
Quando e come nasce la videoarte?
La videoarte nasce di fatto alla fine degli anni Cinquanta del Novecento con lo spostamento dell’oggetto televisore dalla casa alle gallerie d’arte. Il monitor è stato anche protagonista di sculture in cui il televisore veniva modificato o in cui veniva incorporato. Wolf Vostell lo ha collocato dietro le sue tele di pittura che, squarciate, lasciavano intravedere la vibrazione luminosa delle immagini televisive, già nel 1958; Nam June Paik ha alterato i segnali TV esponendo, nel 1963, una serie di monitor che trasmettevano immagini astratte o disturbate. In seguito altri artisti hanno usato i monitor (e poi le proiezioni) in modi anomali e creativi, alterando la funzione informativa e di intrattenimento della TV con valenze ora giocose ora di denuncia. Tutto questo ha a che fare sia con la ricerca di nuovi materiali artistici che caratterizza sempre l’arte ma che nel corso del Novecento vede l’uso di cemento, plastica, neon, iuta e così via, sia con la pratica della decontestualizzazione degli oggetti d’uso domestico (il “ready made” di Duchamp), sia con le esperienze museali innovative che propongono nuovi modi di esporre le opere. I monitor del resto venivano esposti in modo eretico: lo schermo rivolto verso l’alto, verso il muro, appoggiati sul lato più corto, appesi al soffitto ecc.
Dopo queste prime esperienze “installative” (in cui la TV era usata con i programmi consueti, alterati o meno dagli artisti) si è potuto iniziare a fare video in modo autonomo; questo accade intorno alla metà degli anni Sessanta del Novecento, quando alcune industrie giapponesi immettono sul mercato le attrezzature (prima riservate solo agli studi televisivi) per riprendere e registrare in video. Chi già usava la pellicola scopre l’economicità, l’immediatezza e le lunghe durate consentite dal nastro magnetico, e gli artisti scoprono il carattere fluido e metamorfico dell’immagine elettronica, che consente astrazioni ed effetti impensabili (o molto complicati) in cinema. Alle esperienze installative si aggiunge quindi una quantità di video monocanale, di singole opere insomma non concepite per essere “installate” ed esposte in gallerie d’arte ma per funzionare su piccolo schermo in modo autonomo. All’epoca le videoproiezioni non c’erano, i video si potevano vedere solo su schermo TV e anche nei primi festival venivano presentati con questa modalità. Da precisare comunque che, con la diffusione delle videocamere, anche per le videoinstallazioni gli artisti potevano finalmente inserire proprie creazioni originali nelle “scatole luminose” che esponevano, invece di usare solo le immagini trasmesse dalla TV quotidiana, alterate o meno.
Quali percorsi ne hanno segnato l’evoluzione storica e artistica?
Nel mio libro prendo come modello la mostra di Nam June Paik “Exposition of Music. Electronic Television Revisited” (1963, Galleria Parnass di Wuppertal, Germania), considerata come inizio della videoarte, anche se come ho detto le origini sono precedenti. Quella mostra già conteneva elementi caratterizzanti per l’intero percorso di quest’arte: la scoperta della natura metamorfica dell’immagine elettronica; la ricerca di modalità espositive nuove; la dimensione partecipativa, l’interattività, allora non digitale ma artigianalmente inventiva; l’elemento ludico; l’importanza dell’esperienza, che prevale sulla proposta di opere compiute e di prodotti; il riferimento a tecnologie d’avanguardia, seppure spesso in dialogo con oggetti e spazi tradizionali; l’intreccio e l’incrocio delle arti e dei media, innanzitutto musica ma anche scultura e pittura, e televisione ovviamente. Anche la dimensione performativa ha il suo spazio, con l’intervento degli spettatori che diventano attivi e mobili. In tutto questo ha un peso l’esperienza del movimento “Fluxus”, a cui Paik faceva riferimento, come anche Wolf Vostell (ritenuti i pionieri della videoarte) e in generale le poetiche delle avanguardie novecentesche. Pesa anche, come nel caso dell’artista francese Robert Cahen, uno dei pionieri europei del video, l’esperienza della musica concreta.
I percorsi, come in tutte le arti, sono i più diversi. Gli anni Settanta sono stati caratterizzati dall’uso del tempo reale (che distingue la TV dal cinema) per esperienze performative in circuito chiuso, ma anche dall’esplorazione del ventaglio di effetti e di metamorfosi consentiti dall’immagine elettronica. Suddivisione dello schermo, effetti di intarsio, interventi sul colore e sulle forme ma anche, nelle installazioni, vertiginose combinazioni con l’inclusione del visitatore negli allestimenti, effetti speculari e di differimento e paradosso temporale, effetti di ripetizione (loop). Una fase fortemente sperimentale, ora impegnata ora giocosa, che ha consentito di conoscere e far conoscere le caratteristiche del nuovo medium e della nuova arte.
Gli anni Ottanta vedono un dialogo con le televisioni (che in quegli anni fra l’altro cercavano nuove strade, anche alla luce della concorrenza con le private, come in Europa) e quindi una dimensione meno astratta, con la sperimentazione di “narratività” intrecciate a una dimensione inventiva, anche dal punto di vista formale. Nascono nuovi generi che fanno dialogare forme tradizionali con la nuova arte: il video-teatro, la video-danza, la video-poesia, il documentario di creazione. Nel mio libro cerco di dimostrare come la televisione, spesso indicata “in opposizione” alla videoarte, sia stata invece un riferimento importante da molti punti di vista: pur se ha ospitato e trasmesso solo sporadicamente le opere di videoarte è stata la sede di storiche e pionieristiche esperienze videoartistiche e al suo interno (esempi in particolare da Stati Uniti e Francia) hanno operato straordinari autori che hanno saputo usare al meglio le risorse dell’immagine e del suono.
Poi arriva il digitale e dagli anni Novanta il panorama si evolve ulteriormente, anche per le agevolazioni tecniche nella ripresa e soprattutto nel montaggio; e il digitale consente lo sviluppo di interattività anche in campo artistico. Inizia una stagione che vede vari gruppi cimentarsi con ambienti interattivi (o “sensibili”, come li definisce il gruppo italiano “Studio Azzurro”), percorsi multimediali, ambienti immersivi, ideazione di musei innovativi. Anche in questo campo, oggi assai diffuso, quella che ho chiamato “la lezione della videoarte” si dimostra feconda: le ricerche e le sperimentazioni degli artisti hanno anticipato le modalità di presentazione, le nuove posture dello spettatore-visitatore-utente, un’idea di conoscenza coniugata con una diversa idea di “spettacolarità”.
In che modo la videoarte ha indicato nuove strade per parole e musica, rielaborato il teatro e la pittura e ripensato la TV?
Nei miei libri precedenti e in particolare in Visioni elettroniche (Marsilio-Scuola Nazionale di Cinema, Venezia-Roma 2001) ho analizzato diffusamente questi rapporti, sintetizzati poi ne Il linguaggio del video (Carocci, 2005). Per la parola, in generale la videoarte mette in discussione lo strapotere di dialoghi e parole del cinema classico e della televisione, preferendo ricorrere all’uso di rumori e di musica o a una parola poetica, trasformata ed evocativa. Il teatro è stato rivisitato utilizzando scenografie virtuali, intarsi e metamorfosi, o (anche dal vivo) con l’uso di fondali elettronici e di dispositivi in circuito chiuso e con tutta una gamma di effetti; e così la danza, di cui viene alterata, spesso, la dimensione temporale. Il rapporto con la pittura è evidente nella ricerca cromatica, nei ritocchi “in diretta”, nelle frequenti citazioni e prelievi dal corpus della storia dell’arte e anche nelle sempre più numerose animazioni grafiche e pittoriche. Della TV ho detto sopra: in generale, la videoarte si è posta come “una TV che non c’è” ma che potrebbe esserci, se desse più spazio alla sperimentazione invece di copiare la radio, il teatro, il cinema.
Infine, non va mai trascurata la relazione della videoarte con il cinema d’avanguardia, sperimentale, underground; ma anche con certo cinema d’autore e d’artista e con i grandi autori d’animazione.
Quali sono gli esponenti più significativi e gli aspetti più vitali?
Ogni volta che azzardo un elenco di questo tipo mi rendo conto con rammarico, e quando ormai è tardi, di aver dimenticato qualcuno. Rimando alla voce VIDEO-VIDEOARTE che ho scritto nel 2015 per l’Enciclopedia Treccani per una breve ricognizione di questo tipo. Purtroppo molti pionieri sono scomparsi negli ultimi anni; alcuni sono diventati artisti molto apprezzati e conosciuti (faccio solo l’esempio di Bill Viola) e hanno consentito di far conoscere la videoarte a un pubblico più vasto di quello dei primi decenni.
Gli aspetti più vitali sono quelli che, come cerco di mostrare nel mio ultimo libro, si sono diffusi (o potrebbero diffondersi) nel panorama mediatico odierno: innovazioni di linguaggio, dialogo creativo con la tecnologia, infrazioni narrative, proposte di una nuova spettacolarità in senso conoscitivo. Ma gli aspetti vitali sono anche quelli delle profonde innovazioni che da molti decenni la videoarte propone: lotta agli stereotipi mediatici e agli automatismi narrativi, riscatto della meraviglia dello sguardo e delle sorprese sonore e visive, conquista di nuove temporalità e invenzione di spazi vertiginosi o improbabili, ricerca di nuovi modi di conoscere artisticamente. I classici della videoarte sono in questo senso ancora freschi e ricchi di profondità.
Quale lezione artistica e di conoscenza ci offre la videoarte?
In gran parte ho già risposto prima. La lezione è quella che ogni tipo di arte ci propone: modalità diverse di comprensione del mondo. In questo caso, attuate con le tecnologie del nostro tempo, usate con una ricerca meditata di linguaggi e anche di tematiche, fino a quelle sociali e fino alla riconquista di una dimensione collettiva e attrattiva che è stata del pre-cinema e del cinema: si pensi alle odierne esperienze di video-mapping, le grandi proiezioni su edifici, declinate in senso artistico e innovativo.
Quali domande restano aperte?
Molte: lo spazio di queste opere nelle televisioni; la loro circolazione ma anche modificazione nella rete, grande amplificatrice ma anche grande livellatrice di prodotti; il destino dei festival, per decenni veicolo di visione e discussione di questi lavori e ora generalmente in crisi; lo strapotere di un sistema mediatico e culturale in cui la dimensione poetica, la riflessione, la conoscenza, sembrano avere uno spazio inadeguato o inesistente.
Quale futuro per la videoarte?
Credo che la videoarte si stia trasformando e che il suo futuro sia già “presente” nei modi in cui sa infiltrarsi nel panorama mediatico odierno, panorama che per alcuni aspetti ha intuito e anticipato fin dalle origini. Ma penso che il suo futuro, nello stesso tempo, sia in qualche modo garantito dal suo passato: dalla sua irriducibilità, dal suo rivendicare una alterità irriverente, indisciplinata, eretica. Due tensioni diverse, in contraddizione e in gioco, come è sempre accaduto, in fondo, per quest’arte basata sul movimento e sull’incessante metamorfosi.
Sandra Lischi si è laureata nel 1973 con una tesi sul video all’Università di Pisa, dove insegna Storia della radio, della TV e delle arti elettroniche e Teorie della TV, della videoarte e del multimediale. Le sue ricerche vertono in particolare sulla videoarte, il cinema sperimentale, le mutazioni del panorama mediatico. Ha pubblicato monografie, saggi in volume, articoli, e curato libri e cataloghi. Ha tenuto conferenze e seminari in vari paesi europei ed extra-europei e ha ideato iniziative, mostre e rassegne, collaborando anche ad attività realizzative. Codirige a Milano il Festival INVIDEO (attivo dal 1990) e ha ideato e coordina a Pisa le iniziative dell’Associazione ONDAVIDEO-Suoni e immagini del futuro (dal 1985).