“La lunga strada per il dottorato. Il dibattito sulla formazione alla ricerca in Italia dal 1923 al 1980” di Andrea Mariuzzo

Prof. Andrea Mariuzzo, Lei è autore del libro La lunga strada per il dottorato. Il dibattito sulla formazione alla ricerca in Italia dal 1923 al 1980, edito dal Mulino: quando e in quale contesto nasce l’istituto del dottorato di ricerca?
La lunga strada per il dottorato. Il dibattito sulla formazione alla ricerca in Italia dal 1923 al 1980, Andrea MariuzzoNella sua forma contemporanea, quella di dispositivo post-laurea di avvio agli alti studi attraverso un primo impegno attivo nella produzione di conoscenza, il dottorato si sviluppa negli ultimi decenni dell’Ottocento negli Stati Uniti. Per la forma di collaborazione seminariale che si instaurava tra docenti e studenti, così come per i numeri contenuti di partecipanti selezionati, esso riprendeva l’esperienza che molti laureati nordamericani con ambizioni accademiche compivano nell’Europa continentale e soprattutto nelle università di ricerca sviluppatesi nei decenni precedenti in Germania, allora centro della vita culturale soprattutto rispetto a un paese dalle enormi potenzialità produttive ma ancora periferico nella circolazione del sapere. Tant’è vero che anche il titolo di Philosophiae Doctor era la rielaborazione del titolo dottorale, uno dei più antichi e prestigiosi in uso nelle università medievali, avvenuta durante il revival accademico tedesco in età moderna.

Ciò che rendeva l’esperienza dottorale statunitense peculiare, però, era il contesto socio-culturale in cui essa si inseriva e per cui se ne era sentito il bisogno: quello di una istruzione superiore già frequentata da una popolazione massiccia quantomeno di maschi bianchi, che aveva bisogno di un elevato numero di docenti e che soprattutto doveva reclutarli da una base sociale molto più diversificata di quella che negli stessi anni popolava le università di élite europee, frequentate da circa l’1-2% dei ragazzi in età da studi superiori (e da poche ragazze). Occorreva dunque offrire agli aspiranti accademici, che spesso dovevano affrontare il percorso di formazione avanzata senza avere alle spalle un patrimonio famigliare consistente, garantendo loro una collocazione professionale e di conseguenza una retribuzione adeguata alla loro età e alle competenze acquisite negli studi. Per questa ragione il dottorato di ricerca emerge rapidamente come un’esperienza ibrida, in cui la formazione si accompagna a un contributo autonomo alla ricerca e in generale a un riconosciuto contributo alle missioni universitarie di produzione e diffusione del sapere, nell’ambito di un organismo collettivo – il dipartimento – che coordina ruoli e mansioni degli studiosi ai diversi livelli di esperienza e di carriera.

In che modo il dottorato di ricerca si è diffuso affermandosi come il percorso standard di formazione alla ricerca e alla docenza universitaria?
Nel corso del Novecento, l’adozione del dottorato di ricerca in quasi tutti i sistemi universitari dei paesi sviluppati è stata la risposta a tre sollecitazioni di lungo periodo, tra loro intrecciate.

Un primo elemento è stato il diffondersi della dimensione di massa degli studi universitari. Dagli anni Venti-Trenta, e poi in modo ancora più deciso dopo la Seconda guerra mondiale, la quota di giovani che intraprendevano gli studi superiori nell’Europa occidentale ha iniziato a crescere, avvicinandosi gradualmente ai livelli conosciuti dai college nordamericani. Si è quindi riproposto un contesto sociale simile a quello che ha favorito l’emergere dei Ph.D. programs statunitensi, caratterizzato da una platea di studenti ampia e di provenienza sociale molto diversa, e dalla conseguente necessità di selezionare da essa, formare appositamente e inquadrare nella vita accademica dopo la laurea un numero crescente di aspiranti accademici e, con sempre maggiore frequenza col passare del tempo, accademiche.

Ciò si verificava, peraltro, in una società e in un sistema produttivo caratterizzati da una sempre maggiore domanda di conoscenza specialistica di alto livello. A partire dalla Grande guerra si era affermato in modo evidente il bisogno di integrare in modo crescente tanto la tecnologia quanto l’alta cultura nella produzione di beni e servizi di utilità universale, tanto più di fronte a un pubblico sempre più scolarizzato e a istituzioni bisognose di competenze sempre più complesse per assolvere ai loro compiti. La presenza di una quota significativa di specialisti e specialiste degli alti studi e della ricerca scientifica non trovava dunque uno sbocco esclusivamente nella domanda di personale universitario, almeno nei paesi più avanzati.

Tutto questo processo di modernizzazione degli studi superiori e dell’accesso alla conoscenza, infine, era inevitabilmente letto attraverso le lenti dell’americanizzazione. Per tutto il Ventesimo secolo, lo sviluppo socio-culturale dei maggiori paesi del mondo occidentale si è spesso tradotto nell’assimilazione, naturalmente rielaborata secondo le specificità nazionali, dell’esempio offerto dal loro paese-guida, e questo è stato vero anche nei tentativi di adeguare le istituzioni universitarie alle nuove esigenze e alle nuove funzioni imposte dalla società di massa. La presenza di un modello istituzionale e culturale unitario per l’avvio alla carriera accademica e di ricerca, peraltro, ha rappresentato un elemento utile per promuovere in una cornice universalmente riconoscibile ma mobilità, la collaborazione e il confronto internazionali, storicamente aspetti costitutivi nello sviluppo di tutti i sistemi internazionali.

A quando risale la sua introduzione in Italia?
In Italia, il dottorato di ricerca venne introdotto formalmente con la riforma sancita dal d.p.r. 382 del 1980, e dopo i tempi tecnici di applicazione il primo ciclo dottorale partì nel 1983.

Già nel tentativo di rinnovamento legislativo in tema di istruzione superiore impostato dal ministro Luigi Gui alla metà degli anni Sessanta, però, l’introduzione del dottorato sembrava a portata di mano, nell’ottica generale di una differenziazione dei titoli di studio accademici che avrebbe visto la messa a punto anche dei diplomi professionalizzanti, e dell’introduzione dei dipartimenti come istituti di coordinamento collettivo dell’attività didattica e di ricerca del corpo docente.

Il fallimento di quel processo riformatore, dovuto in buona misura all’esplodere delle tensioni del Sessantotto, avrebbe condannato in generale l’università italiana a un adeguamento molto tardivo a una dimensione di massa che negli anni Sessanta si stava ormai definitivamente consolidando, e in particolare il personale accademico in formazione a non poter usufruire di una posizione socio-professionale consolidata come quella dottorale ancora per anni. Questo, paradossalmente, proprio in un momento in cui anche nell’ambito della contestazione giovanile la dimensione della formazione alla ricerca come attività di produzione della conoscenza, bisognosa quindi di un vero riconoscimento professionale e di una retribuzione adeguata, era un tema sentito nelle elaborazioni più solide e matura, come le “Tesi della Sapienza” redatte dagli occupanti pisani nel 1967.

Quali le ragioni di lungo periodo di questo ritardo?
L’Italia non è l’unico paese ad avere conosciuto un’adozione così tardiva del dispositivo. Anche in Francia, per dire, si può individuare una storia tormentata. In generale, i sistemi universitari che si caratterizzano per un’amministrazione più rigida faticano a introdurre una modifica così sostanziale nell’avvio iniziale di carriera, e in questo possiamo dire che il nostro paese non ha fatto eccezione.

Quello che caratterizza il caso italiano è che dell’esigenza di un percorso di formazione agli alti studi accademici più solido di quello individuato dalla formazione pressoché esclusivamente individuale, al limite col sostegno di un singolo “maestro”, che conduceva dalla laurea alla libera docenza, si è iniziato a parlare molto presto, già quando il governo aveva messo a disposizione un certo numero di borse post-laurea annuali per la formazione all’estero, soprattutto in Germania o a Parigi. L’Italia ha quindi conosciuto il paradosso di mantenere in piedi per oltre un secolo un percorso di introduzione ai ruoli universitari che gran parte degli addetti ai lavori considerava inadeguato, limitandosi a puntellarlo con rimedi parziali, come le borse di perfezionamento post-laurea che consentivano di proseguire i propri studi a pochi individui l’anno presso alcuni centri di particolare rilievo, come la Scuola Normale o, nel secondo dopoguerra, l’Istituto italiano di Studi storici di Napoli e la Fondazione Luigi Einaudi di Torino.

Questa difficoltà a elaborare per lungo tempo un’alternativa universale e strutturata come sarebbe stato il dottorato di ricerca si deve in buona misura al permanere, nella mentalità diffusa del personale accademico, di un’idea di università che potremmo definire “gentiliana”, ovvero strettamente selettiva ed elitaria, in cui l’universitarizzazione di massa era vista come un problema, e con essa i dispositivi che avrebbero potuto garantire un accesso socialmente più ampio all’alta formazione, quali appunto programmi dottorali numericamente rilevanti e con condizioni socio-professionali riconosciute in luogo di quella di borsista.

Quali criticità nelle politiche universitarie evidenzia tale istituto, in relazione al rapporto tra istruzione superiore, ricerca scientifica e società?
Da questo punto di vista occorre distinguere due piani.

Da un lato, la diffusione globale del dispositivo del dottorato di ricerca comporta infatti da oltre un decennio problemi a livello internazionale. Come ha rilevato già a fine 2010 un articolo dell’«Economist» dall’eloquente titolo The Disposable Academic, ovvero “L’accademico usa-e-getta”, l’incremento del numero di posizioni dottorali era legato essenzialmente alla necessità di avere una massa critica di manodopera docente e ricercatrice a costi contenuti e a termine attraverso la quale mantenere in piedi le attività di ricerca e i servizi didattici senza eccessiva preoccupazione per i destini futuri di operatori e operatrici impegnati. In uno scenario in cui la quota di posizioni accademiche con possibilità di stabilizzazione è ormai circa un quarto del numero complessivo di dottori e dottoresse di ricerca formati dai vari sistemi universitari – con una situazione ancora più critica nelle discipline attualmente con minor appeal economico, come quelle umanistiche – il nuovo personale è ormai sempre più spesso costretto a ripensare il proprio futuro secondo le linee direttrici di quello che in origine sarebbe stato un “piano B” rispetto allo sbocco professionale principale. In questo senso, sul livello socio-professionale del Ph.D. si scaricano molti dei problemi tanto di una carriera docente sempre più precaria e soggetta a una competizione internazionale serrata, quanto di un percorso di formazione alle professioni intellettuali sempre più incerto e bisognoso di un serio confronto col mercato del lavoro qualificato contemporaneo.

A livello italiano, d’altro canto, simili questioni di fondo vedono amplificata la loro gravità da un contesto peculiare. In un sistema produttivo nazionale sempre meno capace di integrare le conoscenze avanzate, per dottori e dottoresse di ricerca italiani è ancora più difficile, e spesso impossibile, reinventarsi una professionalità al di fuori di un contesto universitario in cui, anche nei rari momenti di apertura, le posizioni in prospettiva stabili non sono neanche lontanamente adeguate alle necessità, se si eccettua il ripiego dell’insegnamento secondario nei momenti in cui si aprono “finestre” di assunzione nella scuola. Inoltre, la posizione dottorale sconta ancora oggi l’ambiguità che ha accompagnato la sua faticosa introduzione nell’università italiana: nonostante l’impegno crescente in progetti di ricerca o nella didattica integrativa, infatti, il dottorato è ancora considerato dalla legge solo un livello di formazione, e solo recentemente e dopo lunghe battaglie da parte della principale realtà associativa di categoria, l’ADI, si è potuto accedere ad alcune forme di sostegno professionale, come l’indennità di disoccupazione a fine borsa. Tutto ciò rende la condizione dottorale in Italia ancora più precaria che nel resto dei sistemi universitari sviluppati, e forse la cosa peggiore in prospettiva futura è l’ancora scarsa consapevolezza della situazione da parte del resto degli addetti ai lavori nel mondo accademico: il senso comune, infatti, tende ad accettare acriticamente la natura esclusivamente di formazione dell’esperienza dottorale, a dispetto dell’evidenza di un impegno professionale sempre più strutturato dei giovani e nella sostanziale incapacità di riflettere su una condizione normativa che alla luce dei fatti dovrebbe bollare lo Stato come pessimo datore di lavoro.

Andrea Mariuzzo è Professore Associato di Storia dell’educazione nell’Università di Modena e Reggio Emilia

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