
di Camillo Neri
Carocci
«Nemmeno se avesse avuto due vite – diceva l’arcigno Cicerone – avrebbe dedicato tempo alla lettura di quegli sciocchi dei lirici; e l’austero Seneca, una volta tanto, non era in contrasto con l’esimio e (poco) venerato predecessore: un’occhiata ogni tanto, ma di sfuggita, e senza farsi incantare come se il vaniloquio lirico contenesse qualche arcana virtù (cfr. Epist. 49,5). […] Quanto basta, insomma, per andare a vedere cosa sia, di preciso, la lirica greca.
«Animo, animo sconvolto da ansietà senza rimedio / su, difenditi gettando proprio contro chi ti è ostile, il / petto e nelle insidie dei nemici poniti lì accanto / saldamente: e quando vinci, non ostentare esultanza; e / quando perdi, non prostrarti nel dolore, dentro casa; / godi invece delle gioie ed affliggiti dei mali / senza eccessi; e riconosci quale norma regga gli uomini»: a metà del VII sec. a.C., la disincantata saggezza del soldato Archiloco (fr. 1 2 8 W.) – commentano in proposito i più – costituisce uno dei primi esempi di lirica greca. Basta scendere di pochi decenni per trovare l’incantevole voce di Saffo (fr. 16,1-4 V.): «Chi dice una schiera di cavalieri, / chi di fanti, e chi di navi, sulla / terra nera sia la cosa più bella: / io, quel che si ami»; è il primo erompere – si è soliti dire – dell’amore femminile nella lirica greca. Oltre un secolo dopo (è il 476 a.C.), nelle corti tiranniche siciliane come nella giovane e ancora aristocratica democrazia ateniese, vanno per la maggiore i canti di Pindaro, che pure ha qualcosa da dire circa la gerarchia dei beni terrestri (O. 1,1-7): «Ottima l’acqua, l’oro come fuoco / ardente nella notte assai di più risalta dell’esaltante ricchezza; / se celebrare i premi / desideri, cuor mio, / non cercar più del sole / altro astro che riscaldi, rilucente nel giorno, / tra l’etere deserto, / né cantiamo un agone superiore ad Olimpia»; dedicata al potente Ierone di Siracusa, la prima Olimpica è senza dubbio una delle odi più famose di tutta la lirica greca. […]
La coppia “lirica greca” ha sempre costituito, per gli amanti delle classificazioni, un comodo nome della pluralità. Un’etichetta alquanto elastica, da attribuire a fenomeni diversi, lontani nello spazio e nel tempo. Gli antichi, del resto, non si erano comportati diversamente. Tra il Peripato (Aristosseno di Taranto, IV sec. a.C.) e Alessandria (Aristofane di Bisanzio, III-II sec. a.C.), il termine lyrykós spunta soltanto per definire qualsiasi tipo di canto eseguito con l’accompagnamento della lira (prima a 3, poi a 4, poi a 7 e quindi sino a 12 corde) o di un altro strumento a corda (quali le più professionali, ma meno celebri e diffuse, kítharis e phórminx), talora in combinazione con l’aulo, lo strumento a fiato per eccellenza, una sorta di oboe, impropriamente confuso con il flauto. E quando i grammatici alessandrini riunirono in una lista scelta (che dal Settecento in poi si suole definire canone) i nove lirici più famosi, i maestri del canto tendenzialmente a solo (Alceo, Saffo, Anacreonte) comparivano accanto a quelli del canto tendenzialmente eseguito da un coro (Alcmane, Stesicoro, Ibico, e poi Simonide, Pindaro e Bacchilide). Dall’età romana in poi, neppure la presenza del canto e della lira fu più ritenuta cogente, e nella spaziosa definizione di lyrica poterono così accomodarsi, accanto alla tradizionale melica (da mélos, “canto”) anche l’elegia e il giambo, due generi in cui il canto poteva cedere il posto alla recitazione (parakatalogé), più o meno corredata da un sottofondo d’aulo o – per il giambo – di particolari strumenti a corda come la iambýke e il klepsíambos: tra i lirici che spiacevano a Cicerone militavano ora anche i poeti elegiaci (Callino, Tirteo, Mimnermo, Solone, Senofane, Teognide), i maestri del giambo (Archiloco, Semonide, Ipponatte, Ananio), un gruppo di versatili e polivalenti compositori ellenistici (da Filita a Callimaco, da Teocrito a Euforione), e un variegato manipolo di poetesse, non tutte mere “eredi” di Saffo (da Mirtide a Corinna, da Telesilla a Prassilla, da Erinna ad Anite, da Nosside a Mero).
Per gli antichi classificatori (“eidografi”), “lirica” – ben prima di battezzare quel tratto caratteristico della poesia occidentale cui, almeno da Petrarca in poi, si dà il nome di “sentimento lirico” o di “atmosfera sentimentale (in tedesco Stimmung) lirica” – divenne così tutto ciò che non rientrava sotto il dominio dell’epica (compresa l’innografia narrativa ed esametrica degli Inni omerici) o del dramma, due ambiti, per altro, con cui essa – che storicamente li precedette forse entrambi – condivideva certe propensioni al racconto, alla rievocazione mitica, alla messa in scena e persino al dialogo, e ai quali lasciò parte di sé, se di canti lirici compaiono testimonianze indirette nei poemi omerici […], e dirette nel dramma, nei cori della tragedia e della commedia.
Eppure, non è solo una differenza in negativo (un “non essere questo o quello”), o l’oggettiva registrazione di un habitus esteriore (uno strumento musicale, una misura del verso ecc.), o ancora l’inclusione della lirica nella formazione primaria dei giovani (se proprio i lirici, i melopoioí – stando al Protagora platonico, 326a-b – rientravano nei programmi scolastici di base) a tenere insieme, sotto lo stesso “cappello”, autori che si espressero in tempi diversi, in luoghi diversi, con accenti e dialetti diversi. In un saggio meritatamente celebre, Bruno Snell osservò come i poeti lirici segnino il primo erompere dell’individualità nella letteratura occidentale, una sorta di rivoluzionaria scoperta, consegnata per sempre all’umanità, del pronome personale “io”. Filosofi e sciamani, legislatori e tiranni si fanno ora conoscere in prima persona, descrivono le proprie lotte e le proprie passioni. […] Come intrepidi naviga tori del pensiero, concludeva Snell, i lirici greci hanno aperto all’occidente nuove regioni dell’anima. […]
È innegabile, tuttavia, che sia proprio con i lirici arcaici che i temi della vita del singolo, quali la quotidianità, i sentimenti (l’amore, l’odio, l’amicizia), le scelte (la morale, la politica, la religione), le emozioni (la paura, la speranza, la compassione), fanno massicciamente irruzione nel mondo delle lettere, e che il linguaggio dell’interiorità – fatto di pronomi personali, di diatesi medie, di tempi presenti – cominci qui a definire la propria grammatica e la propria sintassi.»