“La lettura nel mondo ellenistico” di Lucio Del Corso

Prof. Lucio Del Corso, Lei è autore del libro La lettura nel mondo ellenistico edito da Laterza: quale diffusione aveva la pratica della lettura in epoca ellenistica?
La lettura nel mondo ellenistico, Lucio Del CorsoDipende da che cosa si intende con lettura. L’alfabetismo, nel mondo greco, era un fenomeno stratificato: si poteva andare da una conoscenza delle lettere funzionale allo svolgimento di poche operazioni essenziali (apporre la propria firma, ad esempio), fino ai livelli più raffinati della conoscenza della retorica, culmine di un curriculum di studi pluriennale. Al tempo stesso, le città greche, grandi e piccole, erano ricchissime di scrittura, talvolta esibita nella forma monumentale delle iscrizioni pubbliche, talvolta limitata a notazioni commerciali e di servizio, apposte su oggetti di ogni sorta. ‘Scritture esposte’ e ‘scritture quotidiane’ (per riprendere una categoria, ‘everyday writings’, ben studiata nel libro recente di un grande papirologo, Roger Bagnall) costituivano una galassia di segni in cui ogni cittadino, colto o meno, era immerso e che era intesa per essere, almeno in parte, decifrata e compresa, se non da tutti, da molti. Anche individui scarsamente alfabetizzati non potevano far a meno delle informazioni veicolate mediante la scrittura. L’atteggiamento ‘riduzionista’, caratteristico di molti studi sulla diffusione dell’alfabetismo e delle pratiche di lettura nel mondo greco-romano (penso ad esempio all’opera comunque fondamentale di William Harris, Ancient Literacy, Harvard 1989, pubblicato in italiano con il titolo Libro lettura e istruzione nel mondo antico, Roma-Bari 1991), non tiene conto di questa situazione di fatto, che peraltro diviene sempre più evidente con il progredire degli scavi archeologici, specialmente in Egitto, grazie ai quali vengono costantemente rinvenute migliaia di testimonianze scritte, sui materiali più diversi.

La lettura di un’opera letteraria era un’altra cosa, specialmente se pensiamo alla lettura ‘retoricamente avveduta’, come quella descritta all’inizio del manuale di grammatica attribuito a Dionisio Trace, uno dei più fortunati dell’antichità. Questo modo attento e consapevole di leggere era riservato a pochi, solitamente appartenenti agli strati più elevati della società, che avevano potuto seguire un corso di studi completo. Ma anche quando si considera la diffusione della cultura letteraria le sfumature sono essenziali. Per insegnare a leggere e scrivere i maestri antichi si basavano molto sui testi letterari della tradizione ‘classica’, e in primo luogo su Omero. Imparare a memoria passi dall’Iliade o dall’Odissea, o selezioni di versi particolarmente moraleggianti di Euripide o Menandro era una delle prime attività con cui dovevano cimentarsi gli studenti sin da tenera età. Questo vuol dire che bastava aver frequentato anche solo i primi livelli del curriculum scolastico per entrare in contatto con la grande letteratura del passato ed essere costretti a ricordare selezioni di versi più o meno ampie. Tutti costoro erano in grado di leggere opere letterarie anche in età adulta, pur senza apprezzarne ogni sfumatura. E naturalmente, bastava arrivare al ‘secondo livello’, alla scuola del grammatico, per essere imbevuti di conoscenze letterarie, perché quasi tutto il percorso didattico finiva con il ruotare attorno alla letteratura del passato.

Molti di questi individui, usciti da scuola per così dire, si dedicavano ad attività che richiedevano quotidianamente l’utilizzo della scrittura, come ad esempio accadeva agli innumerevoli funzionari che tenevano in moto la macchina burocratica dei regni ellenistici (ancora una volta, le informazioni in nostro possesso, grazie ai papiri, sono relative soprattutto all’Egitto, ma possiamo immaginare che situazioni analoghe fossero diffuse in gran parte del mondo raggiunto dall’ellenizzazione). Tutti costoro leggevano e traevano diletto dalla lettura di opere letterarie. Non sempre capivano tutto, non sempre avevano ricche biblioteche a disposizione, ma leggevano. In Egitto, per uno dei tanti paradossi della storia, i rotoli degli eruditi, i leggendari libri religiosamente conservati in biblioteche accessibili a pochi come quella di Alessandria, sono andati per lo più perduti. Sono sopravvissuti, invece, molti frammenti dei rotoli modesti appartenuti a questi ‘lettori comuni’ (per citare stavolta Virginia Wolf), con i quali la nostra civiltà ha un debito incredibile: senza di loro la nostra conoscenza della letteratura degli antichi sarebbe molto più povera.

Come avveniva l’apprendimento della lettura?
Il metodo seguito era molto diverso da quello odierno. Per prima cosa, si imparavano le lettere, partendo dalla scrittura di sequenze alfabetiche e del proprio nome e arrivando in breve alla trascrizione di brevi passi letterari, di solito di contenuto moraleggiante, come ad esempio le gnomai, le sentenze attribuite a Menandro. Non importava che il discente non comprendesse cosa faceva: contava solo impratichirsi con lettere e sillabe, anche se a noi questo approccio può sembrare strano. Si cominciava a leggere in un secondo momento. In questa seconda fase, la prima cosa era acquisire una grande padronanza con le sillabe: lo studente doveva imparare tutte le possibili combinazioni, incluse sequenze di lettere poco frequenti o addirittura impossibili. Per farlo, i maestri usavano dei modelli, spesso scritti di loro pugno anche su supporti ‘improvvisati’, come i resti di vasellame non più utilizzato (quelli che i papirologi chiamano ‘ostraka’: un materiale scrittorio usato non solo per esigenze didattiche, ma anche per una varietà di altri scopi che potevano includere persino la stesura di ricevute di tasse appena pagate…). Dopo le sillabe si passava a liste di parole sillabate, di lunghezza crescente (bisillabi, trisillabi, quadrisillabi…), e poi a brani interi, sempre più lunghi. Questa mole di testi non aveva niente a che fare con la lingua quotidiana: le convenzioni scolastiche si basavano integralmente o quasi sulla letteratura del passato, così che da subito gli studenti erano posti di fronte a termini inconsueti ed entravano in contatto, anche solo superficialmente, con Omero e con gli altri ‘classici’. La distanza linguistica doveva rendere molto faticoso il processo di apprendimento della lettura e ad accrescere la difficoltà, per gli studenti antichi, subentrava un altro fattore, connesso con una caratteristica strutturale del libro greco (per molti secoli nella forma del rotolo di papiro): la scriptio continua, ossia la mancanza di separazione tra le parole. Per leggere in modo fluido, dunque, era necessario che l’occhio si abituasse a distinguere i confini corretti delle diverse parole, un compito che poteva essere agevolato, oltre che dall’aggiunta sporadica di segni come i moderni spiriti e accenti (introdotti sistematicamente solo molto più tardi, in età bizantina, intorno al IX secolo d.C.), dall’uso della voce.

Quali erano le modalità di lettura più diffuse nel mondo ellenistico e quale ruolo aveva la voce?
Come stavo dicendo, la voce era un aiuto prezioso per il lettore, che si trovava di fronte a una selva di lettere indistinte: in questi casi, ricorrere alla voce diventa una reazione quasi istintiva, è un modo per rendere più semplice il processo di decifrazione del testo. Nel mondo greco, tuttavia, l’apporto della voce non era solo un fatto strumentale, ma aveva una funzione strutturale, legata alla natura del sistema di fruizione delle opere letterarie, in cui la componente sonora, ‘aurale’, rivestiva, in tutte le epoche un grande rilievo. La voce, dunque, entrava in azione, in qualche modo, in tutte le modalità di lettura.

Il mondo ellenistico eredita e sviluppa situazioni di fruizione di un testo già emerse nel corso dell’età classica. Leggere poteva essere una buona forma di intrattenimento per un gruppo di amici dopo un momento conviviale (e in età ellenistica e imperiale non mancavano veri e propri manuali di istruzioni che fornivano indicazioni sulle opere più adatte, se uno non voleva abbandonarsi alla volgarità o a storielle licenziose e al tempo stesso voleva evitare di rendere la digestione troppo complicata, come ammoniva nientemento che il grande Plutarco). A un livello superiore, leggere insieme poteva essere un modo per avviare ragionamenti collettivi su un’opera nuova o, in generale, su testi di particolare interesse: riferimenti a vere proprie ‘cerchie’, entro cui la lettura e l’analisi di un’opera si accompagnava a riflessioni di carattere generale, si ritrovano nelle fonti a partire almeno dal IV secolo a.C. (ad esempio in Platone e in Isocrate). Queste cerchie ante litteram rivestivano un ruolo importante anche nel processo di pubblicazione di un testo: la lettura di un’opera nuova di fronte a un gruppo scelto di persone rappresentava una forma di revisione del testo di primaria importanza, preliminare a una sua più ampia diffusione.

Si poteva, naturalmente, ‘leggere in pubblico’ una propria opera, eventualmente in occasioni in cui la cittadinanza era chiamata a riunirsi per altri motivi (una festa, ad esempio): questo, oltre a una forma di autopromozione, poteva essere un modo per ribadire la proprietà intellettuale dell’opera ed evitare forme di plagio, un rischio comune, contro il quale gli autori antichi erano per lo più impotenti.

E, infine, si poteva leggere da soli. La lettura individuale non nasce in età ellenistica: diverse testimonianze mostrano che già nei secoli precedenti, nell’Atene classica ad esempio, era diffusa l’idea di godere singolarmente del piacere della lettura. In età ellenistica, tuttavia, questa forma di fruizione del testo diventa più frequente, come conseguenza anche dell’insorgere di un nuovo rapporto tra libro e lettore. Anche la lettura individuale, tuttavia, si svolgeva spesso con l’aiuto della voce, specialmente per poter apprezzare la componente sonora di un testo, che era sempre un fattore di godimento estetico cui l’uomo greco attribuiva una grande importanza.

Quali spazi erano riservati alla lettura individuale?
La lettura individuale era traguardata tanto allo studio quanto al tempo libero. Si poteva leggere, dunque, in momenti diversi della giornata, e non necessariamente in spazi concepiti appositamente per questa attività o stanze appartate, ma in porticati, giardini, o persino all’aperto. ‘Sale di lettura’ specifiche non esistevano nemmeno nelle grandi biblioteche ellenistiche, come quelle di Alessandria o di Pergamo: la biblioteca era intesa, di fatto, come un deposito di libri, circondato da porticati ed esedre, entro i quali si svolgevano la maggior parte delle attività di studio, e a cui era annessa una grande sala, un oikos destinato a riunioni, cerimonie, pasti in comune, e solo marginalmente ad ospitare i lettori.

Un momento privilegiato per la lettura individuale era la notte. Grandi intellettuali, uomini politici e semplici appassionati amavano leggere prima di dormire. Dionigi d’Alicarnasso racconta che Arcesilao di Pitane, un grande filosofo, non riusciva a prendere sonno se non leggeva un po’ di Omero ogni sera. A un livello inferiore, Luciano racconta invece di un parvenu che aveva fatto di tutto per acquistare la lucerna di Epitteto, un altro grande filosofo, sperando che potesse illuminare i suoi libri e la sua mente. Qualunque fosse il livello culturale dei lettori, le ore notturne, quando era più facile astrarsi dal tran tran delle attività di ogni giorno, potevano rappresentare per loro uno spazio di libertà intellettuale irrinunciabile.

Come era organizzata la lettura in gruppo?
Non c’erano regole fisse e molto dipendeva dal contesto e dalla finalità della lettura. Un gruppo di commensali poteva alternare canti e letture nel simposio con cui terminavano i pasti speciali. Queste letture riguardavano gli argomenti più diversi: storie avventurose, aneddoti relativi a grandi personaggi del passato (Alessandro Magno o qualsiasi grande protagonista della storia ateniese, ad esempio), oppure composizioni poetiche, tra cui non mancavano brani tratti da commedie o tragedie (con una preferenza rispettivamente per Menandro ed Euripide). Oppure, a seconda dell’atmosfera, potevano figurare composizioni più salaci, a volte cariche di doppi sensi e riferimenti sessuali. Un esempio dell’eterogeneità di queste letture ci viene offerto da alcune ‘antologie simposiali’ trovare in Egitto, ossia da papiri su cui erano annotati estratti e brevi testi copiati e raccolti insieme proprio per essere letti durante questo tipo di occasioni, come mostrano vari elementi, tra cui il tipo speciale di impaginazione utilizzata, concepita per consentire ai diversi lettori di seguire senza troppi problemi l’alternanza dei brani. Due esempi molto suggestivi sono stati trovati nella cittadina di Tebtynis, nella regione egiziana del Fayum, anche se probabilmente erano stati scritti in un altro centro, Kerkeosiris (i libri, oggi come ieri, seguono spesso itinerari imprevedibili). Contenevano la stessa selezione di brani, ma in ordine diverso; e questi brani passavano appunto da delicate canzoncine con tinte bucoliche a una raccolta di barzellette oscene. Possiamo immaginare una situazione in cui qualcuno (evidentemente l’anfitrione, il padrone di casa) ‘guidava’ il simposio, scandendo i tempi dei diversi intrattenimenti, e, a seconda delle necessità libretti di quel tipo venivano fatti passare di mano in mano tra i diversi commensali.

Era possibile anche leggere in gruppo un testo indipendentemente da intrattenimenti simposiali. Molti libri rinvenuti in Egitto potrebbero nascere proprio per rispondere ad esigenze culturali di questo tipo: i celebri rotoli della Costituzione degli Ateniesi, ora alla British Library, scritti da quattro mani diverse coordinate tra loro, potrebbero essere il frutto di pratiche intellettuali svolte all’interno di una piccola cerchia, che in questo modo provvedeva ai testi di cui aveva bisogno.

Altra cosa era la lettura in gruppo all’interno di una scuola e sotto la guida di un retore, un filosofo o in generale un maestro di alto rango. In questo caso, il rapporto con il testo era molto più stretto e il suo esame traguardato a comprenderne accuratamente tutte le caratteristiche. Per questo, era necessario partire da una ‘lettura performativa’, da cui emergessero con chiarezza tutti gli elementi stilistici dell’opera scelta. A volte, nelle cerchie più altolocate, si ricorreva a un anagnostes, un ‘lettore’ specializzato; altre volte a leggere poteva essere uno dei membri del gruppo, o il suo leader. Il testo, poi, veniva ulteriormente esaminato, i presenti cominciavano a interrogarsi sulle sue caratteristiche e discuterlo, se necessario si tornava a rileggere pericopi particolarmente interessanti o ancora oscure. Doveva trattarsi di un’operazione attenta e appassionante, un vero e proprio ‘corpo a corpo’ con gli autori antichi.

Che ruolo rivestiva la lettura nelle scuole filosofiche?
Nelle scuole filosofiche sorte in età ellenistica, la lettura aveva un ruolo fondamentale. La conoscenza integrale degli scritti dello scolarca era uno dei presupposti per svolgere il proprio percorso di formazione: un aspirante epicureo non poteva non conoscere l’opera Sulla natura di Epicuro ed è difficile immaginare uno studente dell’Accademia che non fosse perfettamente familiare con i dialoghi di Platone. Ma c’era qualcosa di più profondo. Quando un filosofo raggiungeva i suoi discepoli e faceva lezione, il punto di partenza era sempre un testo, per lo più tratto dal bagaglio degli scritti fondanti della scuola di riferimento ma non necessariamente. Non a caso, le fonti utilizzano in diverse circostanze, per indicare questa attività, il termine synanagnosis, ‘lettura collettiva’. In questo caso, il filosofo non si limitava a commentare alla lettera il passo scelto, ma partiva da lì per svolgere sue considerazioni originali sulle tematiche più diverse. Proprio per questo, era preferibile che, prima della lezione, gli allievi più giovani avessero già acquisito una certa pratica con il passo che avrebbero affrontato con il maestro: Epitteto, ad esempio, fa riferimento esplicito ad ‘esercizi preparatori’ che i suoi studenti dovevano svolgere prima di partecipare alla synanagnosis. Fonti di età imperiale lasciano pensare che questa preparazione alla lettura fosse affidata ad assistenti o allievi più avanzati, ma le testimonianze a nostra disposizione non sono moltissime. Purtroppo, molti aspetti delle routine didattiche effettive, nelle scuole greche di ogni ordine e grado, sono destinati a rimanere fluttuanti.

In che modo la testimonianza di Galeno ci illustra come avvenivano la lettura e l’insegnamento della medicina?
Galeno non era solo un grandissimo medico, ma un intellettuale completo e un fiero bibliomane. Oltre ai trattati medici, sono sopravvissuti alcuni trattatelli concepiti come una sorta di catalogo ragionato delle opere che aveva composto, con l’intenzione di proteggere i lettori da falsi e apocrifi. Inoltre, qualche anno fa è stato trovato, in un manoscritto conservato nel monastero di Vlatadon, sull’Athos, una copia di uno scritto fino ad allora perduto, il De indolentia: una sorta di ‘consolazione filosofica’, in cui Galeno, nell’ambito di considerazioni sull’importanza di resistere coraggiosamente ai rovesci della fortuna, illustra la sua sterminata raccolta di libri, andata quasi del tutto in fumo durante un incendio divampato a Roma, dove viveva, nel 192 d.C. Tutte queste opere rappresentano una miniera di informazioni per chi si occupa della storia del libro e della cultura antica. Galeno, inoltre, non esita ad aggiungere, anche in trattati di argomento più squisitamente medico, aneddoti e notizie sulla vita culturale antica di estremo interesse: è a lui che dobbiamo, ad esempio, la notizia dell’arrivo ad Alessandria, sotto Tolomeo II, dell’edizione ‘ufficiale’ dei tragici greci prima custodita ad Atene. L’opera di Galeno, insomma, è un mare magnum da cui è possibile desumere informazioni che non riguardano solo la storia della medicina, ma abbracciano un orizzonte culturale molto più ampio.

Un bibliomane suo pari non poteva che attribuire un grande rilievo alla cultura letteraria nella formazione dell’individuo e, in particolare, del medico. Potremmo dire che acquisire effettive competenze mediche, per Galeno, è impossibile senza un’adeguata visione filosofica, per la quale la lettura e lo studio sono indispensabili. Sotto il profilo più squisitamente clinico, inoltre, Galeno attribuisce un enorme valore alla conoscenza degli scritti dei suoi predecessori: non a caso, buona parte del suo lavoro letterario è consistito nel fornire commenti di impressionante rigore e dettaglio ad opere del ‘padre’ della medicina greca, Ippocrate. Al tempo stesso, come apprendiamo dal De indolentia, Galeno riteneva fondamentale la consultazione di testi, per così dire, ‘pratici’, in particolare di raccolte di ricette e prescrizioni mediche redatte da grandi medici del passato, annoverati tra i suoi tesori librari più preziosi e unici.

Eppure, la lettura non basta. Galeno mette in guardia da tutti quelli che pensavano di poter diventare medici semplicemente attraverso la consultazione di manuali o scritti più o meno specialistici. La lettura di queste opere è necessaria, ma solo all’interno di un percorso di formazione guidato da uno specialista capace di commentare e spiegare i testi, e solo se accompagnata poi da una pratica clinica adeguata e da un tirocinio, per così dire, sul campo. Il libro da solo non basta, per imparare a curare le persone. Preoccupazioni di questo genere accomunavano tutte le categorie di intellettuali. Anche i filosofi, come abbiamo visto, insistevano sull’importanza di svolgere letture guidate, per arrivare a padroneggiare gli elementi centrali della propria disciplina.

Come si giungeva alla pubblicazione dei testi?
Pubblicare un testo, di per sé, era un atto semplice: in teoria bastava approntare una copia di buona qualità, o almeno leggibile, raccogliere un po’ di amici e conoscenti e declamare davanti a loro il risultato delle proprie fatiche letterarie. Questo atto era sufficiente a certificare la nascita di una nuova opera, anche se non bastava certo a garantirne la diffusione, né tantomeno la trasmissione e sopravvivenza nei secoli, che dipendeva invece da una pluralità di fattori tra cui la tyche, il fato, giocava un ruolo non di poco conto. Nel mondo antico il concetto di diritto d’autore non esisteva e non c’era modo di proteggere da plagi e falsificazioni le proprie opere. Una strada, perseguita secondo vaghe testimonianze letterarie sin da prima dell’età classica, era quella di lasciarne una copia, con sigilli o altri attestati di autenticità, presso un’istituzione che potesse garantirne la conservazione: Diogene Laerzio, ad esempio, racconta che Eraclito aveva depositato presso un tempio di Artemide il suo poema Sulla natura. Un’altra poteva essere quella di curarne la diffusione in prima persona, anche attraverso una o più letture pubbliche, meglio se in contesti ufficiali. L’autore, in questo modo, andava sicuramente incontro a rischi: il pubblico antico poteva esternare lo scarso gradimento per un’opera anche in forme molto dirette. Ma c’era anche la possibilità di conseguire, così, una fama immediata, che si accompagnava a tangibili gratificazioni economiche: lo vediamo, ad esempio, da innumerevoli iscrizioni provenienti da Delo, Delfi e molte altre località del mondo ellenistico.

Qual era la condizione sociale dei letterati nel mondo ellenistico?
Si tratta di una domanda a cui non è facile rispondere in generale, senza prendere in considerazione contesti locali e momenti storici determinati. Gli intellettuali greci, dall’età ellenistica in poi, non provenivano necessariamente da famiglie altolocate ma, in mancanza di un capitale personale, avevano per lo più bisogno di un mecenate, cui appoggiarsi per poter svolgere a tempo pieno le proprie attività letterarie o culturali in senso lato. A volte, la scelta è frutto di necessità: il caso di Polibio, che si dedica alla storiografia dopo essere stato inviato a Roma come ostaggio e solo grazie all’appoggio della famiglia degli Scipioni, è un buon esempio. Più spesso, intellettuali e studiosi accettano di buon grado di rinchiudersi nella turris eburnea offerta da un patrono o un’istituzione perché questo era il modo migliore per inseguire le proprie inclinazioni: Callimaco, secondo la tradizione, era un semplice maestro di scuola in uno dei suburbi di Alessandria, e non avrebbe certo potuto comporre le sue opere maggiori, poetiche e di erudizione, senza la generosità dei Tolomei. In cambio, bisognava prestare al potere la propria acritica fedeltà. Un’alternativa era dedicarsi all’insegnamento, ma, a parte alcuni casi eccezionali e figure di altissimo spessore e specializzazione, non si trattava di una professione redditizia, e comunque era difficile, in questo modo, trovare tempo adeguato per gli studi. Un’ultima possibilità era l’erranza continua. Le testimonianze epigrafiche, soprattutto, mostrano come intellettuali di vario genere – poeti, oratori, storiografi o persino astronomi – per guadagnarsi da vivere erano spesso costretti a spostarsi di città in città, per ricercare ingaggi, committenze, cicli di lezioni, nella speranza di riuscire prima o poi a lasciare il segno, e trovare una comunità disposta ad offrire un alloggio stabile, pasti regolari, esenzioni fiscali o, soprattutto, l’equivalente di una pensione. Al di fuori dello splendore delle corti, lontano dalle grandi biblioteche di Alessandria o Pergamo, nell’assenza totale di un sistema di ‘istruzione pubblica’ o di tutela del diritto d’autore, scegliere di dedicarsi allo studio o alle lettere, senza ricchezze familiari adeguate, rischiava di rivelarsi un salto nel buio. Ma senza persone disposte a correre questo rischio, il lascito poetico e letterario dei Greci sarebbe stato ben poca cosa.

Lucio Del Corso è professore associato di Papirologia e Letterature antiche nelle culture europee moderne presso l’Università degli Studi di Cassino e del Lazio Meridionale

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