Non ha fine, ma infiniti inizi che si chiamano orizzonti. Conosce l’arte dell’incanto, dello stupore, della paura, dell’impazienza e dell’attesa.
Inghiotte navi, offre doni, sorprende in porti che non compaiono sulle carte tracciate
da altri che non siamo noi.
È dolce di onde e crudele di tempeste, la sua acqua è salata come il sudore della fatica, come le lacrime del tanto ridere, come il pianto del troppo dolore.»
In queste prime parole del nuovo romanzo di Andrea Marcolongo La misura eroica sono racchiuse le innumerevoli metafore che l’autrice riesce a donarci con il suo scritto per parlarci di qualcosa di più profondo: un percorso dentro noi stessi.
Sì, perché il viaggio in questo romanzo è il fulcro su cui poggia qualsiasi concetto, ogni ragionamento o riflessione.
Mettersi in cammino comporta una serie di emozioni, sensazioni, stati d’animo che permettono di sbloccare una situazione stagnante e farle prendere una nuova direzione. La misura dell’essere eroici si trova in tutta questa dimensione: spostare fisicamente il proprio corpo, ridestarsi dal torpore, decidere di fare, agire, muoversi, spinti dall’esigenza di vivere con tutte le nostre forze qualcosa di nuovo ed inedito.
Avere il coraggio di scegliere, anche se ri-partire significa lasciare, allontanarsi, anche con dolore, dai luoghi o dalle persone care; come si dice “partire è un po’ morire”.
Viaggiando, non solo per mare, l’itinerario è fatto di tappe. Non si possono considerare però come delle realtà esteriori; non è solo il picchetto della tenda tolto, affinché la tenda venga piantata in un altro posto, per poi andare via ancora.
I momenti di un viaggio, come ricorda l’autrice, si riferiscono soprattutto a quelli dell’anima; un cammino interiore quindi, alla ricerca di qualcosa; un percorso del cuore, un itinerario. Così si può veramente percepire il vero valore dell’esistere, fuori dal cono d’ombra nel quale pigramente ci si nasconde.
Questo movimento deve diventare un dinamismo che coinvolge tutta la persona; una strada fatta di intelligenza, gambe, fatica, energie psichiche e fisiche.
Con tenerezza Andrea Marcolongo ci sprona a fare così e a non perderci d’animo.
Anche lei ha cercato di agire in questo modo; è uscita dalla sua oscurità nella quale si era nascosta per diversi anni. Ad un certo punto è rinata e con coraggio si è esposta alla luce; ha ritrovato la sua strada, quella della scrittura. Grazie a questo strumento, molto introspettivo, è riuscita a narrarsi, a raccontarsi. Ha combattuto contro un mondo che non era il suo, o più precisamente da un’ipocrisia quotidiana, a cui lei rispondeva sempre “va tutto bene”.
L’autrice ci conduce per mano nel suo percorso e quando la scrittura ha bussato alla sua porta, ha trovato quella misura eroica di lasciarsi avvolgere da essa. In questo modo ci ha donato attimi della sua vita precedente. Ci ha raccontato delle sue cadute, delle sue paure, quel non dire o dire poco, per monosillabi. Aveva perso l’uso delle parole e non riusciva più a comprendere il loro significato. Ma proprio in quel suo viaggio di crescita, ha riconosciuto che le parole stesse hanno un significato importante. Così, un pensiero dietro l’altro, ha costruito un romanzo che l’ha catapultata all’incontro con gli altri, a confrontarsi con gli altri che hanno conosciuto il dolore e riconoscendo in quel dolore anche il suo (la perdita della propria madre), ha agito, è cresciuta ed è cambiata.
Il viaggio in questo romanzo è anche, quindi, quello delle parole. La scrittrice, da grande studiosa e conoscitrice delle lingue antiche (in particolare del greco), ci guida senza supponenza in un universo linguistico. Tante di quelle che pronunciamo derivano dalla lingua greca. Molti non lo sanno, ma le desinenze e le radici di parole di uso comune che utilizziamo quotidianamente hanno un significato profondo che ci porta quasi a meravigliarci nello scoprirlo, leggendo appunto il libro.
Ci sono anche altri viaggi in questo romanzo: quello emblematico di Giasone e dei suoi marinai de “Gli argonauti” dello scrittore antico Apollonio Rodio. Questa vicenda epica permette all’autrice di discutere sul significato del viaggio come crescita personale. Giasone è un adolescente, biondo e con gli occhi azzurri. Affronta per la prima volta un viaggio molto lungo alla ricerca del vello d’oro che si trova nella Colchide, regione ricca e misteriosa dove il re Eeta possiede il manto di un ariete alato capace di volare. Questo giovane diviene eroico in quanto ha scelto di navigare con la nave Argo, prendere il largo e decidere della propria vita. Ciò gli permetterà di raggiungere il suo obiettivo e di trovare la felicità nell’amore di Medea, giovane principessa di quella terra lontana dove il giovane eroe sarebbe approdato. Anche lei ha dimostrato il suo coraggio, scegliendo di andare con lui in quella Grecia a lei sconosciuta, ma con Giasone al suo fianco sarebbe andata ovunque.
L’autrice alla fine del romanzo ci fa conoscere anche un piccolo manuale inglese del 1942, in cui viene spiegato come abbandonare una nave in caso di naufragio, evento frequente durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale.
La scelta di lasciare una nave al collasso è anche questo un atto di coraggio, perché ce ne vuole tanto quando si decide che si è fatto tutto il possibile e non c’è più nulla da fare, se non appunto, con eroicità, “lasciarsi scivolare giù” (cit. pag 195) e allontanarsi dalla nave senza più guardarsi indietro.
Prima di concludere il suo scritto Andrea Marcolongo ci rinnova ancora l’augurio di avere il coraggio di andare, lasciare il porto. Tutti noi dobbiamo intraprendere il viaggio nel nostro mare: ecco allora il mare di Marco, di Elena, di Fabio, ecc…
E anche se spesso ci sentiamo avvolti da un “mare di dubbi” proviamo a navigare, ritrovando fiducia e coraggio in noi stessi. Grazie Andrea Marcolongo per tutto questo!
Elisabetta Baldini