
di Franco Michelini Tocci
Edizioni Accademia
«Una letteratura che si estende quasi ininterrottamente per tremila anni, come quella ebraica, offre non pochi problemi a chi voglia presentarne la storia; o forse il problema, cui tutti gli altri si riconducono, è solo uno, quello cioè di riuscire a scrivere un saggio unitario su opere composte in epoche diversissime e culturalmente distanti, come sono quella biblica (ma già parlare di epoca «biblica» non ha gran senso, se si pensa che i testi raccolti nella Bibbia coprono un buon millennio di storia), quella medievale, quella moderna, per non dire poi della modernissima e a noi contemporanea. Ma quello delle differenti epoche è un problema a cui fa seguito immediatamente quell’altro, non meno grave e assolutamente peculiare del giudaismo, che è la differenza di ambiente geografico e sociale in cui, a causa della diaspora, vissero e scrissero gli ebrei. Tra un ebreo polacco del XVIII secolo e un ebreo italiano del Rinascimento le differenze di costumi, di ambiente, e anche di tradizioni, sono, come chiunque può comprendere, vastissime e non bastano certo a eliminarle o a ridurle la comune lingua letteraria, la comune religione e la coscienza di appartenere a una stessa stirpe.
In queste condizioni, il rischio che si corre è quello di scrivere una «storia» letteraria alla Tiraboschi, nella quale viene elencato, con descrizione più o meno ampia, tutto ciò che è stato scritto nella lingua prescelta; ma ciò, se soddisfa l’erudito che avrà a sua disposizione un indispensabile repertorio di nomi e di titoli, non soddisferà affatto il lettore non specialista, il quale finirà presto con lo smarrirsi e con l’annoiarsi. Ora, per la letteratura ebraica, la situazione è per l’appunto quella descritta. Fin dal secolo scorso, la grande rinascita degli studi ebraici ha dato alla scienza opere imperiture e i nomi di Wellhausen, per la letteratura biblica, di Steinschneider e Zunz, per quella postbiblica, sono venerati dagli ebraisti di tutto il mondo, pur essendo perfettamente ignoti ai non specialisti. Anche in italiano non sono mancate storie letterarie, totali o parziali, di prim’ordine, tutte però scritte ad uso degli esperti e non per la lettura corrente. Pensando, dunque, che non fosse il caso né di ripetere quanto era stato già fatto più che degnamente, né di impegnarmi in un lavoro che, oltre a richiedere ormai l’opera di più persone, sarebbe risultato illeggibile per il lettore comune, ho creduto di usare un criterio selettivo che permettesse di orizzontarsi nel mare magnum della letteratura ebraica, individuando e seguendo un certo filone del suo sviluppo.
In generale, ho pensato di tener conto soltanto di ciò che possa, a mio giudizio, dire ancora qualcosa al gusto del lettore moderno, e per far questo ho cercato di raccogliere e di presentare soprattutto quelle opere in cui, più che altrove, la creatività si manifesta come espressione di raffigurazioni primordiali, o archetipi, eternamente ricorrenti nella storia dell’immaginare dell’uomo e capaci perciò di rientrare perfettamente anche nella sfera emotiva dell’uomo di oggi. La forma concreta che queste immagini assumono dipende naturalmente dalle condizioni ambientali e storiche in cui l’autore lavora, donde l’importanza di studiare queste situazioni al fine di meglio comprendere e penetrare il più profondo e universale messaggio delle opere prese in esame. Si vedrà per esempio che, almeno in qualche caso più evidente, è stato possibile notare come un determinato archetipo eserciti, in una certa epoca della storia ebraica, una inconscia funzione regolatrice ed equilibratrice dell’unilateralità dell’atteggiamento cosciente, non diversamente da quanto avviene normalmente nei singoli individui. Si capisce che l’attenzione a questi dati ha fatto sì che alcuni settori, anche rilevanti, di ciò che è stato scritto in ebraico siano stati qui completamente trascurati; così la letteratura legalistica, quella filosofica eccetera, non sono state trattate, con la automatica conseguenza che personalità universalmente note, come per esempio il Maimonide o il Caro, sono nominate appena occasionalmente. […]
Per quanto riguarda la Bibbia, e in particolare il Pentateuco, ho voluto presentare i testi in ordine cronologico, diverso da quello canonico. So benissimo che il peso della tradizione orale rende assai difficile l’applicazione di questo criterio a tutti i testi, ma, d’altra parte, lo scetticismo manifestato su questo punto dagli studiosi dell’Antico Testamento, e più autorevolmente di tutti dal Noth, mi sembra eccessivo. In una trattazione sintetica, dedicata ai non specialisti e agli studenti desiderosi di un primo contatto, non solo è possibile, ma penso che sia anzi utile seguire un sistema che dia al lettore, abituato in genere, anche senza avvedersene, a considerare la Bibbia secondo i pregiudizi religiosi tradizionali, un’idea concreta, e quasi visiva, dei risultati cui ha condotto la critica indipendente. La Bibbia è un testo non diverso dagli altri che l’antichità ci ha trasmesso, e deve perciò essere studiato con gli stessi metodi con cui, per esempio, sono studiati i poemi omerici o quelli cavallereschi.»