
L’italiano giuridico è un linguaggio specialistico, il che vuol dire che ha molte caratteristiche linguistiche peculiari (nel lessico, nella morfo-sintassi, nella testualità), spesso però familiari e note solo agli addetti ai lavori, non sempre ai cittadini che devono capire le leggi. Ancora di più la lingua amministrativa, che discende da quella giuridica, ha avuto e ha ancora caratteri di astrusità e oscurità tanto che negli anni ’70 è stato coniato un termine ad hoc per indicarla, burocratese. Ed è ben nota la parodia che negli anni ’60 fece Italo Calvino della lingua degli uffici, la “antilingua”.
Diritto e amministrazione sono costitutive della lingua italiana sin dai primi secoli del volgare?
Agli ambienti notarili attengono molte delle prime testimonianze in volgare: il notaio Atenolfo roga il Placito di Capua del 960 in cui si trova ripetuta quattro volte la nota formula volgare (Sao ko kelle terre…); postillato dalla mano di un notaio al corpo di un documento giuridico (con cui, forse, intrattiene un legame) è un testo eccentrico, la Postilla amiatina del 1087; al filone notarile appartiene un trittico marchigiano, significativo del XII secolo (la Carta osimana, la Carta fabrianese e la Carta picena), ecc..
Se ci si inoltra nel Duecento si potrà facilmente osservare l’infittirsi della produzione di documenti con valore giuridico, pubblici, semipubblici e privati e ciò anche grazie all’emergere del notariato pubblico insieme alla nuova organizzazione e partecipazione alla vita cittadina, a inedite pratiche di minutazione e registrazione dello scritto, alla riorganizzazione e al potenziamento delle cancellerie pubbliche, da quella pontificia a quella imperiale di Federico II.
I notai furono protagonisti della cultura volgare: come mai?
Ai notai medievali spetta un ruolo fondamentale nella storia della scrittura in volgare: fu proprio nel latino adoperato da notai in atti pubblici e privati che si andò diffondendo la registrazione di parole volgari o ricalcate sul volgare per poter indicare oggetti della vita quotidiana e materiale, confini di terre, suppellettili in dote, beni di possesso. Al notaio si ricorreva per un numero elevatissimo di transazioni anche di poca importanza e a lui spettava un ruolo di mediatore dal momento che, dovendo passare al volgare nella comunicazione con i clienti spesso digiuni di latino se non analfabeti, si trovava al centro di uno scambio costante tra latino e volgare: il notaio ascoltava i clienti in volgare e redigeva poi in latino l’atto, utilizzando parti fisse, formulari, soprattutto nella parte iniziale (protocollo) e finale (escatocollo), che venivano completate con i dati salienti (data, luogo, attori); nella parte libera dell’atto, destinata a indicare i termini della questione, il latino si increspava più facilmente sotto la pressione incalzante del volgare.
Sempre nel Suo testo, Ella esamina una grida della cancelleria dei Gonzaga: ci vengono in mente le gride di manzoniana memoria
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Giusto collegamento. Con le gride, spesso citate nei Promessi Sposi (si pensi all’avvocato Azzeccagarbugli che intrattiene Renzo rovistando tra le molte carte del suo studio), siamo nell’ambito di testi ufficiali offerti al pubblico. Alla signoria di Ludovico I Gonzaga (1369-1382), ma anche e soprattutto a quella del figlio e successore Francesco I (1382-1407), appartengono molti documenti ufficiali e semiufficiali, come le gride dirette alla popolazione, importanti per ricostruire il tipo di koinè in una delle più precoci realizzazioni. Nel volume mi soffermo e commento una grida del 29 luglio 1374.
Perchè fu esemplare la scelta dell’italiano da parte di Emanuele Filiberto di Savoia?
L’introduzione dell’italiano (in Piemonte) e del francese (in Valle d’Aosta e in Savoia) al posto del latino nell’uso giudiziario-processuale e negli atti dei notai fu una scelta netta messa in atto dal duca Emanuele Filiberto. Il Duca di Savoia intervenne, a partire dal 1560, con appositi provvedimenti in favore del volgare (è noto il precedente francese, cioè l’analoga determinazione di Francesco I che nell’ordinanza di Villers-Cotterêts del 1539 aveva introdotto una norma relativa all’uso del francese nei tribunali: gli atti di giustizia avrebbero dovuto essere in lingua materna francese).
Le motivazioni di Francesco I non erano diverse da quelle addotte nel 1560 e 1561 da Emanuele Filiberto relative alla necessità di chiarezza per evitare che i sudditi fossero ingannati o cadessero in errore. L’eccezionalità dei provvedimenti di Emanuele Filiberto di Savoia è stata da molto tempo e giustamente rilevata dagli storici del diritto, perché una tale scelta esplicita dell’italiano restò singolare e senza confronti fino alla promulgazione del codice napoleonico (1806).
Nel Suo testo Lei parla di koinè burocratica dopo l’Unità: cosa intende?
Mancando nel nuovo Regno uno strumento diffuso e omogeneo di comunicazione parlata che non fosse l’italiano dialettizzato o il dialetto italianizzato, l’italiano burocratico ha rappresentato una varietà di lingua nazionale particolarmente prestigiosa e diffusa in settori sempre più ampi della popolazione, un particolare italiano stereotipato, lontano dai canoni della tradizione letteraria e adottato come lingua franca anche nella comunicazione giornalistica. La pressione maggiore del linguaggio burocratico sulla stampa si registra nella cronaca cittadina, in cui il giornalista filtra i termini e le frasi stereotipate incontrate nei verbali della questura, nei bollettini ospedalieri, nei comunicati dell’amministrazione locale, affiancando molti tratti del suo italiano regionale, frasi idiomatiche, colloquialismi; da quel miscuglio nascerebbe il primo vero e proprio italiano unitario.
Quale diffusione ebbe l’italiano giuridico-amministrativo fuori d’Italia?
L’italiano fuori d’Italia (e di volgari italiani coloniali, ben riconoscibili nella loro provenienza regionale, come il veneziano de là da mar e il genovese) è ormai ben studiato; emerge anche una storia importante dell’italiano non solo come lingua di cultura e del commercio – il dato era già ben noto – ma anche come lingua veicolare e diplomatica almeno fino al secolo scorso nel Mediterraneo, nei Balcani e in oriente.
Sorprende il fatto che nell’abbondanza di studi storico-linguistici sia passato a lungo inosservato un pezzo di storia dell’italiano così vistoso, trascuratezza dovuta plausibilmente al dominio di alcuni paradigmi storiografici e culturali prevalenti, secondo uno dei quali l’Italia sarebbe stata caratterizzata a lungo, e in parte lo è ancora, da una straordinaria ricchezza e vitalità di dialetti e da un’esistenza dell’italiano prevalentemente scritto fino all’unità (soprattutto nella produzione letteraria e nella comunicazione intellettuale).
Nel Suo testo Ella dedica attenzione a quattro diverse aree geografiche: Malta, Eptaneso, Corsica e Svizzera, come mai?
Si tratta di casi esemplari e importanti di storie linguistiche in cui, per ragioni e vicende molto diverse, l’italiano è stato importante anche (ma non solo) per gli usi pubblici e istituzionali (e in Svizzera è ancora una delle lingue nazionali).
Quali scelte linguistiche fece il regime fascista?
Intanto il periodo fascista segnò una forte centralizzazione anche amministrativa dello stato. Durante il ventennio si moltiplicarono gli usi, anche al di fuori del circuito tecnico dei testi amministrativi e degli uffici, di formule stereotipate, di burocratismi e di stilemi propri dell’uso amministrativo.
L’ostracismo verso i forestierismi fu una delle scelte della politica linguistica di carattere xenofobo, della cosiddetta autarchia linguistica, formula con cui si intendeva l’eliminazione, più o meno graduale, delle parole straniere. Alla campagna fu preposta l’Accademia d’Italia negli anni finali del fascismo, non senza risvolti anche in àmbito amministrativo come fu con l’italianizzazione forzata di nomi dialettali e stranieri nella toponomastica, nel commercio e nelle insegne alberghiere e pubblicitarie, nelle scritte pubbliche e persino nell’onomastica cimiteriale, anche se la campagna si attenuò strada facendo.
Che ruolo riveste l’italiano nei testi della Comunità Europea?
L’italiano è anche lingua legislativa e amministrativa nella Comunità europea, dato l’obbligo di pubblicare in tutte le lingue ufficiali della Comunità i regolamenti, i testi e gli atti normativi (da ciò la creazione di un servizio di traduzione in ogni istituzione comunitaria). L’italiano come lingua comunitaria compare fin dalla nascita della Comunità Europea e quindi tutti gli atti normativi comunitari sono pubblicati in italiano, i deputati italiani del Parlamento europeo possono esprimersi in italiano e l’italiano è inoltre garantito in tutte le situazioni di comunicazione diretta tra le amministrazioni italiane e le istituzioni comunitarie; tuttavia all’interno di queste ultime, nella gestione amministrativa e nella redazione preliminare dei documenti, come lingue di lavoro sono utilizzate l’inglese e il francese. Il diritto comunitario basato sul principio del multilinguismo prevede un’intensa attività di traduzione (in cui l’italiano è lingua d’arrivo).
Qual è lo stato del processo di semplificazione dei testi per il cittadino?
Dopo un intenso periodo di proposte e interventi, iniziato nel 1993 con la pubblicazione del Codice di stile delle comunicazioni scritte ad uso delle amministrazioni pubbliche da parte del ministro Sabino Cassese, in cui per la prima volta in una prospettiva istituzionale si stabilisce lo stretto nesso fra democrazia e chiarezza del linguaggio, verso la metà degli anni 2000 gli interventi si sono fermati, anche per via dei tagli alla spesa pubblica. Una vicenda è emblematica: stata l’introduzione di un nuovo Codice di comportamento dei dipendenti pubblici, emanato con il Decreto del Presidente della Repubblica n. 62 del 16 aprile 2013 ed entrato in vigore il 19 giugno 2013 (a firma del ministro Patroni Griffi), che abroga la versione del 2000 e in particolare l’obbligo del dipendente pubblico alla chiarezza e alla comprensibilità del linguaggio. Basti dire che, nonostante il processo di semplificazione sia in sostanza ancora lontano dalla sua effettiva applicazione generalizzata, l’Agenda per la semplificazione 2015–2017, «Italia semplice», non contiene alcun riferimento al linguaggio!
Sergio Lubello è professore di Storia della lingua italiana e Linguistica italiana presso l’Università degli studi di Salerno