
Questo è proprio uno dei quesiti centrali del libro, che mira, prima di tutto, a problematizzare la nozione di «medicina difensiva». Di solito, per «medicina difensiva» s’intende l’esecuzione o l’omissione, da parte del medico, di una serie di pratiche di carattere diagnostico o terapeutico, che non mirano al benessere del paziente, ma sono dirette a evitare che il medico stesso incorra in una responsabilità giuridica. Sotto questa etichetta, però, si celano fenomeni eterogenei.
In primo luogo, la letteratura distingue tra medicina difensiva positiva, caratterizzata da un eccesso di prestazioni (ricoveri, esami, prescrizioni, interventi chirurgici, ecc.), e medicina difensiva negativa, caratterizzata, invece, da atteggiamenti astensionistici (dalla mancata esecuzione di terapie e, soprattutto, di interventi chirurgici). All’interno della medicina difensiva negativa si include di solito anche la pratica della replace care, che consiste nell’affidare il paziente ad altri medici o altre istituzioni di cura: al riguardo, occorre, però, sottolineare come tale pratica non sia (sempre) eticamente riprovevole, anzi. Si pensi al caso di un chirurgo che, pensando di non avere le capacità adeguate a eseguire un dato intervento oppure credendo che la struttura in cui opera non sia fornita delle migliori strumentazioni, indirizzi il paziente presso altro collega o altra struttura. Questo non pare affatto un atteggiamento da disincentivare.
In secondo luogo, occorre distinguere tra medicina esclusivamente, prevalentemente o marginalmente difensiva, a seconda che il medico sia spinto solo, principalmente o anche dal timore di incorrere in una responsabilità giuridica. Sono tre nozioni diverse, riconducibili palesemente a cause differenti.
Infine, le nozioni sopra riportate di «medicina difensiva», diffuse soprattutto in ambito giuridico e medico, non vanno confuse – come spesso accade – con una differente nozione economica, che individua la medicina difensiva con quella spesa che eccede l’importo socialmente ottimale. Quest’ultima è una nozione tutt’altro che facile da determinare, ma che, comunque, s’incentra su un calcolo che si vorrebbe oggettivo, mentre le nozioni precedenti, quelle non economiche, s’incentrano sulle credenze dei medici: la credenza che una data pratica (o la sua omissione) non sia utile per il paziente e la credenza che occorra comunque intraprenderla (o evitarla) per non incorrere in responsabilità giuridica. Si tratta, si noti bene, di credenze che potrebbero essere false: il fatto che una data pratica costituisca una manifestazione di medicina difensiva non ci dice nulla sulla sua reale utilità, ma semplicemente ci dice qualcosa sulle credenze del medico. Anche questo è un dato che viene troppo spesso ignorato, soprattutto in sede legislativa.
Quanto è diffuso il fenomeno della medicina difensiva?
Allo stato attuale è impossibile rispondere a questa domanda. In Italia, nel 2013, la Commissione parlamentare di inchiesta sugli errori in campo sanitario e sulle cause dei disavanzi sanitari regionali ha stimato il costo della medicina difensiva a carico del servizio sanitario nazionale in oltre 10 miliardi di euro all’anno. Negli U.S.A. il costo della medicina difensiva è stato stimato, da uno studio del 2010, intorno ai 46 bilioni di dollari l’anno, mentre un’altra ricerca, condotta nel 2005, lo ha quantificato addirittura tra i 100 e i 178 bilioni di dollari. Tuttavia, altre ricerche hanno messo seriamente in dubbio l’incidenza economica della medicina difensiva. Come spiegare queste divergenze? Semplicemente perché i ricercatori adottano nozioni di «medicina difensiva» differenti e metodi di indagine diversi. In particolare, il metodo più utilizzato è quello del questionario diretto: del resto, dato che la medicina difensiva dipende dalle credenze dei medici, chiedere direttamente ai medici che cosa ne pensavo può sembrare lo strumento di indagine migliore. Tuttavia, si tratta di un metodo che può facilmente falsare i risultati: la formulazione delle domande, la presentazione dell’indagine e, in generale, il contesto in cui il questionario è somministrato possano condizionarne gli esiti. Se dico a un medico che gli somministro un questionario per quantificare l’incidenza della medicina difensiva oppure se gli dico che lo faccio con lo scopo di accertare la sua conoscenza delle buone pratiche mediche, otterrò risultati diversi – peraltro, entrambi non affidabili.
Esistono ovviamente anche altri metodi d’indagine, ma anch’essi presentano dei problemi, come cerco di spiegare nel testo.
In generale, comunque, l’incidenza della medicina esclusivamente difensiva sembra molto ridotta: è difficile che un medico abbia la doppia credenza che una pratica sia inutile per il paziente e che, però, intraprendendola eviterà una responsabilità giuridica. È una credenza contraddittoria: come posso credere che la prescrizione di un antibiotico sia inutile (perché il paziente ha una malattia virale), ma che se non lo prescrivo sarò ritenuta giuridicamente responsabile? Almeno di non avere nessuna conoscenza sui principi basilari del diritto, ciò non sembra davvero plausibile. Credo, pertanto, che l’indagine dovrebbe concentrarsi sulla medicina prevalentemente difensiva e su quella marginalmente difensiva.
Quali ipotesi è possibile avanzare circa le sue cause?
Dipende, per l’appunto, dalla nozione di «medicina difensiva» cui ci riferiamo. Mi permetto un aneddoto. Sono docente a giurisprudenza, ma, insieme a un collega, mi è stato affidato anche un modulo a scienze delle professioni sanitarie: un’esperienza molto istruttiva, perché la maggior parte degli studenti di quel corso di laurea lavora già nell’ambito sanitario e il dialogo con loro è sempre molto proficuo. Ebbene, quando a lezione ho parlato di medicina difensiva, una studentessa è intervenuta, dicendomi «Ma no, professoressa, la responsabilità giuridica non c’entra nulla! È che quando una persona viene al pronto soccorso perché è caduta e le fa male un braccio, e aspetta quattro ore prima di vedere l’ortopedico, se la mandiamo a casa senza fare nemmeno una lastra, sa come si arrabbia?». Ecco, questo è un caso che rientra nella nozione economica di medicina difensiva, ma che fuoriesce totalmente dalle nozioni non economiche.
Nel testo mi concentro soprattutto sulla nozione non economica di medicina prevalentemente difensiva, per mettere in luce come essa sia spesso determinata da una reale situazione di dubbio: il medico non se una certa terapia sarà utile per il paziente e, nel dubbio, decide di somministrala “per star tranquilli”. Alcuni studi mettono in luce come in questa decisione giochino un ruolo significativo, oltre all’incertezza (talvolta, ma certo non sempre, dovuta a scarsa competenza), la volontà di compiacere i pazienti (cosa che vale soprattutto per i medici privati, i medici di base e i pediatri, ma non solo, come mostra l’aneddoto del pronto soccorso), nonché, soprattutto per alcune specializzazioni (cardio-chirurghi, anestesisti e ostetrici, per citare i casi più spesso oggetto di studio), il timore della risonanza mediatica di eventuali decorsi negativi dei pazienti e/o dell’inizio di un procedimento giuridico (fondato o meno), con conseguenti ripercussioni negative sulla carriera, sui guadagni, e sulla reputazione.
In effetti, oltre a problematizzare la nozione di «medicina difensiva», il secondo obiettivo del libro è proprio quello di formulare delle ipotesi sulle ragioni che potrebbero indurre i medici a compiere od omettere scelte terapeutiche della cui utilità dubitano. Si tratta di ipotesi che dovrebbero poi essere testate attraverso accurate indagini empiriche, sicché, sotto questo profilo, il testo vuole delineare più che altro un programma di lavoro.
Quali soluzioni normative sono possibili per arginarlo?
Come detto, servirebbero prima di tutto ulteriori indagini empiriche per accertare e comparare il peso che il timore di incorrere in una responsabilità giuridica gioca nelle decisioni mediche rispetto al peso degli altri fattori cui ho già accennato. Normalmente, i legislatori nazionali hanno tentato di combattere la medicina difensiva attenuando il regime della responsabilità penale del personale sanitario. Il ragionamento alla base di queste strategie normative è elementare: se i medici agiscono per timore di incorrere in una responsabilità giuridica, posto che la responsabilità penale è quella che spaventa di più, se attenuiamo tale responsabilità, ossia, in sostanza, se introduciamo delle eccezioni che esonerino i medici da responsabilità penale in talune ipotesi, allora combatteremo la medicina difensiva. Il problema, però, è che, come ho già detto, pare irrealistico che i medici agiscano solo per evitare una responsabilità giuridica e se i medici agiscono anche per altre ragioni, allora non è detto che simili politiche legislative siano efficaci. Se i medici agiscono perché nutrono un dubbio, perché vogliono compiacere i propri pazienti, perché temono la risonanza mediatica di eventuali esiti infausti, perché temono l’inizio di un procedimento penale (fondato o meno), non è detto che tali soluzioni siano efficaci. Non solo: tali soluzioni normative sono criticabili nella misura in cui indeboliscono la tutela dei diritti dei pazienti e introducono delle discriminazioni difficilmente giustificabili rispetto a chi esercita professioni altrettanto pericolose. Come enfatizzato da alcuni miei colleghi, perché mai chi uccide con un bisturi dovrebbe essere valutato diversamene da chi uccide con un coltello qualsiasi?
In particolare, nel libro mi concentro sull’analisi della legge Gelli-Bianco, che ha introdotto delle modifiche al sistema italiano della responsabilità medica proprio al fine dichiarato di combattere il fenomeno della medicina difensiva. Si tratta di un testo normativo scritto così male che, in pochi mesi, è stato oggetto di due pronunce, tra loro confliggenti, della Cassazione penale e adesso aspettiamo che le sezioni unite risolvano questo conflitto. In ogni caso, nel testo cerco di mostrare come, quale che sia l’interpretazione che si adotta, questa non è certo idonea a combattere tutti i differenti fenomeni racchiusi sotto l’etichetta «medicina difensiva». In particolare, per quanto attiene alla medicina prevalentemente difensiva negativa, non credo che, per combatterla, sia necessario alcun intervento normativo. Con l’espressione «medicina prevalentemente difensiva negativa» ci si riferisce a quei casi in cui il medico omette un dato trattamento, principalmente un intervento chirurgico, anche (ma non solo) perché teme che altrimenti incorrerà in una responsabilità medica. Un simile atteggiamento è razionale se l’intervento chirurgico è di estrema difficoltà o, comunque, se il medico ha il timore che esso avrà un esito infausto. Ovviamente su questa situazione si può incidere stabilendo che il medico non risponda penalmente: è questa la linea seguita da una delle pronunce della Cassazione, che, però, ha l’effetto collaterale di mandare esente da responsabilità il medico non solo se l’intervento è difficile, ma anche se è di routine. Tuttavia, incidere sul regime penale della responsabilità medica non è affatto necessario: sarebbe sufficiente valorizzare l’elemento del consenso informato. Se la pratica medica da intraprendere presenta un forte rischio (oggettivo o soggettivo), il paziente deve esserne adeguatamente informato: non è sufficiente la firma di un modulo, ma occorre che il medico si prenda il tempo (e che la struttura presso cui lavora gli conceda il tempo) per spiegare personalmente al paziente i rischi e i possibili vantaggi della pratica medica, mettendolo nelle condizioni di effettuare una scelta consapevole. Sotto questo profilo, il modello dell’alleanza terapeutica non costituisce solo una imprescindibile tutela dell’autonomia personale del paziente, ma è idoneo anche a tutelare i medici, nella misura in cui consente al paziente di assumersi consapevolmente la responsabilità dei rischi cui va incontro.
Sintetizzando, il testo non fornisce ricette semplici per combattere la medicina difensiva, ma semmai mira proprio a problematizzare questa nozione e a mostrare come sia necessaria un ulteriore riflessione e ricerca prima di assumere provvedimenti normativi che rischiano di rivelarsi controproducenti.
Francesca Poggi è Professore associato di Teoria generale del diritto e Diritto e bioetica presso l’Università degli Studi di Milano