
Che relazione esiste fra antropologia e neuroscienza?
Entrambe le discipline soffrono una circolarità dovuta a un principio di indeterminazione inevitabile: l’essere umano è allo stesso tempo soggetto e oggetto di studio. Quindi sono discipline vincolate ai limiti della nostra stessa percezione, delle nostre stesse strutture cognitive, e dei tanti conflitti di interesse che si possono generare quando il giudice è anche l’imputato. Inoltre, per la stessa ragione, includono tutto il sapere. Nel primo caso l’essere umano studia l’essere umano, nel secondo il sistema nervoso studia il sistema nervoso. Come conseguenza tutto è antropologia, e tutto è neuroscienza. I loro confini si sperdono, si confondono, e si mischiano. Il vantaggio di tutto questo è l’avere un oceano infinito da esplorare. Lo svantaggio è che è incredibilmente facile perdersi, sbagliare la rotta, o finire annegati.
Quali cambiamenti sono intervenuti nell’anatomia cerebrale del genere umano?
Ad oggi pensiamo che il nostro genere, il genere umano (Homo), possa avere circa due milioni di anni. In questi due milioni di anni non abbiamo avuto solo un lignaggio che è cambiato poco a poco, ma abbiamo probabilmente generato diverse linee evolutive, parallele e indipendenti, ognuna con una sua storia differente. Gli evoluzionisti nel secolo precedente mettevano tutto su un unico binario, un processo lineare, graduale e progressivo. Ma oggi crediamo che invece il genere umano, come qualsiasi altro genere di primati, ha avuto tante branche distinte. Qualcuna si è evoluta in qualcos’altro, qualcuna no, qualcuna si è estinta. Per esempio è probabile che la specie che chiamiamo Homo erectus, dopo un’origine africana, abbia continuato in Asia la sua storia indipendente dalla nostra. Anche i Neandertaliani (Homo neanderthalensis), probabilmente hanno rappresentato un binario parallelo al nostro, un lignaggio soprattutto europeo che poi si è estinto. Allora è chiaro che anche l’anatomia cerebrale o le capacità cognitive non sono cambiate secondo uno schema comune, e ogni specie sarà andata incontro a variazioni personali, mantenendo qualche carattere primitivo (comune a tutto il genere umano) e evolvendo qualche carattere nuovo, diverso da caso a caso. Sappiamo che molte di queste specie hanno subito un processo di encefalizzazione, ovvero di un aumento delle dimensioni dell’encefalo rispetto alle dimensioni del corpo. Dobbiamo quindi pensare che questo aumento comportava un qualche vantaggio selettivo, e di fatto ci sono evidenze che suggeriscono un aumento della complessità comportamentale associata a un aumento delle dimensioni cerebrali. Ma, a parte le dimensioni, è probabile che ogni specie abbia avuto differenze nelle proporzioni delle diverse regioni del cervello, qualche area più sviluppata, qualche connessione differente, il tutto associato a piccole o grandi differenze cognitive e comportamentali. Il problema è che queste differenze possono essere difficili da rilevare nei fossili. La paleoneurologia cerca di ricostruire l’anatomia del cervello nelle specie estinte, utilizzando la cavità del cranio come modello per estrapolare forme e dimensioni della corteccia cerebrale. È un metodo che a volte può dare risultati eccellenti, ma è chiaro che permette di scoprire solo differenze macroscopiche. Le regioni che hanno presentato variazioni più palesi in questo senso sono i lobi parietali, più larghi nei Neandertaliani rispetto a specie umane più arcaiche, e ancora più sviluppati nella nostra stessa specie. Homo sapiens ha una forma cerebrale abbastanza unica, se la confrontiamo con gli ominidi estinti, proprio per questi lobi parietali che sono più grandi e anche molto più vascolarizzati. E le aree parietali sono proprio quelle che sono implicate nella gestione spaziale, includendo l’integrazione tra corpo e visione, tra occhio e mano, tra mano e oggetto, e tra corpo e linguaggio.
Cosa rivela l’esame dei fossili riguardo l’integrazione visuospaziale umana?
Quando troviamo i primi fossili della nostra stessa specie con una forma cerebrale moderna e una regione parietale molto sviluppata troviamo anche armi da lancio (come archi e propulsori), ornamenti, e una cultura grafica (arte rupestre). Tutte cose che richiedono una capacità visuale e spaziale, la possibilità di immaginare e coordinare corpo e ambiente. Troviamo anche un aumento esponenziale della complessità tecnologica, e anche in questo caso tecnologia vuol dire coordinazione tra occhio e mano, tra corpo e oggetto. I neandertaliani avevano una dimensione del cervello simile alla nostra, ma non avevano grandi lobi parietali, non avevano archi o propulsori, e le evidenze di ornamenti o di cultura grafica sono minime. La tecnologia non era complessa come la nostra, e per di più usavano i denti per aiutarsi nella manipolazione molto di più di qualsiasi popolazione umana moderna, il che fa pensare a dei possibili limiti nella possibilità di coordinare opportunamente corpo e tecnologia. Tutto questo lascia pensare che solo la nostra specie si sia specializzata in una serie di capacità visuospaziali basate nell’integrazione tra corpo e visione, tra corpo e tecnologia. Non è da escludere che chissà le altre specie umane (come i Neandertaliani) abbiano evoluto capacità cognitive che noi invece non abbiamo mai evoluto, ma a livello di integrazione visuospaziale probabilmente non hanno investito, a livello evoluzionistico, tanto quanto lo abbiamo fatto noi.
Quali cambiamenti è destinata a portare una mente estesa?
Le capacità visuospaziali coordinano la relazione tra cervello, corpo e ambiente. Abbiamo sempre dato per scontato che il cervello è un calcolatore autonomo, ma c’è la possibilità che il nostro gran vantaggio evolutivo sia proprio stato quello di andare oltre le sue limitazioni, scoprendo come esportare e delegare funzioni a elementi esterni che chiamiamo tecnologia. Abbiamo amplificato le nostre capacità sensoriali, quelle mnemoniche e quelle di calcolo, quelle di pianificazione e quelle di analisi, aggiungendo parti esterne al corpo e al sistema nervoso, come veri e propri cyborgs. Il risultato è stato eccezionale, ma ora la nostra cultura e la nostra capacità di ragionare non dipende più solamente dal processore centrale (il cervello), ma da tutto il sistema, un sistema che include questi elementi esterni (la tecnologia) e l’interfaccia tra componenti interne e esterne (il corpo). Ecco perché si chiama “estesa”, perché è il risultato di un processo che va oltre il sistema nervoso, oltre l’individuo nel senso classico del termine, oltre i confini del tessuto nervoso e della pelle. La nostra tecnologia è come la tela di un ragno: è un elemento esterno, ma fa parte del sistema cognitivo, è parte integrante del sistema sensoriale e di quello analitico. Senza la tela il ragno è incompleto, a livello comportamentale e ecologico. Senza la tecnologia non potrebbe esistere la nostra cultura, ne le nostra attuali capacità cognitive. Quel primate che ha scoperto come “agganciarsi” a elementi esterni, ha scoperto nuove potenzialità, nuove regole, e nuove possibilità per l’evoluzione. Ha sacrificato la sua individualità mentale, per poter usufruire di un nuovo arsenale cognitivo, extra-cerebrale. L’unità pensante non è più l’individuo, ma il sistema formato dall’individuo e dalle sue appendici tecnologiche. Una creatura ibrida che cambia nel tempo come chimera integrata tra organico e inorganico, mischiando i principi dell’evoluzione biologica (geni e molecole) e quelli dell’evoluzione culturale (trasmissione, apprendimento). Nel momento che il processo cognitivo trascende l’individuo, la frontiera funzionale tra elementi interni (cervello) ed esterni (tecnologia) diventa, inevitabilmente, incerta.