
La teologia ha senso se capisco chi è il teologo. Ai tempi di Nicea, ad esempio, quelli cui si poteva dare il titolo di teologo, erano solo tre e tra questi il più famoso era sicuramente Giovanni; Lui che ha fatto esperienza di Cristo può parlarne. L’esperienza di Cristo passa attraverso i tre giorni della passione per cui, se dovessimo dire il teologo, potremmo farlo attraverso tre elementi: l’orecchio, l’occhio e i piedi. L’orecchio posto sul cuore di Gesù; Giovanni ascoltava l’amore divino che stava per essere consegnato. Il teologo è chi si mette in ascolto del Maestro nella sua opera (giovedì santo). L’occhio: Giovanni contempla la croce. Contempla il fallimento dell’amore umano, delle attese messianiche di potenza.
È teologo chi non dice nulla e contempla (apofatismo). I piedi: credi se hai lo Spirito Santo e l’amore. Credere è ciò che fa di te un teologo. La Pasqua è l’inizio della teologia. Paolo ci mostra come la teologia è un annuncio pasquale. Teologia è una Parola su Cristo e sulla Pasqua e questa, anche se è messa a tacere, converte. Altro modo di essere teologo è l’essere testimone della Parola. Testimone, come nella staffetta, che mi porge la Parola per farmi Vivere e non per farmi fare vuoti ragionamenti. Nicea II e la questione delle immagini porta in se anche questo modo di fare teologia. C’è un momento, ad esempio, in cui i Padri conciliari vivono un conflitto sull’interpretazione della Parola e dell’esperienza per cui, insieme, sono chiamati a decidere come sia più giusto interpretare e di conseguenza come questo diventa esperienza.
Chi furono protagonisti di quell’assise conciliare?
Volendo essere sintetico, sintetizzerò quello che accade nella prima sessione conciliare a cui parteciparono circa 250 vescovi. Secondo l’ordine gerarchico, riportato dagli atti del concilio, ai primi posti compaiono i due rappresentanti del papa, Pietro, arciprete di San Pietro e Pietro igumeno del monastero di San Saba a Roma. Seguono Tarasio, patriarca di Costantinopoli, i monaci Giovanni e Tommaso in rappresentanza delle sedi patriarcali di Antiochia, Alessandria e Gerusalemme. Parteciparono anche due rappresentanti degli imperatori, il patrizio Petronas e il logoteta militare Giovanni, e vari monaci, igumeni e archimandriti che il concilio aveva invitato; forse per onorarli poiché erano stati i più colpiti a causa dell’iconoclasmo. Il primo intervento fu emesso dai vescovi dell’Italia meridionale, i quali proposero che il sinodo iniziasse con una relazione del Patriarca di Costantinopoli. Venendo dal meridione addentrarmi nelle vicende del niceno secondo mi ha fornito nuovi strumenti di comprensione per la realtà culturale da cui provengo.
Qual è il concetto di immagine elaborato dal secondo concilio niceno?
Se ci dovessimo semplicemente limitare a quello che emerge dalle sessioni conciliari del niceno secondo potremmo dire che è evidente, ed emerge dalla riflessione sull’iconoclastia, che non si tratta semplicemente della possibilità o meno di rappresentare la persona di Cristo o della Madre sua ma quanto, grazie ad esse, è possibile il compiersi di una vita in pienezza. Si può decidere di cambiare vita «vergognandosi davanti a colui che era dipinto come vivo» oppure, riconoscendo il passaggio nel Signore nella propria storia, passaggio che toccando sana, si può fare come l’emorroissa che «offrì la statua». Il discorso sull’immagine è legato in maniera indissolubile alla Parola e della Parola porta le dinamiche intendendo la dynamis dello Spirito. Quando gli artisti si pongono in ascolto di quanto è Scritto le immagini «servono a darci un insegnamento, a suscitare fervore e a offrirci un modello». Si può arrivare a confessare la fede, a dichiararla apertamente, dal cammino che si rende possibile attraverso le immagini.
In che modo è possibile riscoprire nell’arte uno strumento utile per riavvicinarsi a Dio?
L’arte, sia essa espressa attraverso il mosaico o una statua o un quadro o un’icona, ci permette di esperire con il nostro corpo quel desiderio di penetrare in quella realtà di cui abbiamo nostalgia ed è in questa tensione che s’invera la possibilità del passaggio dal discorso teologico alla vita teologale. È profondamente legato all’umano il desiderio di apertura al divino; anelito a raggiungere la parte retrostante dell’immagine, di attraversare lo specchio, di superare il diaframma quasi seguendo lo stesso invito del Risorto a Tommaso. L’arte vissuta ed esperita nella comunità ecclesiale è quel mettere la mano, altro modo per dire essere toccati, dall’arnion dall’agnello che porta i segni del sacrificio: Cristo risorto. Questo essere toccati ci permette di giungere a ciò che è più vero di ciò che è visibile. La fede nel Signore Gesù ci spinge ad assomigliargli, “didimo”, diventare gemello. Il desiderio del mio lavoro costituisce anche la sua novità nell’orizzonte di quanti hanno scritto sul niceno secondo: il volto di Cristo può tornare a farsi vedere nella vita del battezzato che si cimenta nell’incontro che l’immagine rende possibile.
Roberto Quero, frate francescano (Ordine dei Frati Minori), è docente di Teologia all’Università Cattolica di Milano