“La lingua scortese della pubblicità e della propaganda” di Federica Ricci Garotti

Prof.ssa Federica Ricci Garotti, Lei è autrice del libro La lingua scortese della pubblicità e della propaganda edito da FrancoAngeli: che rapporto esiste tra testo pubblicitario e contesto quotidiano?
La lingua scortese della pubblicità e della propaganda, Federica Ricci GarottiSe si parla di contesto, la pubblicità ormai è una parte integrante della nostra vita e l’aspetto più inquietante è che non abbiamo scelto, non scegliamo di imbatterci in un messaggio pubblicitario ma ci viene messo sotto gli occhi, o ci penetra nelle orecchie, spesso senza che noi ce ne accorgiamo e sempre senza che noi lo vogliamo o lo abbiamo chiesto. Si tratta di testi che distraggono e deconcentrano mentre stiamo guidando, pensando ad altro o cercando altro: veniamo interpellati da anonimi comunicatori che ci sottopongono testi e immagini lontani in quel momento dai nostri pensieri. Vista così è una forma comunicativa invasiva e violenta, ma non bisogna dimenticare che tutti, o la maggior parte, hanno ormai accettato una società basata sulla iperproduzione, l’iperconsumo e, di conseguenza, sulla pubblicità. Un altro mondo non viene percepito, perfino la pandemia non è riuscita a insinuare nessun dubbio sul fatto che questo sistema economico e questo modo di vivere non siano giusti. Anche chi pensa che il sistema non sia giusto o non sia l’unico non è finora stato in grado di proporre altri modelli altrettanto attraenti. La pubblicità è legata strettamente a questo tipo di sistema, senza il quale non avrebbe senso. Per questo è inevitabile, che ci piaccia o no.

Se invece si parla di lingua, sono pochi i linguisti che hanno una posizione benevola o anche solo comprensiva nei confronti della pubblicità. La maggior parte è critica, in maniera più o meno pungente, sull’impatto che la lingua pubblicitaria ha sulla lingua standard. C’è chi l’ha definita una lingua parassita e chi addirittura una slavina linguistica, Altieri Biagi l’ha definita una lingua venduta, De Mauro una lingua subalterna e Migliorini una lingua in margine alla lingua. Occorre dire che le critiche erano molto più severe e “militanti” negli anni Sessanta e Settanta. Dagli Ottanta in poi, in concomitanza con la rinnovata accettazione del sistema post-industriale che presto si trasformerà in globalizzazione dei consumi e della produzione, anche certa linguistica si adegua e, anziché concentrarsi sulla critica alla comunicazione persuasiva manipolativa, sottolinea la creatività linguistica del testo pubblicitario, la sua duttilità, perfino la sua refrattarietà alle norme formali. È un segnale della legittimazione, che diventerà poi addirittura glorificazione negli anni Duemila, di ogni libertà, compresa quella linguistica, in nome del successo.

Con quali criteri e categorie il testo pubblicitario è analizzabile relativamente alla lingua?
Nella letteratura specifica ci sono analisi di diverso tipo, tutte legate anche alle epoche. Negli anni Sessanta e Settanta, con Eco e Barthes, la critica è stata prevalentemente condotta in ambito semiotico, negli anni Ottanta e Novanta c’è stato l’impatto della linguistica cognitiva e della psicolinguistica, poi della pragmatica, compresa la pragmatica funzionale che è nata in Germania ad opera di Ehlich . Quest’ultima è, a mio parere, la scuola più interessante perché lega il fenomeno comunicativo alle sue funzioni sociali. In questo modo la lingua viene vista non più nei suoi aspetti formali (lessico, strutture), ma come vera e propria “azione linguistica”, o insieme di atti linguistici, ovvero a ciò che noi facciamo ogni volta che pronunciamo un enunciato: promettiamo, minacciamo, cerchiamo di convincere, lodiamo, rimproveriamo…Vista così, la lingua è azione, a monte della quale c’è sempre un’intenzione del parlante, mentre a valle c’è l’effetto che questa azione ha sul ricevente. In tal modo, oltre alla forma linguistica, c’è molto di più: la struttura formale diventa la realizzazione di qualcosa di molto più profondo che, nella pragmatica funzionale, definisce e contribuisce a costruire o mantenere i rapporti sociali e le relazioni tra le persone. In altre parole, la lingua è co-responsabile, attraverso i modelli comunicativi, della struttura socioculturale di una comunità.

La pubblicità, in questa visione, con la sua struttura asimmetrica, anonima e persuasiva contribuisce a creare e legittimare il sistema economico e il contesto culturale nelle diverse epoche. Una siffatta comunicazione non è pensabile in una società basata su relazioni diverse da quelle attuali, non avrebbe senso, perché al di fuori di questo sistema la pubblicità perde ogni tipo di significato e funzione. Wittgenstein affermava che la lingua è un fatto e, come tale, è la sola realtà osservabile. Non si studia la pubblicità per conoscerne o descriverne la forma linguistica, ma per capire come quest’ultima determini la struttura di un mondo, un contesto, un sistema come quelli attuali. Solo attraverso la lingua come fatto, e non certo solo come veste formale, è possibile acquisire quella sensibilità che consente di analizzare, attraverso la lingua e la comunicazione in generale, la pubblicità come fenomeno per comprendere meglio la realtà in cui si vive. Non dimentichiamo inoltre che la pubblicità è un mezzo straordinario sia per acquisire una lingua e, attraverso questa, una cultura, sia per affinare la sensibilità nei confronti di una lingua per coloro che già la conoscono. Dunque la pubblicità è un contenuto fortemente interdisciplinare, linguistico, didattico, cognitivo, sociale.

Quali sono le strategie persuasive più frequenti nei testi pubblicitari?
Sono molte, ma per quanto le strategie più invasive e persuasive siano quelle implicite (le presupposizioni, ad esempio o l’implicatura), le più frequenti sono ancora le figure retoriche. Secondo Eco il valore che la retorica attribuisce al testo pubblicitario è soprattutto estetico. Solo in virtù di questo stimolo estetico ed emotivo i riceventi sono inclini a farsi persuadere: la bella parola, la bella frase (e anche la bella immagine) sono elementi sufficienti per giustificare l’acquisto di un prodotto, pertanto la funzione estetica della pubblicità è la più importante. Forse è proprio per questo che, anche se le pubblicità oggi sono divertenti, ironiche, sorprendenti, la retorica non è mai scomparsa del tutto. Magari le strategie sono diventate meno banali, (ad esempio sono quasi scomparse le rime), le allusioni sono più caute, specie quelle politicamente scorrette, figure letterarie come l’iperbole e la metafora sono abbastanza trascurate perché ritenute troppo scontate. Tuttavia alcune figure retoriche meno conosciute e molto più potenti, come l’antropomorfismo del prodotto (“Gioielli che amano le donne”), il litote (“Niente è impossibile”), la sineddoche (“La bocca non basta”) sono molto usate, soprattutto nelle pubblicità più giovani.

C’è poi tutta una categoria di pubblicità cosiddette mitologiche che si basano sulla mitizzazione del prodotto e utilizza tecniche narrative, come la creazione di realtà distopiche (il mondo di obesi della pubblicità tedesca Edeka), o la tipica struttura della narrazione seriale, a puntate, come accade con gli sceneggiati televisivi nei quali i personaggi sono sempre gli stessi e vengono rappresentate situazioni diverse che culminano sempre negli effetti positivi del prodotto (tipiche in questo senso gli spot tedeschi di Ikea, basati sulle vicende umane ed esistenziali della signora Smilla, che vive in un appartamento arredato con Ikea). Delle pubblicità mitologiche fa parte anche l’uso delle cosiddette parole magiche, che sono diverse per ogni epoca (oggi sono “pulito, sano, come una volta, ecologico, naturale”, negli anni Ottanta e Novanta erano invece “energia, progresso, forza, successo, io, corpo, mente”, nei Duemila “connessione, comunicazione, gente, mondo, casa”) o anche quelle che Porksen chiama parole-ameba: in entrambi i casi si tratta di uno svuotamento semantico, ovvero della perdita di un significato specifico che trasforma la parola in un mero ornamento, riconoscibile e modaiolo, e piano piano ne smarrisce il senso.

Bisogna considerare che la pubblicità oggi, a causa della concorrenza commerciale esasperata tra i prodotti e le marche, non può più solo limitarsi a mostrare il prodotto, gli effetti del prodotto, il contesto d’uso del prodotto. Anzi: come è stato rilevato da Stöckl, uno studioso tedesco di pubblicità, oggi si deve parlare di strategie per nascondere il prodotto, non per descriverlo. Sostanzialmente la pubblicità si è trasformata in intrattenimento. Questo cambiamento ha comportato un forte cambiamento di strategie utilizzate, che vanno dalla spettacolarizzazione alla provocazione sia attraverso le immagini sia per mezzo del testo verbale.

Molto utilizzati sono anche fenomeni come l’intertestualità, il linguaggio specialistico, gli stereotipi o lo choc socioculturale, espresso attraverso le immagini, come nelle campagne di Toscani per Benetton.

Ormai la pubblicità deve vincere lo scetticismo e la resistenza degli spettatori e dei lettori, quindi si appropria di aspetti tipici di altre comunicazioni e, come dice Volli, esercita un’azione “parassita”.

In che modo il confronto tra italiano e tedesco contribuisce alla comprensione di dinamiche differenti nei diversi contesti socioculturali?
Nessuna comunicazione, in particolare la comunicazione pubblica, avviene in un vuoto socioculturale. È evidente che la funzione persuasiva è comune alla pubblicità in tutte le culture, ma il modo in cui questi messaggi vengono concepiti è fortemente dipendente dalle reazioni del pubblico, che non è sempre uguale. Si può analizzare la differenza tra le pubblicità sia in termini di cultura, consapevoli del fatto che sono confini piuttosto labili, sia anche per segmentazioni di mercato: ci sono abitudini differenti di consumo in base ai ruoli sociali, generi ed età, indipendentemente dalla cultura di appartenenza. Ciò che però è indiscutibile è che attraverso l’analisi di pubblicità diverse, che però attengono allo stesso prodotto, o a un prodotto della stessa categoria, si possano evidenziare elementi diversi, anche sfumati, che dipendono probabilmente da una diversità sia di tecniche persuasive sia dei destinatari.

Non si dimentichi, inoltre, che esistono nei diversi Paesi, norme commerciali diverse e anche associazioni di consumatori che intervengono più o meno pesantemente sulle diverse campagne pubblicitarie.

Non sono rari gli esempi di campagne che sono state prima presentate e poi ritirate per proteste o reazioni avverse dei consumatori in base ai simboli e ai miti delle diverse culture o dei diversi gruppi.

Federica Ricci Garotti è Professoressa ordinaria di Lingua e Linguistica Tedesca presso l’Università di Trento, Dipartimento di Lettere e Filosofia, ove svolge, oltre alla ricerca e all’insegnamento diversi incarichi di coordinamento. I suoi principali interessi di ricerca e oggetto dei suoi corsi sono il linguaggio della persuasione e l’apprendimento/insegnamento delle lingue straniere, in particolare della lingua tedesca e delle lingue di minore diffusione. Si occupa di plurilinguismo infantile e coordina da vent’anni l’inserimento della lingua straniera nella scuola dell’infanzia per la Provincia di Trento. È inoltre Presidente del comitato scientifico dell’Istituto di lingua mòchena (una minoranza germanofona in territorio italiano). Tra le sue ultime pubblicazioni, oltre a numerosi articoli in riviste internazionali, si ricordano i volumi: Dialogo sul CLIL tra scuola e università (2019, Studium), Das Image Italiens in deutschen touristischen Katalogen (2016, Carocci), Brücken schlagen zwischen Linguistik und Sprachdidaktik (2017, Peter Lang).

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