
La versione spagnola eseguita da Manolo Escobar è dunque una traduzione, che scaturì dalla vena nostalgica un emigrante che lavorava da portiere presso l’ambasciata spagnola in Belgio. Fu lui a dare un nuovo tocco “patriottico” alla canzone, eliminando i riferimenti alle vacanze, al sole o al mare di Spagna e inserendo Dio e la corrida. Ciò finì col ricaricare la canzone di significati nazionalistici, che le erano originariamente estranei, e con i quali toccò la sensibilità popolareggiante di Manolo Escobar. Nonostante il paso-doble dalle sonorità spagnolissime, insomma, la canzone non è spagnola. Non è spagnola la musica, non è spagnolo il testo, non lo sono gli autori, non lo sono i primi esecutori, né la prima circolazione. E non lo era neanche il titolo originale, Eviva España, un misto maccheronico tra il viva spagnolo e l’evviva italiano. Ciò ben rappresenta, anche se per paradosso, il fascino esercitato dalla vitalità della cultura spagnola, e insieme la sua globalità, la sua appartenenza al pianeta.
Quando nasce e come si sviluppa la lingua spagnola?
Se lo spagnolo è una lingua romanza, anzi la più diffusa delle lingue romanze, i cui parlanti sono stimati tra i 480.000.000 e i 577.000.000, ciò è, sembra scontato dirlo, perché le legioni romane conquistarono l’Hispania e il latino vi si radicò profondamente.
Alla fine del III secolo a.C., all’arrivo dei primi contingenti militari, la popolazione indigena dell’Iberia era di origine varia; una piccola parte di essa era certamente composta da antenati degli attuali Baschi, probabilmente di origine non indoeuropea, forse semitica, ma per la maggioranza si trattava di popolazioni autoctone che si erano mescolate per quasi sedici secoli con popolazioni di origine celtica, provenienti da quelle che più tardi saranno chiamate Irlanda, Galles, Francia, e formando così una nuova popolazione tradizionalmente denominata Celtiberica per testimonianza di Plinio il Vecchio, Strabone, Tolomeo.
La resistenza anti-romana fu ostinata. Le province iberiche vennero interessate da una serie di rivolte e reazioni contro gli occupanti latini, e ciò comportò il frequente invio di truppe dal centro dell’impero. In particolare nei primi decenni della conquista i romani si trovarono a dover fronteggiare nella parte occidentale della penisola una tenace opposizione guidata dal capo lusitano Viriato, che diventò l’eroe per antonomasia della resistenza anti-romana. Rimangono tracce monumentali del culto di questo capo guerriero autoctono nella statuaria celebrativa di fine Ottocento-primo Novecento, l’età delle nazioni e della costruzione delle identità nazionali. Statue di Viriato, terror romanorum, come quella bronzea eretta nella piazza principale di Zamora o di Viseu in Portogallo, testimoniano il culto nazionale di questo eroe, che si svolge in parallelo a quello di altri eroi anti-romani in altre parti d’Europa, come Arminio/Hermann in Germania e Vercingetorige in Francia. Culto del tutto otto-novecentesco, si badi bene, e del tutto “inventato”, diremmo quasi a tavolino, da una classe di custodi e costruttori di memoria al servizio delle nazioni.
Nonostante la resistenza, il latino trionfò e radicò profondamente in Hispania. Basti osservare la straordinaria continuità della toponomastica,: Carthago Nova (> Cartagena), Tarraco (> Tarragona), Osca (> Huesca), Cesara Augusta (> Saragozza), Hispalis (> Siviglia), Corduba (> Cordova), Gades (> Cadice), Valentia (> Valencia), Legione (> León), Vicus ( > Vic), Metellinum (> Medellin), Augusta Emerita (> Merida).
Lo spagnolo è una lingua che più delle sue sorelle neolatine tende all’arcaismo perché si sviluppò in una zona periferica dell’impero romano ove più lentamente giungevano le innovazioni che partono dal centro. Per esempio parole come pájaro, mesa e comer proseguono le omologhe latine PASSARO, MENSA e COMEDERE, che sono più ‘antiche’ di quelle da cui discendono l’italiano uccello, tavolo, mangiare o il francese oiseau, table, manger, vale a dire AVICELLUS, TABULA e MANDUCARE. Queste ultime sono non solo più recenti ma anche più “rustiche’: MANDUCARE deriva da mandĕre ‘masticare’, che è il modo di mangiare degli animali (da mandĕre > ‘mandria’) mentre COMEDERE rappresenta il CUM-EDERE, il ‘mangiare insieme’ di una più raffinata civiltà del simposio; analogamente, MENSA da cui deriva la mesa spagnola è il termine “alto”, più antico e raffinato di TABULA, che è un rustico asse sul quale poggiare i cibi alla bisogna.
Ma anche il germanico visigotico introdusse nella lingua di Spagna varie novità. Entrarono parole nuove di grande successo, come il germ. saipo > sapone > sp. jabon o, dal lessico militare, come germ. werra > sp. guerra (che sostituisce il lat. bellum), germ. triggwa > sp. tregua, germ. wardia > sp. guardia. Sotto il profilo onomastico compaiono nomi nuovi che avranno immensa fortuna nella Spagna futura: Álvaro, Alfonso, Enrique, Fernando, Ramiro, Rodrigo, Elvira, Gonzalo, Alberto, Blanca, tutti di origine germanica. E da essi si generano cognomi, anch’essi di larghissima diffusione nel mondo ispanico: Álvarez, Enríquez, Fernández, González, Hernández, Ramírez, Rodríguez, o altri come Guerrero < germ. Werra o Guzmán < etim. guts-man = ingl. good man. Tracce anche nella toponomastica: una delle città più importanti della Spagna visigotica, Burgos, prende nome dal germ. burgs, ‘cittadella fortificata’.
A sud dei Pirenei gli arabi si stabilirono in modo duraturo e crearono uno o più organismi politici la cui importanza per l’evoluzione culturale dell’Europa non può essere sottovalutata. Non soltanto essi costruirono un’efficiente amministrazione, resero fertile la terra grazie a ingegnosi sistemi di irrigazione ed esercitarono un fiorente commercio, ma arricchirono di importanti conoscenze discipline scientifiche come la matematica, la chimica, l’astronomia, la medicina, la botanica, la zoologia. A causa di questa durevole situazione di contatto, un’abbondante terminologia scientifica araba penetrò nelle lingue europee attraverso la mediazione dello spagnolo: alchimia, algebra, alcool, amalgama, albicocca, arancia, elisir, zafferano, sciroppo, soda, zenith, nadir, cifra, zero, cremisi, zaffiro, lapislazzulo, talismano, ne sono i testimoni. A ciò si aggiungano i nomi di molte stelle, che ci danno la misura del primato arabo nel campo dell’astronomia: Altair, Aldebaran, Mizar, Betelgeuse, Merak, Rigel, Vega. Al-Andalus, come gli arabi denominavano la porzione di penisola da essi controllata, era un paese bilingue o addirittura plurilingue, se consideriamo da un lato la co-presenza di tre o quattro varietà di arabo, tra arabo classico, arabo maghrebino, arabo della Mezzaluna fertile e dialetti berberi, e dall’altro varietà dialettali latino-romanza anche molto disomogenee tra di loro.
Quando e come si assiste all’affermazione del castigliano?
Prima della Reconquista il nord rimasto cristiano si suddivideva linguisticamente, in direzione da ovest a est, tra galego, asturiano-leonese, castigliano, basco, navarro-aragonese e catalano. Al termine della Reconquista l’area linguistica galega includeva una striscia di territorio larga all’incirca 200 chilometri che correva lungo l’Altantico, la cui lingua oggi conserva soltanto a nord il nome di galego, mentre a sud assume il nome di portoghese. L’area linguistica catalana a sua volta si estendeva su un territorio che correva lungo la costa del Mediterraneo in direzione nord-sud dai Pirenei sino all’attuale Alicante. L’area linguistica basca, infine, per quanto più estesa dell’attuale, dal sec. XV ha cominciato a restringersi, e lo stesso dicasi per l’area dell’asturiano-leonese e il navarrese-aragonese, ormai ridotti a “varietà storiche”. Il castigliano, invece, lingua dei sovrani leaders della Reconquista, non solamente si è esteso a tutto il resto della penisola iberica, ma è divenuto anche la base dello spagnolo standard, cui ha dato addirittura il nome di spagnolo per antonomasia: lengua española e lengua castellana sono infatti denominazioni co-occorrenti ed essenzialmente equivalenti nel lessico non specialistico, per quanto la prima si riferisca all’espressione geografica, il secondo alla specifica lingua regionale assurta a varietà standard.
Ciò è accaduto non solo perché i sovrani di Castiglia hanno assunto l’iniziativa dell’unificazione politica e militare della penisola, ma anche perché la Castiglia-León è stata la regione in cui si è concentrata la più antica cultura di Spagna. Le prime attestazioni di un volgare ispanico si trovano infatti in due serie di documenti chiamati Glosas silenses e Glosas emilianenses. Sono glosse, cioè parole scritte al margine di un testo manoscritto e provengono da due monasteri, San Domingo de Silos e San Millán de la Cogolla. Se li cerchiamo sulla carta geografica scopriamo che sono piuttosto vicini, entrambi in prossimità di Burgos, che, e non è una coincidenza, è uno dei pochi toponimi germanici della Spagna medievale, Burgos < germ. burg. Siamo dunque nel cuore del territorio gotico. Anche l’inizio del poema epico del Cid campeador ci porta a questa città.
Il 1492, come tutti sanno, fu un anno importantissimo nella storia del mondo. Lo fu anche nella storia linguistica della Spagna, e per almeno tre ragioni.
Il 2 gennaio di quell’anno fatale la coppia reale Ferdinando d’Aragona e Isabella di Castiglia fece il suo ingresso trionfale nella città di Granada dopo la capitolazione dell’ultimo sovrano arabo. Cadeva così dopo quasi ottocento anni l’ultimo baluardo di dominio islamico sulla penisola iberica. Fu un evento che segnò l’immaginario dei contemporanei. La caduta di Granada fu celebrata e festeggiata in tutta Europa: a Roma il cardinale Rodrigo Borgia, futuro Alessandro VI, di nascita spagnola, celebrò la resa dei mori con una corrida di cinque tori di fronte al suo palazzo in piazza Navona. Da questo momento in avanti, la presa di Granada diventa un evento fondamentale nella costruzione dell’identità della Spagna moderna. Ancora oggi «El Día de la Toma de Granada» è celebrato il 2 gennaio con sfilate militari, processioni, e recentemente, a dimostrarne il non esaurito potenziale ideologico, anche con scontri politici tra opposte fazioni, una destra orgogliosa di aver eliminato la presenza araba e una sinistra multiculturale che sostiene il fronte del «No hay nada que celebrar».
Unanime fu invece il giudizio medievale. Gli spagnoli salutarono con sollievo la presa di Granada e in generale l’eradicazione della lingua araba dalla terra di Spagna. Ma non gioirono solo per la vittoria sugli arabi e sull’arabo. Anche l’ebraico era sentito come una presenza estranea. Tre mesi dopo la presa di Granada, il 31 marzo del 1492, Ferdinando e Isabella firmarono nella città recentemente riconquistata l’editto che obbligava i sudditi spagnoli di religione ebraica a scegliere se accettare il battesimo o abbandonare la Spagna. Molte migliaia di ebrei spagnoli lasciarono il paese, soprattutto in direzione del Nordafrica o dell’impero ottomano, ove furono accolti pacificamente. Le varietà iberoromanze che essi portarono con sé nel loro esodo avrebbe seguito un proprio sviluppo autonomo nel nuovo contesto mediterraneo e balcanico, divenendo quello che è stato definito il giudeo-spagnolo. Nel giro di pochi mesi, insomma, arabo ed ebraico sparirono dall’uso, dopo aver fatto parte del panorama linguistico della penisola l’uno come lingua scritta e parlata da una quota amplissima della popolazione per quasi otto secoli, l’altro come lingua di culto di piccole comunità per quasi quattordici.
Il 3 agosto di quello stesso anno così ricco di avvenimenti, inoltre, Cristoforo Colombo lasciò il Vecchio Mondo, salpando dal porto andaluso di Palos de la Frontera, per cercare di raggiungere le Indie navigando verso ponente. Pochi avrebbero immaginato che il viaggio di Colombo avrebbe cambiato, oltre alla storia, anche il volto linguistico del mondo, annettendo alla ispanofonia la parte meridionale e centrale del nuovo immenso continente.
E infine, nell’agosto del 1492, quando Colombo non aveva ancora completato il primo mese di navigazione, a Salamanca, la più importante città universitaria della Spagna medievale, andava in stampa la prima e più celebre grammatica dello spagnolo, la Gramática de la lengua castellana di quell’Elio Antonio de Nebrija, che molti considerano il fondatore della linguistica spagnola. Il grammatico salmantino era rimasto fortemente influenzato dal tentativo di unificazione politico-dinastica della penisola, che i Re Cattolici avevano intrapreso a partire dal 1479. Per il grammatico salmantino la lingua era legata in modo indissolubile al potere politico. Poiché la Spagna aveva ormai raggiunto l’unificazione dinastica, era giunto anche il tempo dell’unificazione linguistica, perché la lingua, secondo Nebrija, è uno degli strumenti della potenza di uno Stato: «Siempre la lengua fue compañera del imperio», è la frase del prologo che potrebbe elevarsi a motto dell’opera. In questo senso egli considerava la propria grammatica come uno strumento per regolare finalmente questo “nuovo” castigliano, ormai lingua della penisola unificata, in modo da renderlo degno di svolgere il suo nuovo compito.
Quel che il grammatico non poteva certo prevedere è che si sarebbe passati senza soluzione di continuità dalla Reconquista della penisola iberica alla conquista del Nuovo Mondo, catapultando la varietà castigliana dello spagnolo a lingua di rango mondiale. Né poteva nemmeno immaginare che una lingua così trionfante avrebbe avuto paradossalmente più problemi in patria che oltremare, in quel difficile rapporto del castigliano con le lingue regionali che attraversa per cinque secoli la storia di Spagna.
Quale ruolo svolgono le Academias de lengua?
La linguistica storica, soprattutto ottocentesca, ha ragionato intensamente su ciò che potremmo definire il parallelismo mancato tra impero romano e impero spagnolo. Il tema è quello dell’evoluzione delle lingue romanze dal latino, da un lato, e la non-evoluzione dello spagnolo d’America rispetto allo spagnolo di Spagna, dall’altro, anch’esso lingua imperiale dell’impero di Spagna come il latino lo era dell’impero di Roma. Perché insomma dal latino si sono marcatamente differenziati il francese, il provenzale, l’italiano, il catalano, lo spagnolo, il portoghese, il rumeno, e invece non è accaduto che dallo spagnolo nascesse il “messicano”, il “cileno” o il “colombiano”, che a loro volta non si sono nemmeno reciprocamente differenziati in maniera marcata? Le risposte fornite dalla linguistica storica sono state varie. Alcuni studiosi hanno sostenuto che la ragione è da ricercare nei sostrati: l’influsso “dal basso” delle lingue indigene sullo spagnolo è stato debole, a differenza di quello esercitato delle lingue di sostrato, adstrato e superstrato sul latino nel territorio dell’impero romano. Altri hanno affermato che la causa risiede in un fattore di tipo temporale: l’ispanizzazione del Nuovo Continente fu complessivamente rapida, mentre l’espansione dell’impero romano fu un processo lento, di durata plurisecolare. Altri ancora sostengono che la ragione della mancata differenziazione sta nel fatto che il contatto tra lo spagnolo d’Oltreoceano e quello “di Spagna” non si è mai interrotto o allentato, a differenza del contatto tra il latino d’Italia e quello delle province dopo la caduta dell’impero romano. Altri infine sostengono che, a partire dal Novecento, i moderni mezzi di comunicazione e la rapidità di circolazione hanno costituito delle poderose forze di omogeneizzazione più che di differenziazione, e impediscono o rallentano un’evoluzione autonoma della lingua. Ciascuna di queste ipotesi contiene una parte di verità e probabilmente sono tutte da considerarsi delle concause. A esse bisognerà aggiungere un paio di poderosi elementi politico-ideologici. Da una parte la Spagna metropolitana non ha mai allentato la “presa” sulla lingua, il controllo su di essa, nella consapevolezza che l’unità linguistica abbia un valore e un peso politico da spendere sulla scena mondiale; dall’altro, anche l’ideologia “rivoluzionaria” degli Stati nazionali sudamericani si è evoluta nel corso del tempo. Se durante le lotte per l’indipendenza e il sostegno dei movimenti di “liberazione” essi miravano a una separazione anche linguistica dalla Spagna, oggi, trovata una soluzione politica che dà dignità alle lingue indigene, questo quadro si è capovolto e pressoché tutti i paesi hanno acquisito consapevolezza del fatto che una lingua comune crea una comunità continentale, se non mondiale, che rappresenta una forza politica ed è un valore da difendere.
In ciò ha avuto un ruolo importante la Real Academia Española. Fondata nel 1713 su iniziativa di Juan Manuel Fernández Pacheco y Zúñiga, marchese di Villena, nasce intorno all’idea di varare il primo grande vocabolario della lingua di Spagna. Nel 1726 l’Academia pubblica il primo dei sei tomi del Diccionario de la lengua castellana, conosciuto anche come Diccionario de autoridades. Nel 1741 esce la Orthographía española, nel 1771 la Gramática de la lengua castellana. Vengono così normati i principali livelli della lingua, in una tradizione lessicografica che giungerà senza interruzioni sino ai giorni nostri. Esso cresce con le sue numerose edizioni che si sono succedute nel tempo, mantenendo sempre l’idea fondamentale dell’unità nella lingua spagnola come valore essenziale.
Tra metà Ottocento e primo Novecento nascono le Accademie nazionali, con cronologia e modalità diverse, alcune più, altre meno disposte ad accettare e valorizzare elementi indigeni, considerate ora segno di vitalità e grandezza imperiali del mondo ispanofono, ora pericolosi elementi di destabilizzazione rispetto all’idea dell’essenziale unità della lingua spagnola. Nel 1951 si ha un importante passaggio politico. Per iniziativa del presidente messicano Miguel Alemán Valdés (1900-1983, presidente dal 1946 al 1952), le accademie si riuniscono nel I Congreso de Academias de la Lengua Española e danno vita a un’istituzione permanente, l’Asociación de Academias de la Lengua Española (ASALE) con delle chiare finalità politiche, considerando anche la levatura istituzionale dei promotori dell’iniziativa. Nei successivi congressi si ribadisce continuamente la necessità «de impulsar la unidad de la lengua común, ante el riesgo de una posible fragmentación». Si avvia così una política lingüística panhispánica, condivisa con le accademie, che si realizza nell’idea di produrre opere di riferimento che servano a risolvere consenusalmente le eventuali divergenze rispetto allo spagnolo di Spagna nell’interesse superiore della esencial unidad. Questa è la formula chiave. A essa si riconosce valore linguistico e soprattutto politico. Lo scopo dell’Accademia è insomma che l’ordine prevalga sul caos, che le spinte centripete si impongano su quelle centrifughe; che la variazione che la lingua spagnola subisce nell’uso quotidiano nello spazio vastissimo della hispanidad non pregiudichi un valore fondamentale: l’unità della lingua che ha anche un non trascurabile “valore economico”, calcolato all’incirca nel 18% del prodotto interno lordo della Spagna.
Naturalmente il peso politico dello “spagnolo fuori di Spagna” non può essere sottovalutato, considerando due dati fondamentali: che il 70% degli ispanofoni, con percentuale destinata ad aumentare, vive fuori dalla Spagna, e che, al momento, i più grandi fenomeni letterari in lingua spagnola, e basti solo pensare all’argentino Jorge Luis Borges o, un livello più popolare, al cileno Luis Sepúlveda, sono tutti ispano-americani, come lo sono la maggioranza dei premi Nobel di lingua spagnola, dalla cilena Gabriela Mistral (1945), al portoricano Juan Ramón Jiménez (1956), al guatemalteco Miguel Angel Asturias (1967), al cileno Pablo Neruda (1971), al colombiano Gabriel García Márquez (1982), al messicano Octavio Paz (1990) fino al peruviano Mario Vargas Llosa (2010), sette rispetto ai quattro ‘spagnoli di Spagna’ José Echegaray y Eizaguirre (1904), Jacinto Benavente (1922), Vicente Aleixandre (1977), Camilo José Cela (1989).
Quali varietà linguistiche caratterizzano le diverse comunità ispanofone nel mondo?
Con più di mezzo miliardo di parlanti, lo spagnolo è una delle lingue più diffuse al mondo. Presente in tutti i continenti, è la lingua di esploratori e di conquistatori, di artisti e di missionari, di leggendari rivoluzionari e di controversi uomini di Stato: Cristoforo Colombo e Hernan Cortés, Miguel de Cervantes e Jorge Luis Borges, Francisco Franco e Juan Domingo Perón, Fidel Castro e papa Francesco. Questo libro volume propone per la prima volta una trattazione unitaria di tutte le sue varietà, dal giudeo-spagnolo delle comunità sefardite nel Levante alle varietà “africane” di Ceuta e Melilla, dalle parlate centro e sudamericane (l’español caribeño, andino, rioplatense ecc.) al chabacano delle Filippine, e ne ricostruisce le connessioni con la storia, la politica, l’ideologia, dalla prima Gramática de la lengua castellana di Elio Antonio de Nebrija (1492) che abbiamo citato sopra, ai dibattiti nelle elezioni presidenziali americane, dall’ostracismo di Donald Trump al recupero di Joe Biden.
La norma della lingua scritta è assolutamente comune allo spagnolo di Spagna e allo spagnolo americano. Le variazioni si percepiscono solo a livello della lingua parlata, come quelle che si riscontrano per esempio tra colombiano e messicano o tra cileno e argentino; e non solo tra le varietà nazionali, ma anche al loro interno, per esempio nel colombiano tra la lingua parlata sulla costa pacifica, il costeño, quella della costa atlantica, il caraibico, quella degli altopiani, il paisa, e quella delle pianure orientali, lo llanero. Si tratta però di variazioni relativamente poco marcate. In nessun caso viene messa a repentaglio la mutua comprensione dei parlanti, anche in varianti distantissime tra di loro. Anche usando la più stretta varietà della lingua di Buenaventura, sulla costa pacifica della Colombia, non esiste il minimo rischio che un parlante non venga compreso da un nativo di Bahia Blanca, sulle coste dell’Atlantico a pochi chilometri dalla Patagonia, laddove un napoletano che parli il suo dialetto in maniera stretta e veloce non è scontato che venga compreso da un veneziano o da un piemontese. Dirò di più: in questo quadro di limitata variazione non si può assumere per certo che un parlante nativo sia capace di identificare il luogo di origine di un altro parlante nativo.
Parlando in termini generali, le correnti migratorie dalla Spagna all’America lungo tutta la storia del continente hanno fatto sì che le modalità concrete e reali con cui in Spagna si parlava lo spagnolo siano sempre state ben presenti nei paesi del Sudamerica, con maggior o minore intensità a seconda delle epoche e delle zone di insediamento, di provenienza dei colonizzatori. Insomma, l’ispanofono sudamericano aveva contezza del modo di parlare in Spagna; viceversa il parlante spagnolo di Spagna non aveva un’idea precisa del modo in cui si parlasse spagnolo in America, se non una vaga percezione che comunque si parlasse, per definizione doveva trattarsi di un modo poco elegante, non prestigioso, in quanto proveniente dalla periferia dell’impero, da una periferia lontana, colonizzata da rudi avventurieri e abitata da popoli che si presumevano incolti, poveri e marginali. Si può dire che ciò è durato per quasi cinque secoli, dal XVI alla metà del secolo scorso. In questo frangente la situazione è mutata. Negli anni ’40 del Novecento, anche per una serie di contingenze politiche (la guerra mondiale cui la Spagna non partecipa, volgendo lo sguardo piuttosto verso il Sudamerica, la sua alleanza politica con il populismo argentino, ecc.), arrivano improvvisamente nella penisola iberica una serie di film argentini e messicani di grande successo. Per la prima volta il pubblico spagnolo ode un accento dell’America Latina e lo associa a un prodotto di intrattenimento e di successo. Negli anni ’60 arrivano le prime tele-serie americane doppiate a Puerto Rico e infarcite di americanismi; negli anni ’70 approdano in Europa e si concentrano soprattutto sul suolo di Spagna una quantità di esuli provenienti da Argentina e Cile per le dittature di Pinochet e di Videla; negli anni ’80 giungono le telenovelas sudamericane: prima la messicana Tambien lo ricos lloran, poi la colombiana Cabalo Viejo, infine la venezuelana Cristal. Queste ottengono un grande successo di pubblico casalingo e abituano ulteriormente l’orecchio spagnolo agli accenti centro- e sudamericani. Da questo momento in poi la velocità di circolazione delle informazioni e la televisione satellitare faranno il resto per accorciare le distanze tra spagnolo di Spagna e spagnolo d’America e per far abituare l’orecchio metropolitano a diverse abitudini fonatorie che fino alla metà del ’900 erano considerate poco prestigiose. Altri importanti flussi migratori di “andata e ritorno” si verificano dagli anni Noventa del Novecento ai primi anni di questo secolo: la massiccia immigrazione in Spagna di spagnoli americani provenienti da paesi andini come Ecuador e Perù e in parte Colombia, in fuga da paesi in crisi economica e in guerra civile, con pesanti violazioni dei diritti umani; anche l’Italia è meta dell’immigrazione venezuelana, spesso viaggio di ritorno di nipoti di immigrati trasferiti in Venezuela agli inizi del Novecento e che peraltro dà origine a una letteratura della migrazione ancora inesplorata.
Bisognerà infine ricordare che il 90% degli ispanofoni risiede in America Latina e negli Stati Uniti, ove con molta probabilità si giocherà il futuro dello spagnolo del sec. XXI come lingua globale.
Quali prospettive per la lingua spagnola?
La lingua della penisola iberica ha dimostrato nei secoli e ancora dimostri vitalità e forza di espansione. Esprime una cultura veramente mondiale, quali che siano state le fasi di ascesa e declino della Spagna come potenza politica. Il suo soft power, la capacità di influenza, di fascinazione, di proposta di un modello di vita, sembrano la rappresentazione di quel «Plus ultra» che insieme alle Colonne d’Ercole si legge sullo stemma della Corona. Sulle prospettive future non possiamo certo fare pronostici, ma qualche previsione di tendenza possiamo azzardarla. L’America Latina è e resta orgogliosamente ispanofona, adesso che ha trovato un rispettoso compromesso tra “dominazione” esterna e tutela delle lingue e dei popoli indigeni. Il Nordamerica assiste a una crescita prepotente, da alcuni persino percepita come minacciosa, dell’elemento ispanico, che, non è difficile prevedere, aumenterà ulteriormente nei prossimi decenni nonostante le politiche, peraltro fors’anche effimere, di contenimento forzato. In Africa l’intensità dell’hispanidad si è affievolita rispetto al passato coloniale, ma lo spagnolo si conserva come seconda lingua nei territori dell’ex-Sahara spagnolo e della Repubblica Saharawi, e come lingua co-ufficiale in Guinea equatoriale. Anche in Asia la hispanidad sta resistendo vigorosamente nel caposaldo delle Filippine, almeno come seconda lingua “globale”. È forse in patria che lo spagnolo, inteso in questo caso come castigliano, trova le più forti incognite, e alludo ovviamente alla questione catalana, una questione essenzialmente “ottocentesca” se vista nei suoi profili identitari del nesso territorio-lingua-popolo, e che a intermittenza si riapre, anche nei suoi aspetti linguistici, con esiti che potrebbero essere anche deflagranti non solo in relazione al castigliano ma anche rispetto all’integrità della nazione.
Stefano Rapisarda è Professore Ordinario di Filologia romanza all’Università degli Studi di Catania. Oltre ai temi tradizionali della disciplina (lirica, epica, romanzo), si è occupato di testi medico-scientifici, di relazioni Oriente-Occidente e di intersezioni tra filologia e ideologia. Tra le sue pubblicazioni più recenti: Textes médiévaux de scapulomancie (Garnier, 2018), La filologia al servizio delle nazioni. Storia, crisi e prospettive della filologia romanza (Bruno Mondadori, 2018), Anglo-Norman Chiromancies (Garnier, 2020) e Filologi in pace e in guerra (Rubbettino, 2020). Per Carocci editore ha curato Manuali medievali di chiromanzia (1a rist. 2017) e Nicole Oresme, Contro la divinazione. Consigli anti-astrologici al re di Francia (2010).