“La mafia immaginaria. Settant’anni di Cosa Nostra al cinema (1949-2019)” di Emiliano Morreale

Prof. Emiliano Morreale, Lei è autore del libro La mafia immaginaria. Settant’anni di Cosa Nostra al cinema (1949-2019) edito da Donzelli: cosa ha rappresentato la mafia per il cinema italiano?
La mafia immaginaria. Settant'anni di Cosa Nostra al cinema (1949-2019), Emiliano MorrealeUn altrove, direi; un deposito di storie e immagini, di situazioni avvincenti e spettacolari. Un luogo lontano, esotico, che contemporaneamente permette di avere un alibi civile. Dal 1949, anno di In nome della legge, a La piovra, che precede di poco l’avvio del maxiprocesso, il mafiamovie si struttura come un genere con delle regole precise, e confinante con altri generi: dapprima il western all’italiana (Il giorno della civetta), poi il cosiddetto poliziottesco, con innesti del cinema erotico, che in Sicilia trova da sempre uno dei suoi luoghi d’elezione.

Alla base di questo esotismo c’è però, ricordiamolo, un auto-esotismo. Lo schema che i registi italiani utilizzano fino a una certa data è ricavato dalla letteratura e dalla pubblicistica isolane, un po’ come la Cavalleria rusticana di Mascagni aveva fatto con la novella di Verga. In nome della legge è tratto dal romanzo di un ex pretore siciliano; senza Sciascia il genere non sarebbe mai nato, e lo schema storico è quello fornito in Mafia e politica di Michele Pantaleone. Sullo sfondo, però, intravedo sempre l’ombra del Gattopardo di Tomasi di Lampedusa: dall’idea della terra irredimibile viene quella della mafia invincibile, e anche il topos del vecchio superato dalla Storia che però ne vede amaramente il senso. Don Fabrizio Salina è, oso dire, il modello di quasi tutti i vecchi boss del mafiamovie: il Brando del Padrino, ma già prima il Lee J. Cobb del Giorno della civetta (doppiato dalla stessa voce di Lancaster, quella di Corrado Gaipa).

Lei sostiene la tesi che in realtà il cinema italiano non ha quasi mai raccontato davvero la mafia ma si è inventato un «mafiaworld» parallelo: in che modo tale racconto ha influenzato la percezione del fenomeno da parte dell’opinione pubblica?
A rifletterci, le due cose sono andate spesso su binari paralleli. La mafia che si vedeva era quella del cinema, mentre la conoscenza effettiva del fenomeno da parte dei media nazionali è, almeno fino al delitto Dalla Chiesa e all’arrivo in Italia di Buscetta, molto parziale. Poi le cose sono cambiate e la situazione si è invertita: la mafia è, per lo spettatore, un insieme di immagini ricevute, note. Nel frattempo la collocazione del mafiamovie, da sottogenere del poliziesco, è diventato quella di una variante del cinema d’autore. Un cambiamento che arriva vent’anni fa con I cento passi, direi.

Non sottovaluterei poi l’importanza che il cinema ha avuto nell’autorappresentazione di mafiosi stessi. Il padrino, ovviamente, che ha in un certo senso sostituito I Beati Paoli di Luigi Natoli (romanzo die primi del ‘900) come Ur-testo dell’ethos mafioso. Ma in generale, ai mafiosi, i film sulla mafia piacciono, anche quelli in cui loro sono i “cattivi”. Perché ci sono sparatorie, inseguimenti, spettacolo.

Quale riflesso delle vicende del nostro Paese è possibile ravvisare dietro i modi in cui Cosa Nostra è stata raccontata sul grande schermo?
Indirette, direi. Ad esempio Un uomo da bruciare e A ciascuno il suo sono soprattutto due film sulla crisi dell’intellettuale di sinistra dopo il boom; Il prefetto di ferro di Squitieri evoca l’uomo forte contro la mafia e tacitamente lo invoca contro il terrorismo (il film è del ’77), La piovra, specie nelle stagioni da fine anni ’80, presenta una visione della crisi della I repubblica dal punto di vista della mafia; I cento passi rinnova l’albero genealogico della sinistra attraverso una “ulivizzazione” di Impastato; La trattativa di Sabina Guzzanti cerca di spiegare il successo di Berlusconi andando a cercare un peccato originale, o un complotto, nella Sicilia delle stragi del ’92.

In Sicilia, insomma, a volte sembra esserci “la chiave di tutto”: in realtà molto spesso, nel parlare di mafia, inconsciamente gli autori parlano di sé, delle proprie contraddizioni.

Quali ritiene le pellicole di maggior valore, civile e artistico, sulla mafia?
In nome della legge, appunto, è un gran bel western, e anche Il giorno della civetta di Damiani, così come Confessione di un commissario di polizia a un procuratore della Repubblica, sempre di Damiani, è un poliziesco tesissimo.

Ma in realtà, fino alla fine del ‘900 i grandi film sulla mafia gli fanno gli americani: Coppola, Scorsese, Abel Ferrara con quel grande film poco ricordato che è Fratelli. Film caratterizzati da uno sguardo interno, che giocano sottilmente, pericolosamente con l’ambiguità. Sia chiaro: il senso del mio libro non è una denuncia. Non mi interessa dire: il cinema italiano ha fallito perché ha mistificato la realtà. Quello lo do per scontato, e mi va anche bene. Anzi, lo avrei voluto un po’ più ambiguo, che osasse entrare dentro le dinamiche a rischio di farsi contagiare, come gli americani appunto. Il punto è che da un lato è stato guidato da un super-Io che impediva di capire un mondo, convinto che la mafia e la Sicilia fossero qualcosa di lontano (mentre, come ricordava Falcone, dobbiamo riconoscere che sinistramente ci assomigliano); dall’altro, quando l’ha raccontata da dentro, ha importato una serie di stereotipi ancora una volta esterni che hanno trasformato tutti questi film (credo il caso più sconcertante sia Il capo dei capi) in una mera apologia, con i corleonesi di Riina belli e innamorati. Operazioni in fondo speculari alle agiografie dei martiri antimafia, comunque parte di un rituale mediatico.

Di recente i titoli seri sono molti: io ho un’adorazione per molti titoli di Ciprì e Maresco e poi del solo Maresco, che mi sembrano un modello forse irripetibile, abissalmente lontano dal resto del cinema italiano. Ma ricordo due film di Roberta Torre, Tano da morire e il meno noto Angela, bellissimo ritratto di donna. In realtà di titoli interessanti negli ultimi vent’anni anni ce ne sono stati: Placido Rizzotto, Segreti di Stato, Il traditore…

La serie televisiva della Piovra ha ottenuto un enorme successo, anche internazionale: quale visione del fenomeno mafioso offre?
È il titolo che ha contato di più per spiegare la mafia agli italiani, ma si tratta di un caso curioso. La piovra nasce nella prima stagione come melodramma di ambientazione siciliana, ma la novità dell’ambientazione mafiosa, e dei riferimenti alla politica, è la cosa che colpisce tutti. È in effetti La piovra 2, il vero idealtipo della serie: lì il commissario Cattani assume i tratti di un eroe alla conte di Montecristo che agisce da solo, mosso dalla vendetta, con un trauma alle spalle, capace di doppi e tripli giochi. Anche la dimensione politico-didattica viene accentuata. L’intreccio tra realtà e finzione crescerà nelle stagioni successive, toccando il culmine nella quinta, della quale i giornali vedono un vertiginoso gioco di specchi con il processo Andreotti, che si sta svolgendo in parallelo. Alla fine lo sguardo si amplia sempre più, all’Europa, al mondo, al passato, in una visione da avvincente feuilleton, in cui troneggia come vero protagonista il Tano Cariddi interpretato da Remo Girone.

Nel Suo studio Lei tratta anche di pellicole che non furono mai girate, per censura politica o difficoltà economiche: ci vuol fare qualche esempio?
Negli anni ’50 si assiste a una caduta di attenzione sul fenomeno mafioso, e il cinema ne partecipa. In particolare nel libro mi soffermo sui molti film “mancati” sul bandito Giuliano, a cominciare dal progetto di Giuseppe De Santis. Ma il caso più curioso è forse quello di Rossellini, alla fine del decennio. Il regista, intervistato da alcuni quotidiani, annuncia di voler girare un film sulla mafia. La notizia semina il panico nella Regione Sicilia, allora guidata da una coalizione a dir poco avventurosa, di oppositori interni alla Dc guidati da Silvio Milazzo, con l’appoggio a vario titolo di vari partiti dal Msi al Pci. Un governo pericolante, soggetto a continue crisi e rimpasti: eppure, a poche settimane dall’insediamento, Milazzo trova il tempo di scrivere allarmato al sottosegretario allo spettacolo, per verificare se le voci fossero vere, nel qual caso sicuramente si sarebbe trattato di un’operazione che minacciava l’onore dell’isola. In realtà Rossellini l’aveva buttata lì così, non aveva nessun progetto concreto: ma è significativa la reazione. C’è da dire che nel giro di poco tempo le cose cambiano, e già due anni dopo sarà proprio la Regione a chiedere al governo l’istituzione di una Commissione antimafia.

Emiliano Morreale insegna Storia del cinema all’Università La Sapienza di Roma ed è critico cinematografico del quotidiano «la Repubblica». Ha pubblicato per i tipi di Donzelli: L’invenzione della nostalgia. Il vintage nel cinema italiano e dintorni (2009) e Così piangevano. Il cinema melò nell’Italia degli anni cinquanta (2011).

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