
Quali i rischi di un uso sistematico della “e” rovesciata” nella lingua italiana?
Alle cinque ragioni già indicate se ne aggiungono di seguito altre, ancor più dirimenti, per le quali ritengo lo schwa inammissibile nell’uso linguistico italiano, tanto più in atti prodotti dalla Pubblica Amministrazione:
– serio pericolo di un’“ufficializzazione”. Importare lo schwa in un testo “codificato” è un’aberrazione linguistica, e immetterlo addirittura in un documento prodotto da un’amministrazione centrale dello Stato pubblico è un precedente di una gravità inaudita. Autorizza chiunque, d’ora in poi, a redigere un atto pubblico in emoji o in volgare duecentesco, o magari a disseminarlo di ke, xké o qlc1 (invece di che, perché e qualcuno);
– impulso alla generalizzazione (gratuita). Nei sei verbali i cinque Commissari hanno utilizzato gli schwa in modo indiscriminato, in riferimento a se stessi e ai candidati esaminati, come fossero tutti portatori di identità non binarie;
– natura destrutturante dell’innovazione. Lo schwa non è un semplice neologismo. È un corpo estraneo che viola irrimediabilmente le regole ortografiche e fono-morfologiche della nostra lingua. Faccio un solo esempio: gli articoli determinativi il, lo, la, poiché l’italiano antico, in usi che oggi richiedono il, poteva prevedere al maschile singolare la variante lo, si vuole che convergano sull’unica forma lə, e i rispettivi plurali (i, gli, le) che confluiscano in l3;
– danni ai pubblici doveri di trasparenza linguistica. Nel 2017 una circolare francese (22 novembre), diramata dal primo ministro Édouard Philippe, ha invitato i membri del Governo a rinunciare all’écriture inclusive, nei documenti ufficiali destinati al pubblico, per non pregiudicarne l’intelligibilità e la chiarezza. Anche lo schwa (semplice e lungo) è a scapito di entrambe.
Da cosa nasce tale “anelito d’inclusività” linguistica?
Dall’aver scambiato la soddisfazione di legittime esigenze di riconoscibilità sociale, per venire incontro ai portatori di identità non binarie adoperando le forme e le parole più adatte, con la pretesa che le norme linguistiche di un’intera comunità nazionale debbano soggiacere alla prepotenza di pochi, intenzionati a scardinarle con la generalizzazione di usi teratologici. La principale responsabile di tutto questo è un’armata scomposta di blogger, attivisti, radical chic, influencer, social-lizzanti e dilettanti allo sbaraglio, guidati o supportati da uno sparuto manipolo di aizzatori esperti – o sedicenti tali – malati di protagonismo, o campioni di travestitismo d’abito o intellettuale. Democristiani dell’ultima vague bandita sotto le insegne del politically correct, ben coscienti che la vocale centrale neutra ammazzagenere non sia spalmabile in un testo in maniera uniforme e sistematica, che predicano peraltro regole grammaticali “elastiche”. Puro fumo negli occhi. Guarnisci i tuoi testi di qualche e ribaltata, un tocco qui e un altro lì, e, oplà, sarai a posto due volte: con la tua coscienza, alleggerita dal senso di colpa esclusivista; con la tua smaniosa voglia di vedere l’effetto (“sperimentale”) che fa.
Nel 2017, per combattere ogni forma di discriminazione basata sull’identità di genere, in tutte le sue sfumature (riassunte dall’acronimo LGBTQI+), ho fondato il movimento Omofobi del mio Stivale, e per quanto mi riguarda – ma non sono ovviamente il solo – la coscienza del progresso delle forme sociali e culturali non può essere in discussione. Altro è il rispetto linguistico. Da questo versante niente sconti per simboli pretestuosi e rovinosi. Sono da rispedire al mittente. È insensato chiedersi se il rispetto delle regole di funzionamento di una lingua sia più o meno importante dell’attenzione dovuta ai singoli, o a gruppi minoritari, perché non siano – né si sentano – discriminati. Se così non fosse saremmo costretti ad assecondare i capricci di chiunque accampasse diritti in materia d’italiano avanzando le più svariate pretese, magari solo per arroganza o vanità. Nel 2017 la Corte costituzionale federale tedesca (Bundesverfassungsgericht), in base a un principio di tutela della personalità, ha sancito il dritto, per intersessuali e genderless, di vedersi riconosciuto il loro stato ibrido su un certificato di nascita, e dal 2019 è buona pratica che un annuncio di lavoro, in aggiunta alla dicotomia fra maschile (männlich) e femminile (weiblich), contempli una terza opzione: a) m/w/a (= anders, ‘altro’); b) m/w/d (= divers, ‘differente, diverso’); c) m/w/gn (= geschlechtsneutral, ‘di genere neutro’); d) m/w/i (= intersexuell); e) m/w/x o *. Fin qui nulla da eccepire, tutt’altro. Quando però una giusta rivendicazione si trasforma in un tentativo di irreggimentazione, nell’assoggettamento a una “dittatura del segno” che punisca chiunque si rifiuti di sottostarvi, e la questione investa per giunta i delicati settori della formazione, dell’istruzione o dell’informazione, la faccenda prende ben altra piega.
L’italiano è una lingua sessista?
Lo è purtroppo ancora, sebbene non siano mancati, nell’ultimo decennio, segnali importanti per il superamento di un sessismo linguistico che lo “schwaismo” può tuttavia finire seriamente – ancorché involontariamente – per alimentare. I fautori del simbolo esortano a sostituire i pronomi personali lui e lei con ləi, e sostengono che le forme inclusive di direttore o pittore, autore o lettore debbano essere direttorə e pittorə, autorə e lettorə, decretando di fatto la morte di direttrice e pittrice, autrice e lettrice. Ci sono voluti secoli per arrivare a molti di questi femminili. Nel latino classico pictrix, come femminile di pictor, non esisteva; una donna che avesse fatto la pittrice, nell’antica Roma, si sarebbe dovuta accontentare di perifrasi come pingendi artifex (‘artista in campo pittorico’). Si va anche oltre. Se l’unanime volontà dei membri della Commissione universitaria di cui sopra era di dare cittadinanza, nei loro verbali, anche al genere femminile, evitando il maschile sovraesteso, sarebbe bastato riferirsi ai candidati e alle candidate, agli autori e alle autrici, e così via, o si poteva parlare di persone e chiuderla lì. Plurali inclusivi come autorǝ o coautorз, anziché contrastare davvero i maschili autori e coautori, cancellano di fatto i femminili autrici e coautrici.
La sua petizione su Change.org “Pro lingua nostra”, ha già raccolto oltre 23.000 adesioni, tra cui quella di Claudio Marazzini, presidente dell’Accademia della Crusca, Alessandro Barbero e Massimo Cacciari: attecchirà mai tale riforma linguistica o lo schwa si ridurrà ad una effimera lettera claudiana?
I sostenitori dello schwa hanno già perso. È arrivata giorni fa una risposta di Renato Brunetta (nota prot. n. 494, 29 marzo 2022) a un’interrogazione parlamentare in materia (n. 4-06704) presentata dal senatore Mario Pittoni, vicepresidente leghista della Commissione Cultura (Istruzione pubblica, beni culturali) di palazzo Madama. Nel rinviare a un elenco di documenti prodotti dal Dipartimento della Funzione Pubblica del Ministero per la Pubblica Amministrazione, in particolare a due direttive, la prima del 2005 («Direttiva sulla semplificazione del linguaggio delle pubbliche amministrazioni») e la seconda del 2007 («Misure per attuare parità e pari opportunità tra uomini e donne nelle amministrazioni pubbliche»), il ministro Brunetta fa notare come in nessuno di quei documenti venga «fatto riferimento alla possibilità di impiegare la desinenza neutra ‘schwa’ a fini inclusivi, non discriminatori e non definitori di genere». Come non bastasse, a corredo della documentazione fornita, viene citato dal ministro il passaggio di un atto del 2020, emanato dall’Agenzia delle Entrate («Linee guida per l’uso di un linguaggio rispettoso delle differenze di genere»): «È importante ricordare […] che l’uso di forme abbreviate con l’asterisco al posto della desinenza (‘Collegh*’ […]) è sconsigliabile perché può ostacolare la comprensione del testo o appesantirne la lettura. Poiché lo sdoppiamento (‘Colleghe e colleghi’ […]) comporta un allungamento e un appesantimento del testo, in alternativa è spesso preferibile l’utilizzo dei sostantivi non marcati o di nomi collettivi». Più chiaro di così…
Massimo Arcangeli, linguista, sociologo della comunicazione, critico letterario, collabora con l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani, dove ha svolto anche mansioni direttive, e con la radio e la televisione pubblica e privata; scrive o ha scritto, anche in veste di opinionista ed editorialista, su quasi tutte le principali testate quotidiane nazionali; è garante dell’Italianistica a Banska Bystrica, sede di una delle tre principali università slovacche; è External Examiner per l’Università di Malta; è stato Direttore dell’Osservatorio della Lingua Italiana Zanichelli, editore per il quale ha tenuto anche una rubrica sull’“antiburocratese”; dirige varie imprese editoriali, è consigliere scientifico di varie riviste e collane editoriali, dirige, condirige o è responsabile scientifico di una decina di festival culturali. Fra i suoi ultimi libri, tutti usciti nel 2020: Sardine in piazza. Una rivoluzione in scatola?; Senza parole. Piccolo dizionario per salvare la nostra lingua; L’avventurosa storia della stretta di mano. Dalla Mesopotamia al Covid-19.