
A un secolo di distanza la mascherina è tornata ad avere lo stesso significato, causando le stesse asimmetrie nella sua accettazione, come dimostrano i “no-mask dell’Anti-Mask League di San Francisco del 1918 le cui convinzioni erano simili a quelle della contemporaneità. È una questione di attecchimento nei sistemi di valori, che sancisce lo statuto di artefatto culturale della mascherina. Prendiamo ad esempio Italia e Corea del Sud: nella prima la mascherina è stata dismessa da parecchie persone con grande anticipo rispetto al primo maggio 2022, data che segna l’allentamento di varie regole (tranne che in Campania), nella seconda i cittadini non hanno ritenuto sicuro scoprirsi il viso all’aperto anche se raccomandato al coperto e continuano a utilizzarla per strada. La comunità dei lettori potrebbe obiettare che noi italiani non siamo ligi al dovere come i coreani, ma si tratterebbe di ridurre la questioni a stereotipi e pregiudizi, lasciando sempre sullo sfondo un problema culturale.
Ne è una prova l’incertezza del Ministero della salute nei giorni appena precedenti il lockdown di marzo 2020: si raccomandava di indossare la mascherina solo in presenza di problemi di salute e si sconsigliava il suo utilizzo preventivo per evitare di spaventare gli altri. Nel giro di poco la mascherina è diventata obbligatoria, di conseguenza rara e costosa come un oggetto prezioso, acquisendo un valore economico sproporzionato rispetto ai costi di produzione, ma inestimabile in quanto unica arma per proteggersi.
Lo stiamo vivendo e l’abbiamo vissuto: in tempo di conflitto, con organismi pluricellulari (umani) o non cellulari e microscopici (virus), il valore assume nuovi sensi, e viene stabilito in base a criteri inaspettati.
L’evoluzione della mascherina in questi ultimi due anni è fatta di passi avanti e indietro, di classificazioni e decreti-legge che ne hanno regolato l’utilizzo rispetto a categorie quali aperto/chiuso (spazi), affollato/non affollato, congiunti/estranei, cercando di instillare nei cittadini la consapevolezza della responsabilità individuale, l’unico strumento efficace per contrastare simili emergenze.
In che modo l’ingresso della mascherina nella nostra cultura ha ristrutturato identità e relazioni?
La questione gira attorno l’accettazione della copertura del volto, all’annullamento di una parte importante per la nostra immagine e interlocuzione con l’altro: la bocca. Sostanzialmente ci siamo sentiti amputati del nostro mezzo principale di comunicazione.
La pandemia di Covid-19 ci ha privato della faccia, ossia di ciò che, a giudicare dal significato dell’etimologia latina facies, dà la forma alla nostra identità, determina il nostro aspetto. Nella contemporaneità il volto viene posto al centro di ogni tipo di comunicazione, spettacolarizzato e commercializzato: basti pensare ai selfie, o a una delle piattaforme su cui vengono maggiormente condivisi, Facebook, che ha la faccia nel nome. Se il volto è comunicazione, allora cosa succede quando un elemento “alieno”, estraneo, nasconde una sua parte delimitando un’unica porzione da vedere, un suo ritaglio?
Per resilienza o costrizione, le tattiche del volto si sono trasformate, inglobando un’opportunità di espressione e comunicazione: quella di nascondersi, mostrarsi, o delegare agli occhi, assurti a regolatori principali delle emozioni facciali. Certo, il nascondimento di parte del volto può anche avallare pratiche devianti (si veda il fenomeno dei magikkun sulle app di online dating coreane), ma non accade lo stesso con il foto-ritocco e i filtri di Instagram, maschere “glamour” socializzanti?
La mascherina può rendere più ovattata la voce, modifica la comunicazione faccia a faccia, la rende comunque diversa dal passato, ne modifica la percezione e l’autopercezione.
L’esperienza della lezione in presenza con la mascherina ne è ampia testimonianza, perché la fonazione e la conseguente trasmissione del suono presenta un ostacolo: le onde sonore devono superare la barriera del tessuto e arrivare all’apparato uditivo del ricevente. Sostanzialmente bisogna riarticolare la voce a distanza ravvicinata e scandire meglio le parole per non sentirsi dire «non ti capisco se parli con indosso la mascherina». E allora sì, possiamo affermare che la mascherina è un medium, perché comunica qualcosa (l’esistenza della pandemia, la volontà di proteggersi) e sta nel mezzo tra chi parla e chi ascolta.
In quanto medium la mascherina diventa un ornamento, alla stessa stregua di un oggetto di moda: e allora via alle iniziali o ai loghi per esprimere identità e appartenenza, o agli abbinamenti con l’outfit per essere eleganti nonostante le restrizioni. In due anni abbiamo assistito a uno sviluppo massiccio di questo mercato, estesosi trasversalmente a vari tipi di brand e attività, come dimostrano le mascherine-souvenir, o quelle di alta moda.
Che dimensione ha assunto, nel nostro immaginario, la mascherina?
La mascherina protegge perché copre, nasconde il volto o una sua parte. Questo nascondimento, o mascheramento, rimanda all’etimo preindoeuropeo “masca”, termine dal significato simile a fuliggine o fantasma nero, da ricondurre alla finzione, alla dissimulazione. La fuliggine avvolge un oggetto, lo ricopre di mistero, lo fa apparire diverso da ciò che è: reale, ectoplasmatico, immaginario, non importa la sua natura, basta l’atto di nascondimento.
A partire dalla superficie ricoperta del volto si può pensare anche a una ripartizione della maschera in tre parti: parte superiore, occhi-naso, inferiore, naso-bocca, e infine la sua totalità. Ogni tipo può effettivamente rendere meno riconoscibile chi lo indossa e dissimularne i tratti identitari: nell’immaginario filmico o fumettistico, alcuni supereroi hanno una maschera sulla parte superiore del volto, come nel caso di Batman e Capitan America, mentre altri coprono l’intero volto, gli esempi di Spiderman e Iron Man, anche per mostrare il grado di fusione e contaminazione tra il corpo umano e l’alter ego straordinario. In effetti, nel caso di Spiderman, viene coperto tutto il volto perché avviene un’effettiva trasformazione in ragno a livello fisiologico, mentre Batman si maschera da pipistrello, ne assume le sembianze, non le qualità e le caratteristiche. Di contro, i malintenzionati tendono a nascondere naso e bocca, come i banditi del Far West con la bandana usata per celare l’identità e per non respirare la polvere durante le cavalcate, o i vari rapinatori mascherati che si sono susseguiti nell’immaginario filmico, tra cui, per citare gli ultimi in ordine cronologico, i protagonisti della fortunata serie di Netflix La casa di carta (2017 – 2021), appropriatisi dell’identità di Salvador Dalì, o il drappello in maschere da scherma di Squid Game (Netflix 2021 – in produzione), capeggiati dal frontman con le fattezze da mamuthone sardo. Restando in ambito k-drama, anche i cattivi della setta “Punta di freccia” di Hellbound (Netflix 2021) hanno il volto coperto sia per garantire l’anonimato durante le violente scorribande in stile Arancia Meccanica, sia per rimarcare la loro passione caratteristica, lo scherno per i peccatori, disegnata in forma di ghigno sulla mascherina di comunità. Il non poter mostrare la bocca viene ovviato dal testo visivo atto a riprodurre il sentire e a caratterizzare gli opponenti all’interno della narrazione. Insomma, bene e male prediligono la copertura del volto e il nascondimento identitario. Rimanendo in Oriente, una o più generazioni sono state segnate dalle mascherine dei ninja come, quella di Kakashi, il maestro del Naruto di Masashi Kishimoto, ormai vera e propria protesi. Nell’Asia dei ninja, del cosplay e del k-pop, la maschera è sempre stata considerata un oggetto di moda per darsi un tono acquisendo street credibility e affinare il volto rendendolo più piccolo. Durante la pandemia, la mascherina si è trasformata in elemento scenico per poter consentire le esibizioni televisive di cantanti e gruppi musicali senza rinunciare alle complesse coreografie che, ad esempio, caratterizzano la korean pop music. In svariate performance dei BTS ‒ il gruppo coreano più famoso al mondo ‒ realizzate per la diffusione nazionale e internazionale, non si è rinunciato a un corpo di ballo consistente, i cui costumi sono stati progettati come un tutt’uno con la mascherina, come se fosse un accessorio caratteristico del ruolo tematico interpretato. Bandane, passamontagna, decorazioni, la mascherina ha dialogato con vari oggetti e immaginari per far sì che lo spettacolo dell’intrattenimento potesse andare avanti, nonostante tutto.
La mascherina del Covid-19 rimarrà impressa nella memoria in forma di immagini del personale sanitario con il volto solcato dai segni di bardature soffocanti e orari di lavoro estenuanti. Quei segni ci hanno fatto capire, mentre languivamo nella bolla sicura delle nostre comode prigioni casalinghe, che la minaccia non faceva sconti a nessuno. La potenza “visiva” delle mascherine è diventata il fulcro dei progetti di fotografi in tutto il mondo, come dimostrano anche le narrazioni documentarie degli italiani Davide Bertuccio, Michele Borzoni, Gabriele Galimberti (per una lista completa rimando al capitolo 3 del libro e al lavoro di ricerca di Giovanni Fiorentino).
Procediamo verso l’incorporazione della mascherina nella vita quotidiana?
Al tempo del Coronavirus lo status di protesi protettiva della mascherina non è a senso unico e a favore di chi la indossa, ma serve per evitare agli altri il contagio, come atto di responsabilità e “galateo sociale”, per dirla con il giovane magnate Adrian Cheng, a capo del New World Development (NWD).
La nostra cultura del sacrificio ci ha imposto il non dover abbandonare il posto di lavoro per un “banale” raffreddore, che oggi siamo portati a considerare diversamente. Se avessimo imparato a indossare la mascherina in queste occasioni, forse l’avremmo accettata con meno isterismi, risparmiando, in passato, il contagio di vari malanni a colleghe e colleghi. Questa piccola maschera può tornarci utile nell’ora di punta sui mezzi pubblici, in bici, in caso di allergia, quando non vogliamo mostrare le emozioni del nostro volto (penso al giapponese honne), o, ancora, se siamo alla ricerca di privacy. In definitiva, le maschere proteggono, non importa se si tratta di salute o identità.
Abbiamo imparato che ogni occasione ha una mascherina, proporzionale a un diverso grado di protezione. Nel libro presentiamo una classificazione dei vari tipi di mascherine (un mapping semiotico) correlato ai valori assunti dal loro uso. Per esempio, la mascherina di un famoso marchio ha un valore di consumo ludico, mentre quella completamente trasparente, indossata per mostrarsi, l’abbiamo vista o su persone che lavorano nel mondo dello spettacolo e dell’informazione, oppure su chi ha necessità di farsi leggere le labbra per comunicare. Negli ultimi tempi si sta creando una nicchia di mercato dedicata alla mascherina “tecnologica”, come quelle prodotte da noti marchi che propongono soluzioni multifunzione per proteggersi da agenti esterni, respirare aria pulita e, perché no, ascoltare musica e parlare al telefono. In quanto artefatto culturale la mascherina veicola status e appartenenza sociale, quindi potrebbe resistere nella vita quotidiana anche in questo senso.
Bianca Terracciano è ricercatrice alla Sapienza Università di Roma, dove insegna Scienze semiotiche del testo e dei linguaggi e Semiotica della moda. Scrive per Doppiozero per cui ha pubblicato l’ebook Mitologie dell’intimo (2016). Tra le sue recenti pubblicazioni: Social moda. Nel segno di influenze, pratiche e discorsi (FrancoAngeli, 2017), Il discorso di moda. Le riviste femminili dal 1960 a oggi (Nuova Cultura, 2019), e la curatela con Isabella Pezzini de La moda fra senso e cambiamento. Teorie, oggetti, spazi (Meltemi 2020).