
Come avvenne la rinascita del Teatro?
La rinascita del teatro è strettamente legata alla civiltà delle Corti rinascimentali, che vede il proprio massimo splendore a cavallo tra Quattro e Cinquecento. Nelle Corti di Ferrara, Mantova, Roma, Urbino, Venezia, ecc. il teatro è il genere più nobile con cui i Signori celebrano il proprio potere attraverso la festa e il carnevale. Se non vi fosse stato l’impulso cortigiano, difficilmente si sarebbe avuta la rinascita del teatro moderno, della cosiddetta commedia regolare rinascimentale. Certamente alla base della commedia regolare c’è anche la riscoperta del teatro classico, soprattutto di Plauto e Terenzio: come non ricordare che la “Cassaria” di Ludovico Ariosto, del 1508, riprende con evidenza nel titolo la “Cistellaria” plautina? Tuttavia la fonte di ispirazione è rappresentata anche dall’immenso serbatoio comico del “Decameron” e delle altre raccolte di novelle: ovvio il richiamo al personaggio di Calandrino nella “Calandra” di Dovizi da Bibbiena. La singolare fusione di fonti classiche e volgari troverà il momento di massimo splendore nella “Mandragola” di Machiavelli, il vero capolavoro della commediografia cinquecentesca.
Quali caratteristiche possedeva l’opera dei «comici scrittori»?
I comici scrittori, ovvero i comici dell’arte, rappresentano un elemento di forte innovazione nella macchina teatrale. Essi sono infatti il primo esempio di attori professionisti, che vivono del loro lavoro girando di città in città e di piazza in piazza alla ricerca di un pubblico pagante. Il capocomico è dunque il responsabile della compagnia, e ne è anche l’amministratore. Ciò fa sì che le compagnie girovaghe abbiano un costante bisogno di testi a disposizione da recitare nelle situazioni più disparate. La necessità di adattare lo spettacolo al tipo di pubblico delle varie occasioni, fa sì che i comici dell’arte prediligano i canovacci o “scenari”, ovvero dei testi solo parzialmente scritti, ma in buona misura affidati all’improvvisazione degli attori. Il teatro “all’improvvisa” aveva alcuni ruoli fissi (gli innamorati, i vecchi, i servi) e alcuni ruoli opzionali (il capitano, il dottore, altre servette). La fissità dei ruoli ebbe come conseguenza anche una forte ripetitività linguistica: ogni personaggio parlava il suo linguaggio, dal toscano aulico dei giovani innamorati, al veneziano o bolognese dei vecchi, al bergamasco degli “zanni”, allo spagnolo del capitano. Il teatro dei comici scrittori è erede della tradizione del teatro plurilingue veneto (Ruzante, Calmo, Giancarli); ma mentre questi ultimi usano il plurilinguismo a fini caricaturali e di deformazione del classicismo monolingue, i comici dell’arte se ne servono come risorsa atta puramente a suscitare il riso degli spettatori, senza alcuna velleità anti-italiana.
Quali novità introdusse Carlo Goldoni nel linguaggio teatrale?
La rivoluzione goldoniana fu innanzi tutto una rivoluzione tematica. Le sterili situazioni proposte dal teatro vernacolare dei comici dell’arte aveva ormai consegnato la scena teatrale a un profilo molto basso. Mettendo a confronto il libro del Mondo e il libro del Teatro, Goldoni si propone di ridare dignità alla scena, rinvigorendo i temi e cercando di fare entrare nelle sue commedie la realtà sociale del tempo, in cui la classe borghese aveva ormai acquisito una salda centralità. La rivoluzione tematica non poteva non essere accompagnata da una rivoluzione linguistica. Le logore maschere della commedia dell’arte con i loro linguaggi stereotipati e sempre più scollati dalla realtà del presente vengono rimpiazzate dal recupero dei personaggi, uomini e donne in carne ed ossa, protagonisti veri del loro tempo, ciascuno col suo profilo psicologico ben rilevato. Personaggi nuovi e lingua nuova, ma quale? A metà del Settecento mancava ancora una varietà di italiano parlato sovraregionale che potesse essere utilizzato nel dialogo teatrale. Goldoni è dunque costretto in qualche modo a inventare una lingua della conversazione, lontana tanto dalle guittate dialettali dei vari Arlecchino e Brighella, quanto dal toscano arcaizzante ed estenuato dei giovani innamorati. La scelta cade su un italiano di base toscana, il più possibile scevro da arcaismi e cultismi, ma pur sempre aderente alla norma. Il “sale” della conversazione è piuttosto affidato al ricorso a proverbi e modi di dire, mentre nella sintassi abbondano le “frasi marcate”, ovvero con dislocazione di alcuni elementi dall’ordine naturale della frase. Attraverso una sintassi più aderente ai ritmi e alle esigenze del parlato e un lessico fitto di modi colloquiali, di motti, di blasoni popolari, Goldoni riesce, nelle commedie più riuscite, a creare una lingua in gradi di trasmettere vivacità e freschezza all’ascoltatore, lontana dalla deriva dialettale e dall’insostenibilità dell’italiano letterario.
Quali diverse tensioni percorsero l’Ottocento a Teatro?
Nell’Ottocento il ruolo della commedia in prosa viene oscurato dal grande successo di pubblico che ebbe il genere melodrammatico. Inoltre, in particolare all’inizio dell’Ottocento, il teatro comico oscillava tra una pedissequa imitazione del modello goldoniano e un recupero di toni ispirati a una solennità a volte imbarazzante (si veda, ad esempio, “La morte civile” di Giacometti). Il mirabile equilibrio tra lingua e psicologia raggiunto da Goldoni sembra dissolversi ben presto. Dobbiamo arrivare alla fine del secolo per trovare un’esperienza teatrale di grande spessore culturale, ovvero la corrente verista, sia nella veste del dramma borghese alla Giacosa, sia in quella del dramma rusticano alla Verga. Sia pure secondo diverse modalità, Giacosa e Verga riescono a piegare la lingua dei loro personaggi ad una colloquialità magari trita, banale (famosa la scena che chiude il primo atto di “Tristi amori” con il conto della spesa), ma tuttavia assai efficace e soprattutto credibile. Tanto nei salotti borghesi di Giacosa, quanto nella vita campestre delle commedie siciliane di Verga, si respira finalmente un’aria di verità, triste o feroce, malinconica o belluina, ma pur sempre verità.
Chi sono i Maestri del teatro contemporaneo e come si caratterizza il loro Teatro?
Il teatro del Novecento è scandito dalla triade Pirandello, De Filippo, Fo. Pirandello ricorda per certi aspetti l’approccio con la lingua del teatro che fu di Goldoni due secoli prima. Nel drammaturgo siciliano sarebbe vano ricercare impennate linguistiche, violenti scarti dalla norma, trouvaille di qualsiasi ordine e grado. È stato da più parti osservato come la lingua teatrale di Pirandello sia sostanzialmente aderente allo standard novecentesco, una lingua media, priva di impennate verso l’alto o verso il basso. Ma Pirandello è figlio del Novecento e della psicoanalisi, e nessuno più di lui è in grado di scavare in profondità nella psiche dei personaggi attraverso improvvisi scarti della logica conversazionale. I personaggi-manifesto di Pirandello giocano con l’orizzonte d’attesa dei loro interlocutori (e degli spettatori), riuscendo sempre a spiazzarli attraverso fulminanti battute apparentemente incoerenti o addirittura illogiche. Il seguito della vicenda, però, dimostrerà che dietro quell’apparente stramberia o illogicità si nasconde la chiave di volta per interpretare il gioco delle anime che si incontrano e si scontrano. De Filippo, attore-autore, trova nel realismo amaro la cifra delle proprie commedie. Il suo teatro è una sorta di “ciclo dei vinti” trasposto sulla scena. La scelta del dialetto napoletano è consustanziale alle vicende narrate da Eduardo: il suo teatro è in quanto teatro napoletano. Interessante è anche il rapporto tra dialetto e italiano nelle commedie eduardiane. L’italiano è la lingua dei potenti e dei prepotenti, la lingua dei forti che spesso se ne servono per turlupinare i poveracci, i dialettofoni appunto. I personaggi italofoni sono per lo più antipatici, mentre i dialettofoni sono positivi e portatori dei valori migliori. Il microcosmo napoletano ha trovato in De Filippo un cantore inarrivabile e inimitabile. Dario Fo è l’erede consapevole di quella tradizione plurilingue e mistilingue lombarda che risale ai tempi di Teofilo Folengo e delle “Naccaronee”. La sua lingua è un idioma mescidato per eccellenza, fatto di spezzoni, di montaggi e smontaggi imprevedibili. Senza arrivare agli eccessi destrutturanti del grammelot, la lingua delle giullarate di “Mistero buffo” è una lingua ctonia, piena di echi e risonanze, dove la miscela a base lombarda si confronta con altri dialetti italiani, ma anche con altre lingue e con una quota di inventiva fonica spesso slegata da una varietà di lingua o di dialetto ben definibile. Per venire ai giorni nostri, non c’è dubbio che la figura di commediografo più eminente a cavallo tra fine Novecento e inizio Duemila è quella di Giuseppe Manfridi, un autore poliedrico, in grado di trascorrere dai registri aulici della lingua fino al dialetto dei giovani di borgata. Manfridi è una figura di rilievo perché ripropone una visione alta del teatro, col pieno recupero della forza testimoniale della parola dopo la “sbornia” avanguardistica del secondo Novecento.