
È stato merito, per certi versi paradossalmente, delle discipline musicologiche e non di quelle linguistico-letterarie se nel secondo dopoguerra si è iniziato ad affrontare con attenzione e con sistematicità via via crescenti lo studio dei libretti. Da qui un progressivo interesse per le questioni filologiche che li riguardano e solo in ultima istanza (diciamo non prima degli anni Ottanta) si è manifestata un’attenzione più convinta da parte degli storici della lingua e della letteratura. Giunti alle soglie del nostro millennio si sono finalmente consolidati tutti questi interessi, che nell’ultimo ventennio hanno cercato talvolta – in qualche caso molto efficacemente, ma ancora in modo troppo occasionale – di interagire tra loro e di contaminarsi vicendevolmente. Questo, almeno, è il quadro italiano, quello a cui per la mia formazione e per le mie competenze faccio maggiormente riferimento; ma naturalmente non bisogna ignorare il più articolato panorama estero, in particolare tedesco ma anche statunitense e, forse in seconda battuta, francese.
Come si è evoluto il rapporto parole-musica nella storia del melodramma?
Il rapporto, a partire dalla nascita del genere oltre quattro secoli fa fino ai giorni nostri, è sempre stato all’insegna della dicotomia amore-odio, attrazione-repulsione, incontro-scontro, collaborazione-concorrenza. E non può che essere così: come per tutte le coppie che si rispettino e che si compongono da personalità forti e portatrici di specifici interessi e doti peculiari, l’armonia tra le parti non è data tanto da un perenne perfetto equilibrio (illusorio e irrealistico), quanto da una sempre nuova e più o meno precaria e più o meno imperfetta mediazione delle rispettive esigenze. Ogni generalizzazione rischia di essere troppo semplicistica e imprecisa, perché le eccezioni (positive e negative) sono naturalmente all’ordine del giorno, e in alcuni casi, quando si ha a che fare con gli autori massimi, un rapporto tra le due “arti sorelle” magari poco canonico e apparentemente sbilanciato in favore dell’una o dell’altra ha comunque portato alla realizzazione di grandi capolavori. Ad ogni modo, volendo schematizzare molto il percorso di interazione tra le parole e la musica nella storia del melodramma (preciso che mi riferirò per lo più al quadro italiano, o comunque “in italiano”, altrimenti il discorso si farebbe davvero troppo complesso ed eterogeneo), si può dire che inizialmente si trattava di una collaborazione paritaria: alla fondamentale componente sonora si voleva associare un testo verbale di sicuro pregio poetico, sul modello, se vogliamo, della tragedia greca.
Nel Settecento, complici anche la sensibilità razionalista e la più netta distinzione tra genere serio e genere buffo, la componente linguistica ha assunto spesso un’importanza maggiore in confronto a quella musicale: basti pensare ai noti casi di Metastasio (il quale considerava i propri libretti come opere letterarie anche autonome rispetto alla musica, tanto che alcuni di essi vennero rivestiti di note da molti e differenti compositori, a testimoniare la non univoca né necessaria corrispondenza tra le parole e la musica) e di Carlo Goldoni (non per nulla un genio del teatro di prosa felicemente “prestato” al melodramma). Ma già nella seconda metà di quel secolo accoppiate come quelle Mozart-Da Ponte e, soprattutto, Gluck-Calzabigi riportarono il genere ad una più stretta fusione delle sue componenti artistiche principali.
Per gran parte dell’Ottocento, mutato lo scenario socio-culturale-impresariale del teatro d’opera e soffiando impetuosi i venti del Romanticismo, si assiste invece ad una sostanziale preminenza della musica sulla parola: il nome che è impossibile tacere a questo riguardo è naturalmente quello di Giuseppe Verdi, estremamente esigente nei confronti dei suoi spesso sottomessi e non eccelsi librettisti, preciso e puntuale nelle richieste poetiche, arbitro supremo e definitivo dei propri (capo)lavori, e dunque a buon diritto considerabile co-autore dei libretti da lui musicati. Non per nulla siamo nei decenni in cui la produzione librettistica raggiunge forse il suo livello qualitativo più basso (almeno giudicandola secondo i canonici parametri poetico-letterari), servendosi di una lingua difficile, stereotipata, aulica, facile oggetto di critiche e parodie; ma non possiamo dimenticare e negare che talvolta proprio questi libretti così verbalmente astrusi e “brutti” costituiscono il supporto fondamentale e insostituibile delle più belle opere che ancora oggi ottengono ampio successo sui palcoscenici di tutto il mondo e destano in noi grandi emozioni. Gli ultimi decenni del diciannovesimo secolo vedono poi la ripresa di una cura anche letteraria del melodramma: in questa direzione sono stati fondamentali figure come quelle di Arrigo Boito e di Luigi Illica, ma dobbiamo anche tenere presente che la lingua italiana in quanto tale stava finalmente (per quanto ancora assai faticosamente e lentamente) diventando un codice non più solo letterario ma anche della comunicazione e dell’uso a livello nazionale.
Dopo la stagione pucciniana e dunque ormai in pieno Novecento si assiste ad una generale battuta d’arresto della produzione operistica, almeno se la si compara con le forme e con i livelli di apprezzamento toccati nei due secoli precedenti. Da quel momento in poi, e dunque arrivando fino a questi primi decenni del Duemila, non è possibile tracciare un quadro univoco del rapporto parole-musica: in qualche caso, a puro titolo chiarificatore, persiste una concezione tradizionale, più spesso le avanguardie scompongono gli elementi sonori e verbali per trarne effetti sperimentali ben lontani dal melodramma di repertorio, a volte (sul modello inaugurato da Wagner) la figura del compositore e quella del librettista coincidono, oppure si ricorre alla Literaturoper (quindi si usa come testo verbale una fonte letteraria non trasposta appositamente in libretto d’opera), oppure ancora si è ridata nuova vita al genere affine del melologo (e dunque alla parola recitata, e non cantata, accompagnata però dalla musica).
Quando nasce e come si è evoluta storicamente la librettistica?
Se per “librettistica” intende, com’è più corretto, il ‘genere letterario dei libretti d’opera lirica’, allora naturalmente possiamo dire che la sua nascita coincide con quella del genere melodrammatico stesso. Se invece si riferisce allo ‘studio dei libretti d’opera lirica’ (per entrambi i casi mi servo delle definizioni fornite dal Grande Dizionario Italiano dell’Uso di Tullio De Mauro) e quindi intende il sostantivo come sinonimo di “librettologia”, allora veniamo ad anni assai più recenti: come anticipavo rispondendo alla sua prima domanda, dobbiamo aspettare il secondo dopoguerra; e non è certo un caso se la parola stessa “librettologia” e il corradicale “librettologo” sembrano attestati nella nostra lingua solo a partire dagli anni Ottanta del Novecento. Certo è delicato e sdrucciolevole individuare delle primazie in questo senso, ma si può affermare che grandi maestri e promotori di questo genere di ricerche sono stati, ciascuno nel proprio campo, con qualche positiva apertura a discipline affini, studiosi del calibro di Lorenzo Bianconi, Gianfranco Folena, Albert Gier, Carl Dahlhaus, Luca Serianni, Daniela Goldin, Adriana Guarnieri Corazzol e via discorrendo, fino ad arrivare a nomi più recenti che hanno appunto contribuito al volume da noi curato.
In che modo la prospettiva musicologica e quelle storico-letteraria, linguistica e filologica interagiscono negli studi sulla librettistica?
Il fatto che la librettologia sia un ambito di studio ancora piuttosto recente e non ancora da tutti ben visto non consente di dare una risposta sicura e univoca a questa domanda. Mi permetto dunque di sostituire il suo indicativo “interagiscono” con un condizionale e dei modali: “potrebbero/dovrebbero interagire”. Questo non per negare l’ormai certa positività di un cammino avviato e dei risultati così raggiunti, ma per indicare che la strada da percorrere è sicuramente ancora molta e che dunque la fotografia della realtà attuale si fonde con gli auspici per il futuro. Purtroppo, ma lo dico senza vena polemica, solo per prendere atto in modo intellettualmente onesto e lucido dello stato di fatto da cui partire, per molto tempo le varie discipline implicate in questi studi si sono curate poco (vuoi per una prassi tradizionale accademica tipicamente italiana, vuoi per necessità, vuoi per scarsa lungimiranza, vuoi per timore, vuoi per ottusità) di aprirsi alla collaborazione con esperti delle altre competenze coinvolte, e anche adesso non è affatto infrequente imbattersi in qualche resistenza in tal senso. Ma si tratta di comprendere che un genere così ricco, complesso e artisticamente variegato come quello dell’opera lirica non può che giovarsi di un approccio scientifico interdisciplinare: certo senza indebite “invasioni di campo”, apportando ciascuno il proprio contributo più avanzato e specifico, ricercando il punto più alto possibile di mediazione negli aspetti che inevitabilmente (ma non per forza negativamente) si sovrappongono. Pensiamo a come tutte le componenti in gioco possono aiutare a ricostruire la volontà degli autori (siano essi i compositori o i librettisti), a inquadrarle nel contesto socio-culturale in cui ogni opera ha visto la luce, a comprendere su quali fonti dirette e indirette si è basata la creazione di un melodramma; e, di conseguenza, a come tutto ciò può essere oggi restituito ad esempio a beneficio degli interpreti e degli spettatori contemporanei.
Quali problemi solleva il rapporto tra il testo presente nella fonte musicale principale e quello tramandato a partire dalla fonte principale letteraria?
Questo argomento si ricollega proprio a quanto dicevo poco fa. La complessa questione connessa alla tradizione dei testi (da intendersi qui come partitura, come libretto, ma anche come esecuzione degli stessi in palcoscenico o nel golfo mistico), che coinvolge anche secoli in cui non esisteva il diritto d’autore, dove l’attuale sensibilità filologica non era all’ordine del giorno, dove l’editoria musicale e il mondo teatral-impresariale erano soggetti a regole e a criteri assai diversi dagli attuali, dove la fruizione degli spettacoli avveniva con modalità per noi oggi quasi impensabili, non può essere né ignorata né risolta una volta per tutte. Sta proprio all’interazione e al dialogo tra le varie discipline coinvolte condurre le ricerche adeguate e produrre gli strumenti necessari che consentano poi di avere il quadro più completo e chiaro possibile e infine di praticare la scelta editoriale o esecutiva che si ritiene di volta in volta più adeguata e, si auspica, che sia il più conforme possibile agli intendimenti originari degli autori (il che non va minimamente a discapito della necessaria e fisiologica interpretazione personale sempre nuova di questi lavori).
Quali prospettive per le discipline coinvolte nel campo della librettistica?
Diciamo che la direzione sperabile è proprio una conseguenza di quanto stavo dicendo. Provo a spiegarmi ricorrendo a qualche esempio concreto. Anzitutto, per rimanere in un ambito più strettamente accademico, gli studi librettologici interdisciplinari sono essenziali per produrre edizioni critiche e commenti dei testi (sia quello verbale sia quello musicale) che sappiano distinguere e interpretare adeguatamente che cosa è scaturito dalla penna degli autori e che cosa è andato modificandosi e sedimentandosi in fasi successive. In secondo luogo sarebbe secondo me opportuno se non addirittura necessario che almeno le competenze di base delle discipline coinvolte venissero sistematicamente trasmesse a tutti coloro, ancora in formazione o già in carriera, che sono oggi chiamati a rendere perennemente viva l’opera lirica: direttori d’orchestra, cantanti, registi e via discorrendo (pensiamo, banalmente, a quanti di essi magari ancora oggi non sono in grado di formulare una corretta parafrasi dei libretti primottocenteschi, e non mi riferisco solo a individui stranieri e non italofoni!). Un più completo e più variegato bagaglio di conoscenze, da incrementare in una formazione permanente attraverso conservatori, accademie, teatri e agenzie, consentirebbe a tutti questi artisti di sviluppare un più raffinato e consapevole senso critico che li guiderebbe al meglio nelle proprie scelte interpretative ed esecutive. O ancora, quale versione del libretto (ma anche della partitura o della riduzione per canto e pianoforte) fornire nei programmi di sala dei teatri, e in che veste tipografica, o quale commercializzare da parte degli editori? Come vede, le prospettive non mancano affatto; bisogna “solo” che le persone, le istituzioni e gli enti coinvolti abbiano la determinazione e la convinzione, oltre agli opportuni mezzi, di spingersi in questa direzione.
Edoardo Buroni è Ricercatore di Linguistica italiana all’Università degli Studi di Milano, dove insegna Lingua italiana e comunicazione. Tra i suoi interessi di ricerca si segnalano l’italiano lingua per musica (nel melodramma e nella canzone), la comunicazione politica, la lingua della Chiesa, la lessicografia e la lingua dei mass media. Per alcuni anni ha studiato pianoforte e canto, sostenendo i relativi esami in Conservatorio. È impegnato in attività di formazione dei giovani e in ambito civile; ha inoltre collaborato o tuttora collabora con editori quali Rizzoli e ITL Libri.