“La lotta per le investiture. Una rivoluzione medievale (998-1122)” di Nicolangelo D’Acunto

Prof. Nicolangelo D’Acunto, Lei è autore del libro La lotta per le investiture. Una rivoluzione medievale (998-1122) edito da Carocci: per quali ragioni si può considerare la lotta per le investiture la prima rivoluzione dell’Occidente?
La lotta per le investiture. Una rivoluzione medievale (998-1122), Nicolangelo D'AcuntoNella tradizione storiografica europea l’identità dell’Occidente viene considerata come il risultato delle rivoluzioni dell’età moderna. In realtà uno dei tratti costitutivi della nostra civiltà, la separazione tra dimensione politica e dimensione sacrale, che la distingue dalle altre due presenti nel bacino del Mediterraneo, quella bizantina e quella islamica, fu consumata proprio nel secolo XI e rappresenta il risultato più eclatante della cosiddetta lotta per le investiture o riforma ecclesiastica o, come si diceva all’inizio del Novecento, “riforma gregoriana”. Questa convulsa e complessa trama di avvenimenti politico-militari e religiosi, accompagnata a una fitta produzione di testi propagandistici, determinò in effetti un cambiamento sistemico nell’Occidente medievale che possiamo tranquillamente definire come l’esito possibile di quella che per noi è una rivoluzione. Secondo di Jack Goldstone per poter parlare di rivoluzioni in senso proprio dobbiamo si deve verificare una combinazione di diversi elementi: il rovesciamento violento del governo, la mobilitazione delle masse, il perseguimento di una visione della giustizia sociale e la creazione di nuove istituzioni grazie a leaders visionari, capaci di usare il potere delle masse per produrre un nuovo ordine politico. Questi tratti distintivi sono in parte presenti nella lotta per le investiture, ma il nocciolo della questione consiste nel non farsi imprigionare nell’idea di rivoluzione che abbiamo ereditato dalla tradizione storiografica sull’età moderna e contemporanea. Occorre evitare di perdere la dimensione propriamente storica, la profondità diacronica, finendo con il privilegiare una certa idea di rivoluzione e di non riconoscere i mutamenti ai quali nel corso dei secoli essa è andata soggetta. Il problema allora non è quello di capire se in una certa epoca vi siano state o no delle rivoluzioni, quanto piuttosto di verificare che cosa siano le rivoluzioni nelle diverse epoche, spostando il punto di vista dal piano tipologico, che ipostatizza una certa immagine della rivoluzione e ne verifica l’esistenza nel corso dei secoli, a una prospettiva morfologica, utile invece per comprendere con quali strumenti le società nel corso dei secoli miravano a ottenere i risultati attesi dalla rivoluzione come la intendiamo noi (post)moderni. Diventa fondamentale capire anche se coloro che vivevano nel secolo XI avessero o no la percezione di questo cambiamento rivoluzionario. Si pone qui un problema metodologico cruciale per la nostra tematica. Per il medioevo – o per quello che sbrigativamente consideriamo tale – esiste prima di tutto un problema di “dicibilità”, di “narrabilità” del processo rivoluzionario, in quanto ogni progettualità oggettivamente innovatrice andava nascosta sotto il velo della re-formatio, della riforma intesa come ritorno a una forma, a un modello precedente considerato oggettivamente migliore, essendo ogni cambiamento avvertito come intrinsecamente negativo. Arriviamo dunque al paradosso che la rivoluzione non fosse tanto invocata dai protagonisti del processo rivoluzionario per legittimare il proprio operato (come invece sarebbe avvenuto nelle rivoluzioni moderne), quanto piuttosto dai loro avversari, che usavano il carattere eversivo di quello stesso processo per delegittimare chi lo aveva realizzato. Allora quella che per noi è la rivoluzione va cercata non tanto nelle fonti prodotte o in qualche modo riconducibili a chi quella rivoluzione aveva pensato, voluto o realizzato, quanto piuttosto in quelle prodotte dai suoi nemici, che cercavano di trarre vantaggio dal disvelamento dell’altrui progetto rivoluzionario e dalla denuncia del suo carattere eversivo rispetto all’ordine del mondo voluto da Dio. In altri termini le nostre fonti medievali intenzionalmente nascondono la rivoluzione molto più di quanto la raccontino, visto che il nostro paesaggio delle fonti è popolato di norma da testimonianze riferibili alla verità dei vincitori e solo in misura molto minore a quella dei “vinti”.

Come è maturata tale ipotesi storiografica?
Negli studi medievistici assistiamo a un uso a dir poco disinvolto del termine rivoluzione: Rivoluzione silenziosa comunale, Rivoluzione drammaturgica, Rivoluzione fiscale, Rivoluzione agricola, Rivoluzione documentaria, Rivoluzione antroponimica del XI secolo, Rivoluzione siderurgica, Rivoluzione stradale, Rivoluzione commerciale, Rivoluzione legale (quasi un ossimoro!), Rivoluzione del notariato, Rivoluzione dello scritto, Rivoluzione militare, Rivoluzione del monachesimo e via dicendo. Quasi sempre si tratta di un’accezione poco più che metaforica della rivoluzione.

Per quanto riguarda la lotta per le investiture invece il problema si è posto in modo diverso. In una fortunata biografia laterziana del papa di Canossa Glauco Maria Cantarella aveva parlato proprio di “rivoluzione di Gregorio VII”. Sulla scorta degli studi di Harold G. Bermann che nel volume Diritto e rivoluzione, uscito in Italia nel 1998, aveva inserito la “rivoluzione pontificia del 1075-1122” tra le grandi rivoluzione dell’Occidente, Paolo Prodi (Il tramonto della rivoluzione, Bologna 2015) aveva messo in evidenza le origini medievali del processo che produsse il dualismo fra il potere politico e il potere sacro “in un continuo movimento dialettico: da una parte la politica secolare, dall’altra la Chiesa; da una parte l’imperatore, i sovrani, le città, dall’altra il sistema dei sacramenti (in particolare la confessione dei peccati) che si sviluppa nel secolo XII sotto il controllo di Roma”. Si trattava di un esito della desacralizzazione del potere politico che aveva avuto origine proprio nel secolo XI e che avrebbe aperto la strada al primo processo legale a un sovrano nella storia dell’umanità, alla condanna a morte di Carlo I nel 1649 e alla prima rivoluzione inglese. La stagione delle rivoluzioni moderne e contemporanee costituiva la naturale prosecuzione di un processo che si era iniziato già nel medioevo. Alla luce di queste coordinate storiografiche molto suggestive occorreva però verificare se ed eventualmente come la lotta per le investiture fosse un movimento rivoluzionario ed è questo il tema di questo libro.

Quali vicende segnarono la lotta tra papi e imperatori per il controllo delle nomine ecclesiastiche?
In realtà il termine “lotta per le investiture” non esprime affatto il carattere multiforme del fenomeno di cui stiamo parlando. La concorrenza di imperatori e papi per il conferimento delle cariche ecclesiastiche era solo uno dei problemi (e forse nemmeno il più importante) che agitavano l’Occidente medievale. Tale cambiamento sistemico coinvolgeva tutta la struttura che, a partire dall’età carolingia, aveva presieduto ai funzionamenti istituzionali della Christianitas. Specialmente in età ottoniana e salica quel sistema aveva avuto come vertice l’Imperatore che controllava non solo l’apparato funzionariale di conti, marchesi e duchi, ma anche la Chiesa in tutte le sue articolazioni. La desacralizzazione del potere imperiale passò da una serie di avvenimenti chiave il cui esito non era affatto prevedibile e che costituiscono altrettanti eventi-cesura nella storia della nostra rivoluzione. Eccone alcuni: il 1046 con il sinodo di Sutri, nel quale l’imperatore Enrico III iniziò la serie dei papi tedeschi sottraendo il controllo della Sede Apostolica all’aristocrazia romana. Lo stesso risultato fu rafforzato con il decreto del 1059 sull’elezione pontificia, che consegnava ai cardinali il compito di eleggere il papa, di fatto estromettendone le famiglie romane che per secoli avevano egemonizzato il papato. Un vero e proprio salto di qualità si ebbe dapprima con l’elezione, del tutto irrituale, di Gregorio VII (1073) quindi con le scomuniche da lui comminate ai danni di Enrico IV nel 1076 e nel 1080, inframezzate dall’episodio di Canossa (1077), che vide l’imperatore umiliarsi davanti al papa. Tutti questi traumi misero irreversibilmente in crisi il sistema “antico” a guida imperiale.

Come si giunse al concordato di Worms e cosa vi si stabilì?
Dopo la morte di Gregorio VII (1085) cominciò la cosiddetta età dei compromessi, che si protrasse fino al concordato di Worms. Si ha l’impressione che il problema di questa fase non fosse più quello di prevalere nella lotta tra papato e impero ma di trovare una via d’uscita onorevole per entrambe le parti. L’atto conclusivo della lotta per le investiture, il concordato di Worms (1122), è un documento per molti versi sorprendente. In poche righe esso liquida decenni di accaniti e sofisticati dibattiti, di fiumi d’inchiostro, di sangue versato. Le due versioni nelle quali ci è pervenuto lasciano inoltre notevoli margini di ambiguità, garantendo da un lato la priorità dell’imperatore nelle investiture in Germania, dall’altro la perdita sostanziale di controllo da parte sua delle investiture nelle altre zone dell’Impero.

Quali effetti produsse la lotta per le investiture?
Il dato più eclatante (non sempre sottolineato come merita) in sede storiografica del concordato di Worms è l’impossibilità per la quasi totalità dei vescovi di ricevere i poteri civili che per secoli avevano determinato il loro protagonismo istituzionale e il loro inserimento nei gangli essenziali dell’organizzazione regia. Il vescovo andava così assumendo una fisionomia sempre più dimensionata sui suoi compiti pastorali, a scapito delle funzioni militari e politiche che lo avevano per secoli impegnato all’interno della Chiesa a guida regia. Tale crescente separazione delle funzioni e del genere di vita di chierici e laici rientrava in un più generale processo di distinzione della sfera temporale da quella secolare, che costituiva l’esito più notevole della lotta per le investiture. Anche l’affermazione del celibato dei sacerdoti e la clericalizzazione della ricchezza della Chiesa, ormai sottratta al controllo laicale, rientravano in questa tendenza fondamentale della civiltà occidentale, che trovava il suo tratto peculiare nella desacralizzazione del potere politico. La forza inedita con cui fu affermata la superiorità del papa su ogni altra autorità terrena, consentiva alla Sede Apostolica di realizzare in se stessa e di assorbire l’universalità dell’Impero, divenendo l’arbitra della legittimità di ogni potenza terrena. Questo mondo nuovo, popolato da chierici e laici «gli uni dietro al Papa, gli altri dietro al re», secondo la felice formula di Yves-Marie Congar, era il risultato più evidente e clamoroso della rivoluzione del secolo XI.

Nicolangelo D’Acunto è ordinario di Storia medievale e direttore del Dipartimento di Studi medievali all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano

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