi del mondo dove la dignità del lavoro non è minimamente rispettata, che spesso non guarda in faccia a come certi indumenti vengano prodotti, a quali materiali, tessuti, processi di colorazione vengano utilizzati. Da tempo, sia tra gli operatori e gli studiosi della moda, sia nel dibattito pubblico su cosa essa sia diventata nella nostra epoca, si discute dell’esigenza che la moda, se vuole avere un futuro, di futuro debba preoccuparsi. Sostenibilità, etica, impegno sono stati individuali come tre valori che la moda deve salvaguardare per costruire non solo il suo proprio futuro, ma un’idea generale di futuro inteso come “etica della possibilità”, per parafrasare un’espressione di Appadurai, valida per l’intera società. E questi aspetti sono venuti ancora più alla luce con la pandemia. La crisi si è trasformata nell’occasione per attribuire agli oggetti, compresi quelli di moda, nuove scale di valore, come la durata, la qualità, la personalizzazione, la consapevolezza sul processo di produzione. Anche e proprio nel momento in cui la vita produttiva riprende dopo i momenti più brutti della pandemia, è necessario ripensare a nuove e più autentiche priorità.
Che relazione esiste tra moda e inclusione sociale?
Nel mio libro sono messe in luce le modalità attraverso cui la moda può essere un sistema autenticamente democratico ed emancipatorio e può rappresentare un terreno di inclusione, invece che di esclusione, delle molteplici differenze che i corpi, nella loro infinita varietà – di generi, abilità, misure, colori, età – presentano. Naturalmente questo non vuol dire che la moda sia di per sé inclusiva, tutt’altro. Il costume ha regolato nella storia dell’umanità l’eteronormatività e il dualismo sessuale, cioè il presunto “destino” biologico che divide rigidamente in due i desideri, gli orientamenti, le morfologie del corpo, le prerogative dei generi. La moda borghese è stata ed è tuttora concepita come un sistema destinato prevalentemente a classi agiate, a corpi magri, a generazioni giovani, a pelle bianca, a costituzioni fisicamente “sane”. La moda è però ambivalente: da un lato contiene in sé e riproduce la rigidità dei codici sociali e culturali, dall’altro, soprattutto oggi, comprende invece azioni che eccedono tali codici, li sovvertono, includendo nella partecipazione ad essa una estesa molteplicità di soggetti sociali.
La moda si fonda nel nostro tempo, in molte sue componenti, su pratiche e teorie impegnate su temi come la decostruzione degli stereotipi del genere e del corpo, la lotta alle disuguaglianze sociali, al razzismo, al sessismo, all’esclusione delle diverse abilità, e, come vedremo nel prossimo capitolo, rivolte alla realizzazione di una sostenibilità radicale. Queste pratiche sono oggi portate avanti da diverse reti sociali di designer, attivisti e teorici che lavorano su concetti e progetti ispirati a quella che può definirsi “Fashion revolution”. La pandemia ha accentuato in modo deciso l’impegno in tal senso, e pone l’urgenza per la moda di pensare l’estetica in stretta relazione con l’etica.
In che modo la moda influenza media e politica?
La moda, in quanto sistema tecnicamente riproducibile del vestito, si afferma pienamente come tale quando i segni che la descrivono, la raccontano e la rappresentano diventano tecnicamente riproducibili essi stessi. In questo senso, i meccanismi di esistenza stessa della moda fanno parte integrante di quel processo sociale e culturale che Benjamin chiama la “riproducibilità tecnica dell’opera d’arte”, intesa come la possibilità di riprodurre i segni in infinite copie e per masse di persone. Il giornalismo, la fotografia e il cinema rappresentano i principali mezzi che hanno permesso l’esistenza compiuta e la riconoscibilità sociale della moda, il suo “avvicinamento alle masse” come si potrebbe dire con Benjamin. Giornalismo, fotografia e cinema hanno non solo divulgato la moda, come semplici mezzi di informazione, ma ne hanno costruito gli scenari, hanno orientato i gusti, costruendo insieme i luoghi e le forme entro cui la moda è diventata trascrivibile, leggibile, visibile, avvicinabile e riproducibile.
Nella seconda metà del Novecento, la moda stessa si è fatta mezzo di comunicazione di massa, non ha più quindi solo interagito con la stampa, la fotografia e il cinema come “macchine di senso e figure del corpo”, ma ha assunto direttamente il ruolo di medium, nella forma della “mass moda”. La rivoluzione digitale e informatica di fine Novecento ha introdotto poi ulteriori trasformazioni, ponendo attraverso la moda la questione dell’identità, individuale e sociale, in rapporto all’immagine e alla scrittura prodotte digitalmente, e non più analogicamente. Oggi la moda ha a che fare con una molteplicità di discorsi sociali in cui il sistema vestimentario in quanto sistema comunicativo si incrocia e vive in sinergia con altri sistemi comunicativi: media digitali, cinema, musica, fotografia, giornalismo, arte, video, pubblicità, gioco, sport. La costruzione del significato sociale dell’abito passa attraverso una intersemioticità diffusa che permette il montaggio e il rimontaggio di stili, di gusti e di tempi, una sorta di navigazione tra i segni in cui è possibile scegliere tra senso di appartenenza e travestimento.
Per lungo tempo, si è pensato che la moda e il corpo non abbiano nulla a che vedere con la politica e il potere. Invece tale rapporto esiste, e sono stati, drammaticamente, i totalitarismi europei novecenteschi a praticarne le estreme conseguenze, con il culto della personalità e le rappresentazioni fastose della corporeità del leader – le adunate oceaniche, le parate militari, il cinema di regime – nel nazismo, nel fascismo e nello stalinismo.
Con l’avvento della società della comunicazione, in particolare a partire dal secondo dopoguerra, il rapporto tra moda e politica torna in auge anche nella consapevolezza di chi lo studia e se ne serve. Non si tratta però semplicemente di un uso della moda e dell’estetica nella “comunicazione” politica, in senso stretto, ma di vere e proprie forme della politica in quanto tale. I media di massa e poi digitali hanno infatti fatto emergere in modo esplicito il fatto che la politica ha uno stretto legame con la corporeità, sia materiale che simbolica, con il corpo e con le forme di relazione tra i corpi. La politica si fonda su una “microfisica del potere”, per usare l’espressione di Foucault, che passa attraverso il corpo e i suoi usi, compresi il vestire e la moda.
Nel libro analizzo il rapporto tra vestito, politica e potere, soprattutto nell’epoca contemporanea, guardando anche ad alcuni archetipi di questo rapporto, come l’uniforme; alle anti-mode, come forme invece di resistenza al potere; e infine al rapporto tra corpo, abito e sicurezza nelle cosiddette attuali società del rischio.
Patrizia Calefato insegna Sociologia dei processi culturali e comunicativi all’Università degli Studi di Bari Aldo Moro. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Lusso. Il lato oscuro dell’eccesso (Meltemi, 2018) e Fashion as Cultural Translation: Signs, Images, Narratives (Anthem, 2021).