
Per quanto concerne i tratti caratteristici della cosiddetta “età della riunificazione”, la letteratura è divenuta dagli anni Novanta un luogo di condivisione e discussione delle speranze e dei timori sociali, politici e culturali degli ex cittadini dell’Est e dell’Ovest della Germania. Ciò non significa dimenticare che, accanto ad alcuni episodi più recenti del vissuto individuale e collettivo connessi alla caduta del Muro di Berlino, anche il peso della storia della Germania nazista e divisa ha premuto sulla coscienza della nazione riunificata, divenendo argomento della letteratura tedesca più recente. Questa attenzione al passato ha dato luogo, da un lato, a una profonda riflessione sulle conseguenze della divisione e, dall’altro, a una riconsiderazione dell’impatto sulla Germania dei traumi inflitti dai tedeschi durante il III Reich, come la persecuzione del popolo ebraico, e, per la prima volta in modo sistematico, anche del «dolore tedesco», ovvero della sofferenza subìta dai civili durante il secondo conflitto mondiale.
In che modo autori come Peter Weiss, Johannes Bobrowski, Elias Canetti e Thomas Bernhard hanno innalzato la prosa, la lirica e il teatro a luogo di riconciliazione individuale e collettiva con la storia recente della Germania e dell’Austria?
In modo decisamente diverso nelle forme e nei temi che le loro opere hanno affrontato. Nella Germania occidentale, Peter Weiss, che di origine ebraica visse in esilio durante il III Reich, ha fondato il teatro documentario tedesco, che nacque dall’esigenza di una maggiore oggettività nell’arte e dalla necessità degli intellettuali occidentali degli anni sessanta di partecipare alla vita politica della BRD, nella speranza di condizionarne le scelte economiche e sociali. La definitiva svolta verso il teatro documentario si attuò attraverso la teoria e la prassi di una drammaturgia politicamente impegnata e stimolata dal contesto storico e sociale di quegli anni. La prima rappresentazione di Die Ermittlung. Oratorium in 11 Gesängen (L’Istruttoria. Oratorio in 11 canti) di Peter Weiss, avvenuta in contemporanea in 14 teatri dell’Est e dell’Ovest il 17 ottobre 1965, decretò la svolta della drammaturgia tedesca al teatro documentario, portando in scena il primo degli Auschwitzprozesse, che si svolse a Francoforte fra il 20 dicembre 1963 e il 21 agosto 1965. Weiss aveva partecipato da uditore alle udienze del primo processo, studiato i protocolli delle deposizioni dei sopravvissuti al campo e letto i reportage sul procedimento giudiziario. Affiancati dai risultati delle ricerche di archivio, queste attività ebbero come frutto un’opera la cui prima fu anche trasmessa in diretta da diverse emittenti radiofoniche occidentali e orientali. Gli 800mila spettatori tedeschi, che nei soli due mesi successivi alla prima assistettero alla rappresentazione dell’Istruttoria, si trovarono catapultati al centro dell’orrore dei campi di concentramento e della «colpa» tedesca grazie all’alternanza sulla scena di giudici, ma soprattutto di imputati e testimoni della Shoah che non vengono mai chiamati con un nome o un cognome, accrescendo con ciò il valore corale e collettivo della loro esperienza del lager. Si spiega anche così il sottotitolo dell’opera: Oratorio è, infatti, una composizione musicale che fu all’origine di tema religioso e, più tardi, sentimentale e leggendaria, in cui un coro canta una storia, ripercorrendone i momenti salienti. Con L’istruttoria, Weiss ha offerto un oratorio in cui le vittime e i carnefici della storia raccontano la persecuzione del popolo ebraico da due prospettive differenti, grazie alle quali emergono sulla scena diverse percezioni della Shoah a vent’anni dalla liberazione del campo di Auschwitz.
Johannes Bobrowski non subì in alcun modo la persecuzione nazista, benché si impose sulla scena letteraria orientale degli anni sessanta grazie ad una narrativa che tematizza la storia degli ebrei in Germania. La produzione lirica e narrativa dell’autore si sviluppa attorno al rapporto fra i tedeschi e l’Oriente europeo. Nato a Tilsit, in Prussia orientale, lo scrittore è soprattutto noto per le raccolte di poesie Sarmatische Zeit (Tempo Sarmatico, 1961) e Schattenland Ströme (Terra d’ombre fiumi, 1962), al cui centro si trova la Sarmazia, come l’autore definisce la regione di confine fra Prussia orientale, Polonia e Lituania. Il trauma di avere partecipato in prima persona alla distruzione del Baltico nelle fila della Wehrmacht ha rappresentato la ragione prima della scrittura di Bobrowski che, nelle sue opere in versi e in prosa, ha cercato di ricostruire sulla carta la regione geografica in cui per secoli convissero in pace ebrei, polacchi, lituani e tedeschi. La poesia della natura di Bobrowski è, anche a fronte di questi influssi, appellativa e si fonda sul tentativo di recuperare una «lingua perduta». Le sue liriche non rinunciano praticamente mai a richiamare l’attenzione del lettore sulle conseguenze della guerra, indelebilmente impresse nel paesaggio della Sarmazia, nel tentativo di favorire la riconciliazione individuale e collettiva della Germania con la sua storia recente.
La ricerca di una lingua “perduta”, anzi “salvata”, contraddistingue la produzione di Elias Canetti che, proprio per Die gerettete Zunge (La lingua salvata, 1977) fu insignito del Premio Nobel per la letteratura nel 1981. In questo, che è il primo di tre romanzi in cui è strutturata l’autobiografia dello scrittore, Canetti dà conto della diaspora della propria famiglia di origine ebraica attraverso l’Europa. Il secondo romanzo dell’autobiografia si intitola Die Fackel im Ohr. Lebensgeschichte 1921-1931 (Il frutto del fuoco. Storia di una vita, 1980) e racconta la vita dello scrittore sino al 1931, trascorsa prima a Vienna e poi a Francoforte e a Berlino, nonché dei suoi primi tentativi letterari, mentre Das Augenspiel. Lebensgeschichte 1931-1937 (Il gioco degli occhi. Storia di una vita 1931-1937) del 1985 è ambientato nella capitale austriaca fra i primi anni venti e il periodo che precedette il trasferimento di Canetti a Londra, dove avrebbe vissuto sino alla morte. Spirito poliedrico e cittadino del mondo, l’autore possedeva una visione della realtà tale da comprendere sino in fondo il valore della lingua come pilastro identitario. Attraverso i volumi della sua autobiografia è possibile ripercorrere l’affascinante cammino dell’autore nell’apprendimento della lingua francese, inglese e soprattutto tedesca, nella quale infine decise di scrivere. Ciò anche perché, dopo avere vissuto sotto il nazismo in prima persona l’imbarbarimento della lingua parlata in privato dai genitori, l’autore si sentì nel dopoguerra quasi in obbligo di difendere il tedesco dalla manipolazione ideologica e politica subìta durante il dodicennio nero. Il «linguaggio del potere» è perciò il vero argomento dell’autobiografia di Canetti, poiché è in questa lingua, come egli stesso scrive nel saggio Wortanfälle (Accessi di parole, 1969), che i ricordi d’infanzia in bulgaro e ladino dello scrittore trovarono forma letteraria.
Fra teatro e narrativa di matrice autobiografica si è snodata l’indagine dell’austriaco Thomas Bernhard nella memoria e nella storia d’Oltralpe. Profondamente austriaco nella percezione della minaccia dell’estinzione che costantemente grava sull’uomo e segnato dalla nascita dal fatto di essere figlio illegittimo, l’autore è stato fra i maggiori critici degli austriaci, che in un articolo del 1966 ha definito un popolo «senza visioni, senza ispirazione, senza carattere», nonché privo di «intelligenza e fantasia». Con l’Austria egli intrattenne un rapporto a tal punto controverso da esprimere nel proprio testamento il divieto, dopo la sua morte, di pubblicarvi, rappresentarvi e leggervi pubblicamente le sue opere. Già in vita il rapporto di Bernhard con i suoi concittadini non fu idilliaco, perché le sue opere non esitavano a puntare il dito contro la rimozione del passato, il predominio di uno spirito cattolico e nazista, la deleteria difesa e la sopravvalutazione del patrimonio culturale, nonché la dubbia moralità, la lascivia e la stupidità dominanti, a sua detta, nel Paese transalpino. A sua volta l’autore fu accusato dagli austriaci di essere un sobillatore e un misantropo che con le sue opere manifestava un atteggiamento volutamente e faziosamente incendiario, nonché decisamente distante dalla realtà dei fatti. Sin dalla pubblicazione del romanzo Frost (Gelo, 1963), che gli diede la notorietà, si rese perspicua anche la struttura delle opere di Bernhard, che stilisticamente si fondano su un minuzioso resoconto delle vicende proposto da un io narrante o, più spesso, da voci altrui. È questa la forma del Bericht polifonico che nutre la prosa psicologica e ossessiva dell’autore, la quale si snoda attraverso lunghi monologhi recitati dinanzi al lettore dai protagonisti della narrazione. Proposti in discorso indiretto, che rappresenta la cifra della prosa bernhardiana, essi attraversano la narrazione come un fiume carsico, minando alle fondamenta l’immagine idilliaca della vita in mezzo alla natura difesa e promossa dalla Heimatliteratur ottocentesca, dalla quale discese l’immagine dell’Austria felix.
In che modo è stato raccontato il Muro di Berlino nella letteratura di lingua tedesca a partire dalla sua costruzione?
Per rispondere a questa domanda in modo esaustivo servirebbe molto tempo, ma si può dire che il Muro è stato raccontato in modo assai diverso, nei due Stati tedeschi sorti dopo il 1945, a partire dalla sua costruzione, come ben testimoniano il romanzo Der geteilte Himmel (Il cielo sopra Berlino, 1963) di Christa Wolf e più tadi il film Der Himmel über Berlin (Il cielo sopra Berlino, 1987) di Wim Wenders, assumendo connotazioni oscillanti fra il simbolo di una libertà impossibile da ottenere oltre cortina e il precipitato visuale di un sistema censorio e repressivo del libero pensiero, passando attraverso la metaforica della ferita e della divisione del Paese. Per quando concerne la messa a tema del “Muro”, nella letteratura successiva alla riunificazione tedesca, esso è divenuto un simbolo dei limiti di condivisione e discussione delle speranze e dei timori sociali, politici e culturali degli ex cittadini dell’Est e dell’Ovest della Germania. Perciò, eventi della “macro” e della “micro” storia accaduti nelle vicinanze del Muro sono diventati materia narrativa. Si pensi alle Simple Storys. Ein Roman aus der ostdeutschen Provinz (Semplici storie. Un romanzo dalla provincia tedesco-orientale, 1998) di Ingo Schulze, certamente uno degli scrittori più interessanti della Germania contemporanea, che ha scelto la forma breve per raccontare le conseguenze della riunificazione in ventinove racconti intrecciati tra loro e ambientati nella ex DDR all’indomani della caduta del Muro. Negli anni successivi alla riunificazione, una diretta espressione dello spaesamento ingenerato dalla riunificazione e serpeggiante fra i giovani Ossis – così a Occidente si apostrofa(ro)no gli ex cittadini dell’Est (Ost in tedesco) – è offerta anche dal romanzo di Jana Hensel, Zonenkinder (lett. Figli della zona, 2002). In modo emblematico, esso veicola il sentimento di smarrimento condiviso dall’autrice del 1976 con la più giovane generazione di tedeschi orientali che, nati sul finire della DDR e travolti nel 1989 dalla caduta del “mondo di ieri” in cui crebbero, si sentirono figli della Germania scomparsa, come recita il sottotitolo dell’edizione italiana dell’opera. Questo spaesamento serpeggia ancora oggi nella Germania riunificata ed è evocato già dal titolo del romanzo “negativo” sulla riunificazione di Lutz Seiler, Kruso (2014), che racconta di un moderno Robinson Crusoe tedesco, che si ritira su un’isola del Mar del Nord per ritrovare la propria identità, dopo che la sua esistenza è stata travolta dalla caduta del Muro.
A quale “svolta” si assiste nella cultura tedesca e nei suoi media a partire dal 1989?
La caduta del Muro di Berlino ha decretato la fine della divisione della Germania in Repubblica Federale Tedesca (BRD) e Repubblica Democratica Tedesca (DDR), assumendo per la nazione il significato di un atto fondativo: una vera e propria Wende, ovvero una «svolta» in seguito alla quale la storia, anche letteraria, tedesca ed europea hanno seguito un nuovo corso. Sulla scia di questa svolta – significativamente interpretata come una colonizzazione dell’Est da parte dell’Ovest da un Premio Nobel per la letteratura come Günter Grass – oltre ad episodi del vissuto individuale e collettivo connessi alla caduta del Muro di Berlino, anche il peso della storia della Germania nazista e divisa ha premuto sulla coscienza della nazione riunificata, divenendo argomento della letteratura tedesca e del cinema contemporanei. Questa attenzione al passato ha dato luogo, da un lato, a una profonda riflessione sulle conseguenze della divisione e, dall’altro, a una riconsiderazione dell’impatto sulla Germania dei traumi inflitti dai tedeschi durante il III Reich e, per la prima volta in modo sistematico, anche del deutsches Leid: il «dolore tedesco», ovvero la sofferenza subìta dai civili durante il secondo conflitto mondiale in seguito al Luftkrieg, ossia ai bombardamenti delle città tedesche tra il 1940 e il 1945, alla Flucht, cioè la fuga di migliaia di profughi dalle zone del Paese ridotte a cumuli di macerie a causa delle incursioni alleate e dalle aree del Reich occupate dall’Armata Rossa, e alla Vertreibung, termine che designa l’espulsione, a partire dall’ultimo anno del secondo conflitto mondiale, di milioni di civili dall’Est della Germania per volontà russa. La trattazione di questi complessi tematici si rende perspicua nell’ultimo venticinquennio in opere, da un lato, di celebri scrittori tedeschi perlopiù attivi già nel dopoguerra e, dall’altro, di giovani autori, fra i quali è necessario distinguere coloro i quali non profittarono della riunificazione per fuggire l’engagement intellettuale, dagli esponenti della cosiddetta Pop-Literatur, consacratisi all’escapismo e all’autocelebrazione.
La questione generazionale è centrale per comprendere le differenti angolazioni dalle quali gli autori tedeschi hanno affrontato la riunificazione e ne hanno fatto una prospettiva privilegiata di indagine di temi sino a quel momento restati al margine della letteratura. Gli scrittori nati negli anni venti, come Günter Grass, Hans Magnus Enzensberger, Siegfried Lenz, Erich Loest, Martin Walser e Christa Wolf erano adolescenti durante il Terzo Reich e vissero il successivo periodo della divisione della nazione. Coloro i quali nacquero fra gli anni quaranta e sessanta, come W.G. Sebald, Uwe Timm e Durs Grünbein, appartengono alla «generazione dei figli» e non ebbero esperienza diretta del nazismo, tranne Timm che aveva però aveva cinque anni quando si concluse la seconda guerra mondiale, ma furono certamente consapevoli della differenza della vita nella BRD e nella DDR.
Perciò, muovendo dalla cesura 1989/1990, è possibile individuare nel caso degli autori della prima e della seconda generazione alcuni complessi tematici attorno ai quali si sono sviluppate le loro opere successive alla riunificazione, riconducibili alla scrittura del Muro di Berlino, del passato della nazione e del suo possibile futuro. Gli esponenti più giovani della letteratura tedesca, in prevalenza nati negli anni settanta e ottanta, ebbero invece un’esperienza limitata della vita nella Germania divisa, poiché diversi di loro erano appena maggiorenni quando cadde il Muro di Berlino. A quest’ultima generazione appartengono quelle autrici che, nel 1999, Volker Hage ha ricondotto dalle colonne del settimanale “Der Spiegel” alla corrente del Fräuleinwunder («prodigio delle signorine»), avvalendosi nella Germania riunificata di un termine già utilizzato dagli americani negli anni cinquanta per riferirsi alle donne tedesche, che apparivano loro moderne e attraenti. All’interno del Fräuleinwunder, un vero talento letterario è stata Judith Hermann, in particolare per la raccolta di racconti Sommerhaus später (Casa estiva più tardi, 1998). Al «prodigio delle signorine» sono state ascritte anche le opere di Julia Franck e il romanzo Die Schattenboxerin (La ragazza che fa a pugni con l’ombra, 1999) di Inka Parei, la cui protagonista nella Berlino da poco riunificata si mette sulle tracce di una vicina di casa che è improvvisamente scomparsa, trasformando la ricerca della donna in un confronto con il passato recente della metropoli e con i suoi segreti più reconditi. Il tema della ricerca di una Heimat, di un’identità e, quindi, di un’appartenenza emerge, seppure da una prospettiva disimpegnata ed escapista nei confronti della storia tedesca e delle problematiche sociali, economiche e politiche determinate dalla riunificazione, dall’attenzione ai media e alle merci della cosiddetta Pop-Literatur, che già dieci anni dopo la caduta del Muro aveva trovato uno dei suoi vertici in Tristesse royale. Das popkulturelle Quintett (Tristezza reale. Il quintetto pop-culturale, 1999). Quest’opera è la trascrizione di una lunga conversazione fra lo svizzero Christian Kracht) con Benjamin Stuckrad-Barre, Joachim Bessing, Alexander von Schönburg e Eckhart Nickel, i quali si rinchiusero nell’Hotel Adlon di Berlino per scrivere con Tristesse royale il manifesto di un’intera generazione, della quale questo «quintetto pop-culturale», come recita il sottotitolo dell’opera, si sentiva rappresentativo. Un’ulteriore testimonianza della temperie pop nella Germania riunificata è l’autobiografia collettiva Generation Golf (Generazione golf, 2000) di Florian Illies, divenuta a tal punto popolare che oggigiorno con quest’espressione si indica oltralpe chi è nato negli anni settanta, cioè nel periodo in cui è stata messa sul mercato la celebre automobile della Volkswagen, allora un vero e proprio status symbol del benessere tedesco occidentale.
Non va, infine, dimenticata la cosiddetta Migrantenliteratur («letteratura dei migranti»), termine connesso con l’intenso flusso verso la Germania di profughi, rifugiati ed esiliati, che è stata anche definita «letteratura tedesca interculturale» o «transculturale». Certamente una fra le tendenze più produttive e socialmente impegnata che attraversano la letteratura tedesca contemporanea, essa comprende la produzione di autori che hanno adottato l’idioma del paese di accoglienza, ma in alcuni casi anche scrittori nati su suolo tedesco da genitori stranieri. Emblematico per questo complesso tematico è anche il caso dell’italiano Carmine (Gino) Chiellino, narratore, saggista, ex docente universitario a Augsburg e autore di intese liriche.
Come si esprime l’Ostalgie nella letteratura, cultura e media nella Germania riunificata?
Se si volesse individuare un punto di convergenza transgenerazionale nella produzione degli autori vissuti anche per un breve periodo nella Germania orientale, si dovrebbe ricorrere al “sentimento” della Ostalgie. Crasi di Ost e Nostalgie, ovvero di «Est» e «nostalgia», esso trova la sua prima espressione in Das Eigentum (La proprietà 1990), una poesia di soli dieci versi di Volker Braun. La Ostalgie traspira in modo inequivocabile anche dal romanzo di Jana Hensel, ricordato nella risposta precedente, e rappresenta un Leitmotiv trans-generazionale presente nella produzione degli autori dell’ex Germania orientale – da Christa Wolf, attraverso Günter de Bruyn sino a Jens Sparschuh. I tetri edifici del potere della stasi e la grigia Berlino Est dei Plattenbau – i grandi palazzi prefabbricati che caratterizzavano lo skyline orientale della città – fanno da sfondo al già ricordato Cielo diviso della Wolf, ma anche a Vierzig Jahre. Ein Lebensbericht (Quarant’anni. Un resoconto di vita, 1996) e, ancor di più, a Zwischenbilanz. Eine Jugend in Berlin (Bilancio provvisorio. Una giovinezza a Berlino, 1992) di G. de Bruyn, in cui lo scrittore ha raccontato la propria vita. La disillusione ideologica e le atmosfere della Germania orientale lungo i quarant’anni della sua storia sono state descritte anche da Günter Kunert nella sua autobiografia Erwachsenenspiele. Erinnerungen (Giochi per adulti. Ricordi, 1996). Al di là delle opere autobiografiche, fondamentale per la comprensione dell’Ostalgie è, tuttavia, il romanzo Der Zimmerspringbrunner (Il venditore di fontane, 1995) di Jens Sparschuh. Si tratta, come recita il sottotitolo dell’opera, di uno Heimatroman, ovvero di un romanzo sulla patria perduta dall’autore: un’elegia in prosa dedicata alla dismessa Repubblica Democratica Tedesca, della quale il testo restituisce colori, atmosfere e tradizioni, mentre la narrazione ricostruisce le tappe del difficile adattamento di Hinrich Lobek alla società post-unitaria.
Un altro romanzo fondamentale per la Ostalgie è Der Turm. Geschichte aus einem versunkenen Land (La torre. La storia di una moderna Atlantide, 2008) di Uwe Tellkamp. Quest’ultimo è stato definito «un romanzo superlativo» da Thomas Brussig, autore del fondamentale romanzo, emblematico per l’Ostalgie, intitolato Am kürzeren Ende der Sonnenallee (In fondo al viale del sole, 1999), dal quale è stata tratta la sceneggiatura del film Sonnenallee (1999) che, con le pellicole Good Bye, Lenin! (2003) e Das Leben der Anderen (La vita degli altri, 2006), ha offerto una delle più riuscite rappresentazioni della vita quotidiana nella Berlino orientale negli anni che hanno immediatamente preceduto e seguito la caduta del Muro. La torre è certamente uno dei frutti più maturi della narrativa tedesca contemporanea, perché Tellkamp è riuscito ad agglutinare nel suo romanzo tradizione e innovazione. A poco più di cent’anni dalla pubblicazione dei Buddenbrook di Mann, ma apparentemente a secoli di distanza da un’epoca che non aveva ancora conosciuto gli orrori e le conseguenze di due guerre mondiali, il romanzo narra il progressivo declino nella Dresda degli anni ottanta di una famiglia della DDR, prima di essere inghiottita dai flutti della riunificazione. La famiglia vive nel quartiere residenziale di Dresda che dà il titolo al romanzo: una scelta di Tellkamp che rimanda alla metafora della turris eburnea, nella quale gli Hoffmann conducono, sotto l’onnipresente controllo della stasi, un’esistenza destinata a essere presto travolta dalla caduta del Muro di Berlino. Scandita dalla routine e dal culto dell’arte, la vita quotidiana della famiglia Hoffmann è emblematica di quella di migliaia di tedeschi orientali, del cui modus vivendi senza le descrizioni della Torre non ci sarebbe oggi più memoria. Questa considerazione vale anche per In Zeiten des abnehmenden Lichts (In tempi di luce declinante. Romanzo di una famiglia, 2011) di Eugen Ruge, un esemplare Montageroman che ha contribuito a rivivificare, nella Germania riunificata, l’immagine e il ricordo dell’ex Repubblica democratica tedesca. Divenuta come La torre un bestseller, l’opera ripercorre ancora attraverso il genere del romanzo famigliare il secondo Novecento tedesco dall’interno dell’ex Germania orientale, mostrandone aspetti inediti e raccontando il progressivo declino del progetto utopico del socialismo reale. Muove dagli anni Settanta e affronta il tema dell’adesione al comunismo anche il romanzo gay, sociale e persino «ostalgico» di Matthias Frings (n. 1953) intitolato Der letzte Kommunist: Das traumhafte Leben des Ronald M. Schernikau (L’ultimo comunista. La vita da sogno di Ronald M. Schernikau, 2009).
In che modo scrittori come Durs Grünbein, Herta Müller, W. G. Sebald e Bernhard Schlink sono rappresentativi della produzione letteraria successiva alla riunificazione tedesca?
Innanzitutto questi autori sono rappresentativi di diverse tendenze della letteratura tedesca contemporanea se si prende in considerazione anche solo la loro diversa biografia. Durs Grünbein, nato a Dresda bel 1962, si trasferì a Berlino già nel 1985, dove iniziò a frequentare la Prenzlauer-Berg-Szene, dal cui approccio alla realtà mantenne una certa autonomia, perché improntato a un’eccesiva sperimentazione che conduceva a vuote acrobazie liriche e a concentrarsi esclusivamente sugli aspetti formali della poesia. Nelle sue liriche, Grünbein non avrebbe certo trascurato questi ultimi, ma avrebbe attribuito a forma e contenuto pari dignità, considerando il primo come un fondamentale mezzo per una trasmissione efficace del secondo. Se così, già in parte, in Grauzone morgens (Zona grigia, mattina, 1988) il poeta aveva raccolto liriche dal metro e dalla struttura libere, nella sua produzione successiva alla riunificazione si assistette a un recupero delle forme classiche della scrittura.La scelta formale operata dal primo Grünbein veicolava la volontà di descrivere la condizione di staticità e di incertezza che avvertiva nella Germania orientale condannata al declino dalla Storia con al “s” maiuscola: il titolo della raccolta del 1988 trasmette, di per sé, una sfumatura cromatica che allude a una situazione di stallo e all’assenza di stimoli nella quotidianità della Repubblica Democratica Tedesca. Ciò è particolarmente vero anche nel caso della lirica analogica del poeta che ancora si esprime, in particolare, nelle prime raccolte dell’autore e compiutamente in Schädelbasislektion (Lezioni di anatomia del cranio, 1991), mentre nelle sillogi successive, come Falten und Fallen (Pieghe e trappole, 1994) e Nach den Satiren (Dopo le satire, 1999), l’approccio fisiologico alla realtà si stempera in una allure anticheggiante volta a confrontarsi con la storicità da una prospettiva che privilegia Decimo Giunio Giovenale e le immagini del decadente impero romano per restituire atmosfere risalenti all’agonizzante DDR. L’interesse che il poeta sviluppò fra il 1989 e il 1991 per la fisiologia, l’anatomia e le scienze naturali diede, infatti, luogo a una poesia che ebbe come fulcro la corporeità e attinse a un preciso lessico medico per liricizzarla. Grünbein si richiamò alla tradizione di Georg Büchner e di Gottfried Benn per costruire una «poesia neuroromantica», nella quale fondere il linguaggio poetico-biologico di questi autori con quello romantico di Friedrich Schlegel e Novalis. Questa dichiarazione di poetica emerge dal saggio Mein babylonisches Hirn (Il mio cervello babilonico, 1995), in cui Grünbein rovescia la concezione di Baudelaire del «cuore babilonico» inteso come strumento gnoseologico, innalzando al suo posto la corteccia celebrare a «organo che guida» la conoscenza della realtà grazie alla poesia che da essa scaturisce. In tempi più recenti Grünbein si è confrontato di nuovo con la narrativa di matrice autobiografica con Die Jahre im Zoo. Ein Kaleidoskop (Gli anni allo zoo. Un caleidoscopio, 2015), in chi ha raccontato la sua infanzia e la sua giovinezza a Hellerau, il primo quartiere di Dresda costruito secondo i principi urbanistici della città giardino. Intrecciando parti in prosa con poesie e inserti saggistici, l’opera rivela l’ambivalente sentimento di Grünbein nei confronti del quartiere in cui crebbe che, dopo tanti anni, gli appare essere un «vaso dei ricordi, una lattina piena di lombrichi: la si apre e il profumo dell’infanzia, della miseria, ti inebria». Dal poderoso volume emerge, quindi, un sentimento sospeso fra la nostalgia e il rifiuto del passato, che Grünbein veicola anche attraverso l’interpolazione di vecchie fotografie alla prosa e ai versi del volume. Un simile esperimento multimediale caratterizza pure Koloß im Nebel (Colosso nella nebbia, 2012), una raccolta divisa in sette sezioni di poesie scritte in otto anni, nelle quali Grünbein si muove come se fosse all’interno di una mostra di dipinti, tracciando grazie alla sinergia di parola e immagine un percorso poetico che coinvolge situazioni quotidiane, eventi storici ed esperienze d’amore.
Dall’opera di Herta Müller emerge, invece, Il peso dell’appartenenza del proprio padre al nazismo, vissuto come una colpa, ma al contempo tematizzato con un intento – come si dirà – simile a quello di Berhard Schlink di denunciare una situazione di impasse della scrittura contemporanea nei confronti della rappresentazione dei traumi storici. L’autrice nacque nel 1953 in Romania, nella regione di lingua tedesca del Banato, fuggì a Berlino nel 1987 dal regime di Nicolae Ceauşescu e divenne universalmente nota nel 2009, quando vinse il Premio Nobel per la letteratura. Cresciuta nel villaggio di Nițchidorf, le cui tradizioni riemergono dal romanzo Herztier (Il paese delle prugne verdi, 1994), la Müller iniziò a conoscere e ad apprezzare la lingua rumena solo all’età di quindici anni, quando si trasferì a Timisoara per frequentare il liceo. Ben presto, però, il rumeno si trasformò nella lingua della dittatura di Ceauşescu e, anche per questo motivo, la scrittrice decise di usare il tedesco già per la sua prima raccolta di racconti: Niederungen (Bassure, 1982) che si apre con Die Grabrede (L’orazione funebre), testo dal quale emerge il senso di colpa dell’autrice per appartenere a una famiglia che si era allineata al nazismo. Nel febbraio del 1987 la scrittrice ottenne il visto per l’espatrio e nel 1989, dopo essersi rifugiata in un campo di accoglienza per profughi politici di Norimberga, raggiunse Berlino, ottenendo la cittadinanza tedesca. Nel primo romanzo pubblicato dopo l’espatrio, Reisen auf einem Bein (In viaggio su una gamba sola, 1989), la Müller affronta uno dei temi centrali della sua intera produzione, ovvero la sensazione di essere stata privata dalla dittatura rumena di una parte di sé, una circostanza a cui il titolo del romanzo in questione già allude nell’assenza – tutta simbolica – di uno dei due arti inferiori dell’io narrante. La scissione dell’io e una costante sensazione di vertigine caratterizzano anche le opere successive della Müller, sia di matrice autobiografica, come Der fremde Blick oder das Leben ist ein Furz in der Laterne (La veduta straniera, ovvero la vita è un peto in un lampione, 1999) e Cristina und ihre Attrappe oder Was (nicht) in den Akten der Securitate steht (Cristina e il suo doppio, ovvero ciò che (non) risulta nei fascicoli della Securitate, 2009), sia di ispirazione biografica, come Atemschaukel (L’altalena del respiro, 2009), che affronta il tema della deportazione in un gulag sovietico di un ragazzo di un villaggio rumeno di minoranza tedesca. L’estesa produzione della Müller, che comprende anche raccolte liriche, saggi, radiodrammi, pièces teatrali e opere collagistiche, insiste sui motivi riconducibili a uno sguardo straniero ed estraniante sulla realtà storica e politica. Lo sguardo dell’autrice si rivolge spesso alle condizioni di vita nella Romania di Ceauşescu, delle quali la scrittrice narra per esempio in Immer derselbe Schnee und immer derselbe Onkel (Sempre la stessa neve e sempre lo stesso zio, 2011).
W.G. Sebald, nato in Baviera nel 1944, è stato molto più apprezzato in Italia, in Francia e nei paesi anglofoni, più che nella natia Germania che l’autore abbandonò volontariamente negli anni settanta, quando decise di trasferirsi in Inghilterra, dove divenne docente universitario presso la University of East Anglia e dove scomparve nel 2001. Avere rifiutato la patria ha influito sulla ricezione dell’opera di Sebald in Germania, dove non si contano le riserve sulla poetica della memoria che uniforma Schwindel. Gefühle (Vertigini, 1990), Die Ausgewanderten. Vier lange Erzählungen (Gli emigrati. Quattro racconti lunghi, 1992), Die Ringe des Saturn. Eine englische Wallfahrt (Gli anelli di saturno. Un pellegrinaggio in Inghilterra, 1995) e Austerlitz (2001). Si tratta di un autore controverso che ha saputo trovare ampia eco all’estero, dove la sua poetica della memoria, che si avvale di una «grammatica del silenzio» e di fotografie interpolate al ductus narrativo, ha ottenuto il plauso di raffinati intellettuali come Susan Sontag. La strategia narrativa e saggistica di Sebald è tutta mirata all’estetizzazione del rimosso individuale e collettivo della Germania. Lo scrittore e germanista bavarese ha avuto, per esempio, il coraggio di denunciare il silenzio in cui la letteratura della nazione sconfitta dagli alleati aveva relegato la propria tragedia più intima, ovvero la distruzione del Paese sotto i bombardamenti anglo-americani. Le sue tesi sulla tabuizzazione del trauma della guerra aerea nella letteratura del dopoguerra esposte in Luftkrieg und Literatur (lett. Letteratura e guerra aerea, ma tradotto in italiano con il titolo, Storia naturale della distruzione, 1999) hanno, infatti, sollevato il primo dibattito sull’argomento in Germania. Pochi anni più tardi la pubblicazione delle sue rivoluzionarie tesi, Sebald ha stupito pubblico e critica con Austerlitz, un romanzo capace di rappresentare in modo indiretto, ma sempre eticamente ed esteticamente convincente la Shoah nella letteratura contemporanea, ripercorrendo nel suo più celebre iconotesto il destino dell’eponimo protagonista del romanzo. Tedesco di nascita, Sebald non si sentì mai legittimato a raccontare direttamente la persecuzione nazista degli ebrei, perciò decise di collezionare i ricordi di chi ne ebbe esperienza per poi ricostruire con le sue narrazioni un mosaico della memoria della Shoah, composto da parole e immagini che provenissero dai di testimoni del più feroce crimine contro l’umanità perpetrato dai suoi connazionali.
Sempre nell’alveo della messa a tema della Shoah nella scrittura contemporanea, sei anni dopo la riunificazione, è anche apparso il fortunato romanzo Der Vorleser (lett. Il lettore, ma tradotto in italiano con il titolo A voce alta) di Bernhard Schlink, anch’egli nato come Sebald nel 1944, ma che a differenza sua non abbandonò mai la Germania, dove pure condusse una carriera accademica. Il romanzo, che denuncia apertamente la situazione di impasse in cui si trova la rappresentazione estetica della Shoah in seguito all’estinzione della memoria dei testimoni diretti della persecuzione, è fra le migliori opere narrative contemporanee sulla differente percezione dei tedeschi della colpa per i crimini commessi dai nazisti contro la popolazione ebraica. Divenuto presto un best seller, tradotto in ventisette lingue, il romanzo deve parte della sua notorietà presso il grande pubblico anche alla sua riduzione cinematografica, uscita nel 2008 con il titolo The Reader – A voce alta. Collocandosi nell’interstizio fra letteratura documentaria e finzionale sulla Shoah, Schlink racconta nel romanzo la storia dell’ex Kapò nazista analfabeta Hanna, con cui nel 1958 il giovane Michael inizia una relazione sentimentale, durante la quale legge a voce alta alla donna le opere dei classici tedeschi, inconsapevole del suo passato e del fatto che questa non sappia né leggere né scrivere. Hanna fa improvvisamente perdere le proprie tracce, salvo poi qualche anno dopo essere incontrata da Michael, che sta studiando per diventare avvocato, nel 1966 alla sbarra degli Auschwitz-Prozesse di Francoforte. Alla fine del procedimento nel quale è imputata, alla donna viene comminato l’ergastolo per avere firmato un atto che condannava a morte trecento ebrei, bruciati vivi in una chiesa durante una di quelle terribili “marce della morte” a cui nelle ultime fasi della seconda guerra mondiale gli internati nei campi di concentramento erano costretti per non lasciare traccia dei crimini nazisti. Hanna avrebbe certo potuto alleggerire la propria posizione al processo, dichiarando di essere analfabeta, ma mantiene il suo segreto fino alla fine del romanzo, quando si impicca nella sua cella a pochi giorni dalla scarcerazione, che teme più della morte, dopo avere imparato a leggere negli anni di reclusione, che ha dedicato anche allo studio delle opere di Primo Levi e Jean Améry. Il romanzo ha posto importanti quesiti etici sulle modalità di testimoniare la Shoah e rielaborare il passato nella Germania riunificata, puntando il dito contro la diffusa pratica della rimemorazione fittizia della persecuzione ebraica, risultata nella pubblicazione di opere di fantasia, completamente svincolate dall’esperienza diretta della vita nei campi di concentramento.