
Come si compone la geografia del mondo di Lenù e di Lila?
I contesti sono diversi. Tutto inizia nel rione popolare dove le bambine sono nate nel 1944, che corrisponde con molta accuratezza ai luoghi narrati nei romanzi e che è stato ricostruito con precisione filologica nella serie televisiva. Le stesse strade ricorrono anche nel primo romanzo di Elena Ferrante, L’amore molesto, dunque sono molto importanti, rimandano alle origini, anche se non sono mai esplicitamente nominate. La fisionomia del rione romanzesco non riflette ciò che quei luoghi sono oggi, ma a ciò che erano un tempo: segno che chi scrive li ha conosciuti e frequentati allora. Il rione non è un set, uno scenario o una cartolina, ha una forte caratterizzazione emotiva. C’è anche il liceo classico di Lenù, che non è quello della classe dirigente napoletana, ma una scuola di confine dove la città si mescola con la periferia e con la provincia: l’hanno frequentata anche alcuni scrittori, per esempio Domenico Starnone, che allude a questa scuola in un suo libro, e molti anni prima Enzo Striano, l’autore de Il resto di niente, che ha addirittura ambientato lì un suo romanzo su un’adolescenza di epoca fascista. Poi c’è la periferia industriale, dove Lila va fare l’operaia, con le sue grandi fabbriche oggi scomparse e che allora erano animate dai forti conflitti sociali riflessi nella saga. A Ischia, che è stata la piccola fabbrica dei sogni del nuovo esotismo mediterraneo, ho ritrovato il cinema e il fotoromanzo dell’epoca. C’è anche una lunga deviazione a Pisa, dove Lenù va a studiare alla Scuola Normale negli anni che precedono il Sessantotto.
Che legame esiste tra la quadrilogia napoletana e Piccole donne?
Anche uno sguardo superficiale coglie subito analogie importanti. La struttura: una saga in quattro volumi che abbraccia l’arco della vita di alcune ragazze – sorelle o amiche – e si sviluppa dall’infanzia all’età matura dentro la stessa comunità. Il genere letterario: narrativa popolare, la matrice ottocentesca, per Louisa Alcott, è Dickens; Elena Ferrante, che setaccia anche i «fondali bassi» dell’appendice, si muove sulla scia di Elsa Morante. Il soggetto: un romanzo di formazione dell’identità femminile. Ragazze che restano legate per la vita, si vogliono bene e si detestano, si aiutano e si invidiano, si attraggono e si respingono in un gioco di affinità femminili e contrasti di temperamento. Ma il nodo che lega più saldamente la quadrilogia napoletana a Piccole donne è certamente una messa a fuoco dei rapporti tra madri e figlie, sorelle e amiche. L’intesa o i conflitti tra donne sono la molla narrativa più importante, è l’energia che si scambiano o che si rubano le protagoniste a tenere incollate alla pagina le lettrici di Elena Ferrante e di Louisa May Alcott. In Piccole donne, si sviluppa la contrastata avventura del talento femminile, seguendo le aspirazioni di una ragazza che vuole diventare scrittrice: non a caso Lila e Lenù sognano di scrivere insieme un romanzo come quello. E ancora: l’uso della lingua, così diretto e vicino al parlato, che ha un differente tratto di originalità; la freschezza di Piccole donne stupì i contemporanei per lo stile colloquiale, che parla vivacemente – sia pure in modo educato – l’americano di tutti i giorni, le protagoniste di Elena Ferrante sono sospese tra l’italiano imparato a scuola e il napoletano del rione. C’è anche una curiosa analogia nel successo delle due saghe: quello di Piccole donne, nella seconda metà dell’Ottocento, portò a Concord – dove vivevano gli Alcott – il primo turismo letterario, come oggi accade nei luoghi di ambientazione dei romanzi di Ferrante. Ci sono poi corrispondenze meno evidenti, che rimandano alla biografia e al mondo di Louisa Alcott, e ci sono – tra le due saghe – differenze altrettanto importanti, non togliamo a chi vorrà leggere il libro il piacere di scoprirle.
In che modo a Pisa racconto e realtà storica si intersecano?
L’ingresso di Elena Greco alla Scuola Normale di Pisa cambia la curvatura dei romanzi, li inserisce nella “ballata” di una generazione, che ebbe una sua particolare educazione sentimentale, affrontò grandi trasformazioni – in quegli anni arrivarono all’università, in numero consistente, molti studenti provenienti dalle classi popolari – e generò molteplici narrazioni orali sulle esperienze vissute in quel contesto. L’aspetto che più mi ha colpita, dentro questo processo, è il lato femminile della storia: nelle scuole di eccellenza come la Normale le studentesse erano ancora poche ed erano rientrate solo negli anni Cinquanta, dopo un’esclusione cominciata sotto il fascismo e durata più di vent’anni. Quello era un piccolo mondo denso di speranze, le ragazze che ci arrivarono nei primi anni Sessanta sperimentarono davvero qualcosa di eccezionale rispetto all’esperienza femminile tradizionale, ebbero nuove opportunità e un travolgente desiderio di rottura con il mondo dei propri genitori e con la figura materna. Tutto questo si sente anche nei romanzi, nel mio reportage li ho messi in parallelo con le vite reali delle normaliste di quegli anni.
Come si dipana il filo che lega Elsa Morante ed Elena Ferrante?
Un nome di penna che diventa la denominazione di un’opera, per un’autrice che vuole essere presente soltanto nei suoi scritti, è una scelta molto importante. Tra le innumerevoli storie che in tutti questi anni sono nate intorno a Elena Ferrante, e che in questo libro si intrecciano al viaggio nei luoghi dei romanzi, c’è anche quella che fa risalire il nome, per allitterazione, a Elsa Montante. Questa associazione non è l’unica. Ne esiste anche un’altra, meno conosciuta e che il libro esplora: rimanda a Elena Croce, personalità importante per la rinascita culturale dell’Italia post-bellica e figlia di Benedetto Croce, che usava firmare le sue recensioni con lo pseudonimo di don Ferrante. L’associazione prevalente, quella con Elsa Morante, è sempre stata accolta dall’autrice come molto lusinghiera, però non ha mai veramente confermato che questa sia l’origine del nome scelto. Anzi, dalle sue carte, sappiamo che il riferimento a Morante nacque in occasione del primo premio letterario che le fu conferito per L’amore molesto e che, in principio, non era molto consapevole. Penso lo sia diventato nel tempo: lo si ritrova, per esempio, nella particolare, cruda luce che illumina il rapporto madre-figlia o nell’uso spregiudicato e per nulla ovvio della grammatica dei romanzi d’appendice; nell’ultimo libro di Elena Ferrante – La vita bugiarda degli adulti – che sembra alludere a Menzogna e sortilegio anche nel titolo, è molto divertente seguire l’uso parallelo di uno stesso dettaglio, un gioiello con una funzione “stregonesca” molto particolare.
Lei condivide l’identificazione della scrittrice con Anita Raja?
È una delle possibilità verosimili, ma questa non è un’inchiesta per stabilire chi sia, all’anagrafe, l’autrice dell’Amica geniale. Elena Ferrante non è una persona fisica sotto falso nome, è una persona letteraria, un eteronimo, una creazione con una biografia immaginaria e con una storia ormai lunga trent’anni, arricchita nel tempo dalle narrazioni che, come accade nelle leggende, le sono cresciute intorno. Questo libro è un viaggio alle sorgenti di questo mito, una Napoli vitalissima e grande fucina di storie, e insieme un’esplorazione dei racconti intorno al nome. Quanto alla mano che scrive, chi avrà la pazienza di leggere potrà farsi una sua idea. Gli enigmi – come amava dire Elena Croce a proposito del mistero della napoletanità – a volte rivelano una stanza vuota. E lì – in quel vuoto – risiede parte del loro fascino, la bellezza del meccanismo creativo che continua a produrre leggende.
Annamaria Guadagni è una giornalista culturale. Ha lavorato a lungo nell’editoria, scrive sul supplemento letterario del quotidiano “Il Foglio”. Ha curato raccolte di saggi e pubblicato un romanzo, L’ultima notte (1998). Per saperne di più: www.annamariaguadagni.it