
Quando nasce e come si sviluppa l’uso letterario del dialetto milanese?
L’ uso letterario della varietà linguistica locale, diversa dal latino medievale correntemente impiegato nella scrittura, è documentato a Milano dagli ultimi decenni del Duecento, con Bonvesin da la Riva e Pietro da Barsegapè: è una letteratura didattico-moraleggiante che è espressione della nuova civiltà urbana, mercantile, pragmatica, ed è rivolta a un pubblico ampio e stratificato. Con l’impiego del volgare anche gli illitterati, cioè coloro che non conoscono la lingua universale della cultura, il latino, possono comprendere le parole della fede, come risulta dai numerosi testi qui antologizzati e commentati. Il nostrum vulgare delle scritture letterarie è eterogeneo, instabile e variabile, per la mescolanza con altre componenti nobilitanti (il latino, il francese, il provenzale, più tardi il fiorentino). Poi, a partire dalla seconda metà del Trecento, comincia a essere più forte l’influsso e l’imitazione del già prestigioso modello letterario toscano, soprattutto in poesia. A fine ‘400 nella Milano di Ludovico il Moro e nel clima raffinato e filotoscano della corte sforzesca il rozo parlare milanese viene impiegato negli usi letterari solo intenzionalmente, in una dimensione ‘riflessa’ parodistica e giocosa. Ma un secolo dopo, nella colta Milano borromaica, lo sperimentalismo dialettale del Lomazzo e dell’Accademia letteraria della Val di Blenio dà voce, con il plurilinguismo dei Rabisch (‘Arabeschi’) (1589), a serpeggianti tensioni antitoscane. E nel 1606 c’è la rivendicazione del primato dei dialetto milanese contro il modello del fiorentino letterario, ormai trionfante in tutta la penisola: il più antico vocabolario milanese-italiano, Varon milanes de la lengua da Milan, stampato con il Prissian da Milan della parnonzia milanesa, trattatello di pronuncia milanese di Gian Ambrogio Biffi, letterato e poeta della cerchia di Federico Borromeo. Dopo il Varon, celebrato dal Porta come manifesto fondativo della tradizione letteraria meneghina, è straordinarie l’opera di Fabio Varese, morto di peste nel 1630: musico, cantore e poeta, autore di Canzoni milanesi che evocano con parole crude il mondo dei marginali e delle prostitute, per cui va considerato come anticipatore di quel filone di poesia milanese che attraverso Maggi e Balestrieri culminerà con l’esperienza portiana. A fine ‘600 infatti il teatro e la poesia milanese di Carlo Maria Maggi, acclamati dai letterati di tutta Italia, a cominciare dal Muratori, dimostrano che l’uso del milanese non esprime ristrettezza municipale, ma si pone autorevolmente, anche per temi e contenuti civili, come sperimentazione innovativa contro il gusto estetizzante barocco. L’eredità del Maggi verrà raccolta nel ‘700 dai poeti successivi e dai protagonisti della nuova cultura illuministica lombarda.
Cosa rappresentò, per la letteratura dialettale milanese, il XVIII secolo?
Il Settecento è un secolo di straordinario sviluppo della nostra letteratura dialettale, come documenta con ampiezza l’antologia. Fondamentale è il ruolo delle Accademie, in particolare dell’Accademia dei Trasformati (1743-1768), nelle cui adunanze, dedicate a temi letterari ma anche scientifici, filosofici, politici, gli Accademici tenevano interventi indifferentemente in dialetto e in lingua sugli stessi temi. I Trasformati (per primi Parini, Balestrieri, Tanzi) intervennero subito in italiano e in dialetto anche in difesa della dignità letteraria del dialetto milanese nel 1760, contro il padre Onofrio Branda in occasione della celebre polemica “brandana”. Questa ricca tradizione dialettale, aperta alle più vive questioni della vita civile della Lombardia, è il presupposto della nascita della grande esperienza poetica del Porta.
Chi ne sono gli autori più significativi?
Sicuramente va citata la triade di autori celebrata dal Porta, Tanzi, Balestrieri, Parini. L’opera dialettale e in lingua di Carl’Antonio Tanzi, Segretario perpetuo dell’Accademia dei Trasformati, «persegue la critica sociale e l’impegno morale» ed è pervasa dallo «spirito del migliore riformismo lombardo», e le ottave di Sora i caregadur e Sora i Zerimoni «vanno nella direzione didascalico-riformistica che sarà poi del Parini del Giorno» (Martinoni). La produzione dialettale di Domenico Balestrieri «influenzerà tutta la successiva generazione di poeti milanesi (…) Ma soprattutto sui testi del Balestrieri farà il suo apprendistato il Porta, che porrà mano alla traduzione di Dante assumendo come modello la Gerusalemme milanese». Balestrieri introduce anche alcune importanti innovazioni grafiche, che saranno generalmente accolte e varranno «anche per il Porta e per tutta la tradizione successiva» (Milani). Parini, rispetto al Tanzi e al Balestrieri, scrive poco in dialetto milanese, solo quattro sonetti (De Marchi): ma di grande importanza era stata la sua lucida e argomentata difesa del dialetto popolare come lingua naturalmente bella e autentica e la rivendicazione della tradizione letteraria in «lingua milanese», dal Maggi fino alla nuova poesia dei Trasformati che valorizzava letterariamente le bellezze naturali del milanese schietto. Ma sono significativi anche altri poeti antologizzati, come Francesco Bellati, Carlo Alfonso Pellizzoni, Francesco Pertusati, Giuseppe Carpani, di cui pubblichiamo un’interessante novità è il poemetto La conscia desturbada, cioè ‘l’evirazione impedita’. L’argomento della castrazione (conscia) dei musici, è «luogo comune nella poesia del Settecento», e dal componimento burlesco, inedito ma forse noto al Porta (Milani), risulta un quadro fortemente anticlericale, connotato anche dalla mescolanza di milanese, italiano e latino.
Quale importanza riveste Carlo Porta all’interno della tradizione letteraria in dialetto milanese?
Carlo Porta è autore di capolavori che «portano per la prima volta nella letteratura italiana la testimonianza autentica di tutta una folla di uomini rimasti sempre senza volto, ai margini tanto della vita quanto dell’interesse dei poeti laureati» (Isella). Grande narratore, con i suoi poemetti milanesi offre un modello per tutta la «civiltà narrativa italiana» in dialetto e in lingua, rappresentando «con crudo realismo i rapporti di forza all’interno della società» (Novelli). Dall’altissima esperienza portiana non possono prescindere tutti i poeti successivi otto-novecenteschi, e anche gli autori del teatro milanese, qui antologizzati: a cominciare dai maggiori come Giovanni Rajberti, che con il poemetto Marzo 1848 «vibrante nel racconto minuzioso e sofferto della rivolta milanese» e «uno dei vertici assoluti della sua poesia dialettale» si conferma «il rappresentante del più maturo realismo della cultura lombarda» (Bartesaghi) e diventa a sua volta un modello per altri poeti risorgimentali e successivi. Infatti l’antologia vuole documentare il valore esemplare anche di altri autori importanti, come Tommaso Grossi, sodale del Porta, che aveva inaugurato con La Fuggitiva «in assoluto la prima novella contemporanea della letteratura italiana ottocentesca» (Sargenti) quella linea patetica (del magon) nell’impiego poetico del milanese che continua fino a oggi.
La canzone d’autore novecentesca rappresenta il capitolo conclusivo di questa lunga tradizione: quali ne sono stati temi e voci?
Abbiamo voluto offrire nell’ultima sezione solo pochi, ma significativi assaggi anche della canzone d’autore, a cui si lega, oltre che alle multiformi esperienze poetiche, la persistenza letteraria del milanese nell’ultimo secolo. Quattro autori e quattro testi tra i più celebri: O mia bela Madonina, di Giovanni D’Anzi, dedicata al simbolo identitario di Milano ma anche della città dell’accoglienza negli anni del miracolo economico, come recita l’ultima strofa, ingiustamente di solito tralasciata e qui riportata. Ma mi, brano che dà voce a un partigiano incarcerato e torturato, scritto da Giorgio Strehler, triestino ma milanese d’adozione: interpretata dalla giovane Ornella Vanoni, Ma mi diventa uno dei pezzi più famosi delle canzoni della “mala” milanese ed è incisa anche da altri artisti, come Enzo Jannacci, che in coppia con Dario Fo compone negli anni 60 alcuni altre celebri canzoni del repertorio milanese. Rientra nel filone musicale della “mala” anche la Cansun de quand s’eri giuvina e stavi in Luduvica (1962) scritta da Dario Fo e musicata da Fiorenzo Carpi, resa celebre dalla cantante Milly con il titolo El me ligera: monologo di una prostituta «legata in un rapporto morboso» al suo protettore (ruchetee). Infine proponiamo la nota e struggente El portava i scarp del tennis, scritta e musicata da Enzo Jannacci (1935-2013, di cui è protagonista un emarginato, un barbone. La canzone è stata ripresentata «con vari arrangiamenti e interpretazioni»: ma nei pezzi di Jannacci più che la musica «fondamentale (…) è il testo, che alterna dialetto e italiano» (Della Ferrera). Purtroppo abbiamo dovuto escludere con rammarico, come segnalo nell’introduzione, altre importanti esperienze, come quella dei Gufi (di cui 1965 esce il primo 33 giri, Milano canta); quella più recente di gruppi musicali rock e rap che, a partire dagli anni Ottanta e Novanta, utilizzano il dialetto milanese come risorsa espressiva; e quella recentissima dei “nuovi italiani” milanesi, che ricorrono consapevolmente al dialetto come indicatore di identità culturale.
Silvia Morgana è stata professore ordinario di Dialettologia italiana e di Storia della lingua italiana nell’Università degli studi di Milano. Accademica della Crusca, ha studiato la lingua letteraria e la lingua della paraletteratura e dei mass media (fumetto). Oltre alla Breve storia della lingua italiana (2011), ha pubblicato tre raccolte di suoi saggi: Capitoli di storia linguistica italiana (2003); Mosaico italiano (2011); Il “gusto della nostra lingua” (2017). Ha dedicato numerosi studi alla lingua e alla letteratura della Lombardia ed è autrice della Storia linguistica di Milano (2012).