
Io stesso, che a differenza di alcuni dei coautori del testo non ho nella religione il focus dei miei interessi di ricerca, ma per formazione e professione sono invece interessato ai linguaggi ipertestuali e di riporto, alla comunicazione interposta e al riciclo creativo di testi e immagini, ho immancabilmente riscontrato nel repertorio religioso uno dei campi analogici più fertili per la creazione di discorsi basati su un doppio binario di senso. Quanto questo possa poi risultare gradito o deprecabile dipende ovviamente, oltre che dal tipo d’intervento sull’estratto religioso, dall’atteggiamento del pubblico sulle questioni di fede. La cronaca ci ha raccontato a più riprese di opere artistiche, letterarie e cinematografiche al tempo stesso acclamate e biasimate, premiate e messe all’indice. Persino alcune di quelle che hanno riflessivamente trattato o messo in scena la desacralizzazione della società occidentale sono state talora accusate di sacrilegio. A questa stregua, però, anche il volume di cui stiamo parlando rientrerebbe nella categoria.
Come si è passati da una gestione esclusiva del loro codice interpretativo da parte dell’istituzione ecclesiastica all’apertura verso contesti e interessi estranei al campo religioso?
Limitandoci, come è stato fatto nel volume, all’ambito della religione cattolica, si può dire che il fenomeno si è generato all’interno della stessa iconografia cristiana, cioè di quel complesso di simboli che sotto la mediazione delle élite ecclesiastiche hanno tradotto il sapere religioso in forma artistica a vantaggio della comunità dei fedeli. Proprio questa particolare valenza artistica ha favorito l’emergere di un tipo di fruizione autonomo ed esclusivamente estetico delle opere a carattere religioso, che ha affiancato o posto in secondo piano la loro funzione originaria di oggetti di devozione: religione e arte non sono più indistinguibili, ma la seconda tende a delinearsi, per usare le parole di Evreinov, come una “religione per atei”. Oggi lo si può notare in qualunque chiesa. All’interno della stessa cornice spaziale si sovrappongono diverse cornici interpretative, sfere di senso a stento compatibili: chi sta in raccoglimento, chi scatta fotografie; chi tiene in mano un rosario, chi una guida turistica. È un processo che la Chiesa tende a mitigare, ad esempio regolamentando l’accesso durante le funzioni religiose, ma che di fatto testimonia un disallineamento pragmatico tra la produzione e il consumo dei simboli religiosi e il loro slittamento da una dimensione cultuale a una culturale, nella quale, come accade per tutti i segni, il significato è frutto di una negoziazione tra le parti in gioco.
A sua volta, la disponibilità a una lettura alternativa di quelle immagini e di quelle narrazioni ha aperto il varco a una loro gestione emancipata dalla proprietà intellettuale della Chiesa, quindi mondanizzata non solo al livello dell’interpretazione ma della loro riproduzione e riformulazione. Da leggibile, richiamando Barthes, il testo sacro diventa scrivibile. Cinema, televisione, letteratura, arte, moda, musica, pubblicità, ciascuna forma espressiva vi rintraccia nuove affordance semantiche funzionali alle proprie finalità. Il punto di arrivo di questo processo, in un’epoca di autorialità diffusa in cui il consumatore diventa produttore, è una versione “user generated” della simbologia religiosa, secondo la quale ogni individuo si sente in diritto di manipolare e “postare” quelle figure a proprio piacimento, come di fatto accade con i meme e altri contenuti a sfondo religioso di Internet. Gli utenti della Rete rappresentano in un certo senso il capolinea del percorso avviato da quegli artisti del Rinascimento che per primi, all’interno dell’arte sacra, hanno anteposto la ricerca estetica, la spettacolarizzazione e l’immaginazione alla componente mistica e contemplativa dell’opera.
Quale reinterpretazione iconologica del sacro si rinviene nei linguaggi dell’arte contemporanea?
Nel contributo di Milena Cordioli, il tema del sacro si ripresenta entro una prospettiva laica in numerose opere, sia attraverso richiami espliciti superficialmente bollati come profanatori che come sottotesto. In particolare, la ricerca dell’autrice porta alla luce la contrapposizione tra corpo e anima, tra effimero ed eterno, che, come nella tradizione visiva di Maria Maddalena e delle rappresentazioni della Vanitas, permea tanto i tableaux vivants di Vanessa Beecroft e le Madonne contemporanee di Francesco Vezzoli, quanto le pratiche di mortificazione o trasfigurazione delle performance di Gina Pane, Marina Abramović, Orlan: queste ultime, che ricordano il martirio dei mistici e dei santi, rappresentano un tentativo estremo di trascendere i vincoli fisici per accedere a un’esperienza spirituale tipicamente religiosa, urgenza tanto più sentita in una società fortemente materialista come quella attuale. Il percorso prosegue e si conclude tra le carcasse animali e le carni macellate, il sangue e l’urina, delle crocifissioni di Bacon, Hirst, Nitsch, Serrano, dove la dissacrazione diventa paradossalmente un mezzo espressivo per raggiungere un livello di compassione più profondo e ricongiungersi a una dimensione religiosa smarrita.
In che modo l’analisi della produzione cinematografica e televisiva evidenzia quanto la rappresentazione del sacro sia problematica e connessa al concetto di potere?
Le problematiche connesse all’audiovisivo costituiscono l’estrema propaggine dell’irrisolto dibattito sulla rappresentabilità del sacro e del divino nel mondo cristiano: dapprima interdetta per scongiurare l’idolatria, poi surrogata con il ricorso a immagini simboliche, infine ammessa nelle sue raffigurazioni antropomorfe e realiste; realismo che il cinema per sua natura accentua ed esaspera in forme sempre più laicizzate, personalizzate, ricontestualizzate o apertamente satiriche, e che la televisione trasferisce senza filtri direttamente nelle case. La questione allora non riguarda più la liceità della rappresentazione, ma il grado di libertà nel trattamento delle fonti religiose nel momento in cui ne viene fatto entertainment, spettacolo.
Il conflitto intorno a questo aspetto ha contrassegnato la storia del mezzo cine-televisivo, divaricando gruppi di interesse e opinione pubblica in opposte fazioni che si sono ciclicamente confrontate in modo quasi rituale, a volte brutale, e travalicando i confini del dibattito tra libertà d’espressione e tutela del sentimento religioso per diventare espressione dei rapporti di potere tra le forze politiche, culturali, sociali, economiche in campo. Non a caso, all’indebolimento dell’influenza temporale dell’autorità religiosa è corrisposta una certa maggiore libertà d’azione dell’industria culturale e dei media: se la dissacrazione, come è stato detto, è negli occhi di chi guarda, sono sempre meno quelli che la vedono.
Tuttavia, lungi dall’aver trovato una definitiva composizione, anche oggi che in Italia la censura cinematografica è stata abolita con la cosiddetta “Legge cinema”, forme di autocensura, o se si preferisce di autocontrollo, si ripresentano sotto le sembianze del politicamente corretto, mentre restano in vigore attività di sorveglianza a tutela dei minori che possono riguardare contenuti religiosi: è del luglio scorso una delibera dell’Agcom che ha sanzionato la Disney per la messa in onda in fascia protetta di una puntata dei Griffin in cui si derideva la Natività.
In che modo la pubblicità si serve, sin dai suoi esordi, delle figure della cristianità in veste di testimonial e con quali intenzionalità e modalità retoriche?
Mutuare i modelli delle sacre rappresentazioni è servito alla nascente industria sia per nobilitare i prodotti in serie e porre le fondamenta della mitologia del consumo – non a caso la prima fase della storia della pubblicità è detta “idolatrica” – sia per articolare il discorso commerciale su una base di conoscenze largamente condivise: il consumo di massa è stato promosso attraverso una pletora di angeli, demoni, santi e personaggi biblici in qualche modo rappresentativi delle qualità dell’articolo in vendita, o più genericamente delle nuove tentazioni della merce: Sant’Antonio per una bicicletta, Mosè per un olio di merluzzo, Noè per una pompa idraulica, Gesù per l’acqua Ferrarelle. Perfino papa Leone XIII compare in qualità di testimonial nelle campagne di un estratto di carne e di un vino alla cocaina!
Com’è sotto gli occhi di tutti, questo trattamento laico e disimpegnato del materiale religioso è poi proseguito senza interruzioni fino ai nostri giorni, a volte venato di un umorismo giocoso – per intenderci, dai “caroselli” del frate Cimabue dell’amaro Dom Bairo alla saga del Paradiso di Lavazza –, in alcuni casi con un’indole provocatoria e iconoclasta volta a suscitare scandalo e attenzione mediatica, spesso come mero espediente narrativo per la creazione di parabole reclamistiche; in nessun caso però, a differenza di quanto accade in altri ambiti, il tema religioso rappresenta in pubblicità il vero bersaglio, il vero fulcro della comunicazione, ma soltanto un ingrediente accessorio nel perseguimento di secondi fini, che sono poi gli obiettivi aziendali.
Anche le marche che oggi definiamo di culto, quando intendono celebrare questa condizione pseudo-religiosa che è stata loro riconosciuta, finiscono inesorabilmente col ricorrere all’archivio figurativo della religione tradizionale. Visivamente, il termine di paragone dell’adorazione resta quello, e nonostante tutto non sono emerse forme sostitutive in grado di trasmettere le stesse connotazioni in modo altrettanto esplicito.
Dove si situa, nel libero utilizzo di riferimenti religiosi, il confine giuridico tra lecito e illecito in pubblicità?
La materia è di fatto regolata dall’articolo 10 del Codice di Autodisciplina della Comunicazione Commerciale, che pone il discrimine tra condotta lecita e illecita sul concetto di “offesa alle convinzioni religiose”. L’offesa, secondo quanto più dettagliatamente precisato in una pronuncia del 1995 del suo organo giudicante – il Giurì –, sussiste qualora il messaggio rappresenti una volgarizzazione, strumentalizzazione, profanazione o irrisione di elementi religiosi che nel sentire comune sono connotati di sacralità, quando queste connotazioni tendano a essere trasferite sul prodotto o allorché vengano scelti come testimonial simboli e personaggi oggetto di venerazione.
Si tratta evidentemente di “paletti” che, nel bilanciamento tra libertà d’espressione e tutela del sentimento religioso, privilegiano piuttosto nettamente la seconda istanza, inibendo il ricorso a riferimenti di natura religiosa in maniera assai più restrittiva dello stesso ordinamento giuridico e dell’analoga norma del Codice Penale. A ciò si aggiunga, come osserva Marcello Toscano nel suo intervento, che l’ultima decisione del Giurì in merito (il cosiddetto “caso Red Bull”) sembra invitare gli utenti pubblicitari a un uso ancor più misurato di questo tipo di richiami, peraltro in controtendenza rispetto agli orientamenti recentemente palesati in un caso affine dalla Corte europea dei diritti dell’uomo. Va detto che un approccio così severo è volto non tanto, o non soltanto, a salvaguardare la sensibilità delle audience, quanto a prevenire ogni manifestazione che possa gettare discredito sulla stessa istituzione pubblicitaria e sugli interessi economici che ruotano intorno ad essa, obiettivo che non a caso figura all’articolo 1 del Codice.
Vittorio Montieri è docente in discipline della comunicazione all’Università di Padova, alla Statale di Milano e allo IUSVE di Venezia e Verona. Ha insegnato anche nelle università di Bergamo, Trieste, Gorizia (Ciels), Mantova (Unicollege) ed è stato guest professor all’Universidad San Pablo CEU di Madrid. Coordinatore scientifico di progetti di ricerca, è autore di saggi, di cui l’ultimo è Nike Y U No Do It Yourself: Decrowning brands by means of memes (in Discourses of Delegitimization: Participatory Culture in Digital Contexts, Routledge).