
Perché l’università è importante?
In primo luogo perché il minore livello di istruzione della popolazione, e in particolare la scarsa diffusione degli studi universitari, è certamente uno dei fattori che ha ostacolato e ostacola il complessivo sviluppo economico del nostro paese. Quantomeno per mantenere il proprio posizionamento nel quadro internazionale del futuro, all’Italia serviranno nei prossimi lustri molti più laureati. Soprattutto considerando che la percentuale di laureati fra gli occupati italiani è oggi molto inferiore a quella degli altri paesi europei (circa la metà rispetto a Regno Unito, Francia, Spagna); lo stesso accade fra i manager e gli stessi imprenditori. Averli non garantisce di per sé la prosperità futura. È necessario che siano dei “buoni” laureati: con un elevato bagaglio di conoscenze, ma soprattutto con un processo formativo che consenta loro di acquisirne continuamente di nuove. È necessario che essi siano assunti dalle imprese e dalle amministrazioni pubbliche con contratti che garantiscano loro prospettive di impiego e di carriera, con stipendi che premino le loro capacità. Va favorita la loro possibilità di auto-impiego e di avvio di nuove imprese, attraverso lo sviluppo di canali finanziari specializzati e la riduzione degli ostacoli che essi trovano sul loro cammino. Una politica per l’istruzione richiede una buona politica industriale e dell’innovazione per produrre forti risultati economici. La disponibilità di molti buoni laureati è condizione necessaria ma non sufficiente. Ma, appunto, è necessaria. Ed è un investimento profittevole per la collettività. I calcoli dell’OCSE producono risultati indiscutibili: la circostanza che un cittadino italiano arrivi alla laurea invece che fermarsi al diploma determina un beneficio monetario pubblico intorno ai duecentomila dollari, sei volte superiore al costo pubblico dei suoi studi.
L’accesso all’università è, e sarà sempre di più, una opportunità essenziale di realizzazione personale. Specie per chi proviene da famiglie senza rilevanti patrimoni o redditi elevati; per le donne; per chi nasce nelle regioni più deboli. La mobilità intergenerazionale in Italia è bassa: le disparità economiche e sociali si trasmettono molto dai genitori ai figli. La formazione universitaria continua a rappresentare un motore di mobilità: fra i laureati italiani solo tre su dieci hanno almeno un genitore laureato; solo due su dieci a Bari o a Cagliari; ancora meno in Basilicata: sono le percentuali più basse fra tutti i paesi avanzati. Offre la possibilità a chi proviene da condizioni economiche e sociali più modeste di modificare la propria collocazione sociale; di impedire, per quanto possibile, che le caratteristiche delle famiglie e dell’ambiente d’origine determinino lo status economico e sociale. Ci si riesce solo in parte: le probabilità di frequentare l’università resta ad esempio decisamente più alta per chi proviene da famiglie a maggior reddito. Motivo per estendere l’istruzione superiore a fasce più ampie di giovani, specie promuovendo strumenti che rendano concreto il diritto allo studio per chi ha minori possibilità economiche.
Ma l’importanza dell’università non si ferma ai benefici per chi la frequenta. Come la scuola, svolge un ruolo fondamentale per lo sviluppo civile e sociale di un paese. Avere più laureati produce effetti positivi per l’intera collettività. Una popolazione con un maggiore livello di istruzione è in grado di badare meglio alla propria salute: è maggiore la consapevolezza dell’importanza della prevenzione, e del costo di comportamenti a rischio. Questo consente, oltre che un migliore benessere individuale, notevoli risparmi per i sistemi sanitari pubblici. Le tavole di mortalità per livello di istruzione mostrano che mediamente un laureato (maschio) ha una aspettativa di vita di 5,2 anni superiore rispetto ad un italiano con al più la licenza media. L’istruzione produce cittadini più attivi e responsabili, con una maggiore partecipazione alla vita politica e culturale: la presenza di università in una regione è collegata ad un atteggiamento favorevole ai valori democratici dei suoi cittadini. L’innalzamento del livello medio di scolarizzazione della popolazione implica una consistente riduzione della probabilità di commettere reati sia contro la persona che contro il patrimonio; l’istruzione riduce gli incentivi a delinquere perché ne riduce il guadagno aggiuntivo, aumenta le opportunità di socializzazione e rende meno probabili gli effetti imitativi devianti diffusi in comunità deprivate. Anche in Italia, gli ambiti sociali e le aree geografiche in cui è minore il livello di istruzione sono quelli in cui vi è maggiore diffusione della criminalità.
Quali politiche universitarie sono state adottate nel nostro Paese?
L’Italia ha compiuto, a partire dal 2008, una delle scelte che più peseranno sul suo futuro: quella di comprimere e distorcere il proprio sistema universitario pubblico.
Il processo è stato avviato prima delle politiche di austerità e dell’enfasi sulle “riforme strutturali”. Ma dal clima politico-culturale cui si è accennato ha tratto forte alimento. La volontà politica del Ministro Tremonti di colpire finanziariamente le università ha incontrato gli interessi di alcuni atenei a definire un sistema su più livelli di qualità, in cui essi fossero al vertice. Le parole d’ordine neo-liberali, derivate in particolare dall’esperienza del Regno Unito, sono penetrate anche in ambienti del centro-sinistra “moderno”. L’idealizzazione di un centro riformatore, composto da pochi “illuminati”, in grado di assestare una severa punizione alle autonomie e di portare il sistema sulla strada giusta, ha mescolato l’idealizzazione della concorrenza di mercato applicata al sistema universitario con l’esercizio di un forte potere gerarchico.
Il sistema è stato radicalmente trasformato da una valanga di norme. Il Parlamento ha approvato una legge di riforma (la “Gelmini” del 2010) di portata piuttosto ampia, ai tempi del governo Berlusconi. Ma i suoi effetti sono stati amplificati e precisati da un vasto insieme di provvedimenti successivi. Cambiato il governo, non sono mutate per nulla le scelte politiche; anzi un filo coerente si è dipanato attraverso l’azione di esecutivi apparentemente di indirizzo ben diverso: da Berlusconi a Monti, a Letta, con forte slancio con Renzi. Come se questi governi avessero idee identiche sul presente e sul futuro di una istituzione così complessa e articolata come l’università. Come se non ci fossero più differenze sui grandi temi che le politiche universitarie coinvolgono: l’universalismo dei diritti, costi e benefici dei servizi pubblici, lo sviluppo territoriale, gli indirizzi per la ricerca. Condividendo un pensiero unico che ha attraversato tutto il decennio.
Un pensiero che corrisponde a una narrazione sommaria: l’università italiana, come si vede dalle classifiche internazionali, è scadente e i suoi professori non sono promossi per merito; lavorano poco e in modo antiquato: fanno poca ricerca sugli standard internazionali; gli studenti sono troppi, e molti fra di essi sono pigri, “fuori corso” e vogliono studiare sotto casa. Non vale quanto costa allo Stato. È un prodotto dell’Italia del passato, della Prima Repubblica, della spesa pubblica e delle assunzioni facili. Occorre allora praticare la valutazione e premiare il merito; selezionare diversamente i docenti e incentivare gli studenti a muoversi e a frequentare gli atenei migliori; è necessario sostenere i corsi di laurea moderni e utili, legati direttamente al mondo del lavoro. Disboscare la rete delle università; concentrare le risorse finanziarie su alcune, di eccellenza e fare in modo che le altre costino molto meno alla collettività.
Una comunicazione che a strizza l’occhio all’Italia preoccupata dalla crisi e attenta al proprio particolare. “Risparmio”, per tutelare il portafoglio del contribuente; “merito” al posto della spesa pubblica a pioggia del passato, per combattere i corrotti e i fannulloni; indicatori “oggettivi” e tecnici al posto di scelte politiche; la tutela degli interessi dei territori più forti.
L’attuazione di questo pensiero è stato affidata ad una piccola élite: alcuni dei Ministri che si sono succeduti, specie quelli provenienti dalle fila delle università; alcuni dirigenti apicali del Ministero; alcuni consulenti della Presidenza del Consiglio; alcuni docenti chiamati a guidare la nuova Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e della Ricerca, l’Anvur. Come sta avvenendo per altre importanti politiche pubbliche (ad esempio i criteri di finanziamento degli enti locali), l’effettivo potere decisionale è stato di fatto sottratto alle rappresentanze parlamentari e concentrato nelle mani di pochi esperti. Essi, apparentemente, sono immuni dai condizionamenti deteriori della politica, sanno quel che serve al paese, operano in base a criteri oggettivi di efficienza e di merito. In realtà, sono orientati dalle proprie convinzioni politico-ideologiche, in ossequio alle quali costruiscono gli indicatori e le norme: che presentano però sempre come scelte tecniche, mascherandone i criteri di scelta e le conseguenze politiche.
Di quali riforme ha bisogno l’università italiana?
Non si sfugge: serve un investimento pubblico molto più grande sull’università italiana; che ci avvicini progressivamente alla situazione degli altri paesi europei e inverta le tendenze delle politiche degli ultimi anni. Bisogna investire risorse pubbliche molto maggiori in primo luogo sul diritto allo studio, e in generale sui servizi per gli studenti per accrescere progressivamente i tassi di passaggio dalle superiori all’università, specie per i ragazzi e le ragazze di estrazione sociale più modesta e provenienti dai territori più deboli; per accompagnarli meglio nel loro percorso di studio, abbattere gli abbandoni e aumentare così il livello complessivo di istruzione. È necessario ricondurre la tassazione universitaria ad una funzione ancillare rispetto al finanziamento statale, ben delimitata e governata da principi condivisi: tetti invalicabili rispetto al finanziamento pubblico e interventi di esenzione validi per l’intero paese. Porsi questi obiettivi significa anche investire sulle città: intervenire sulla qualità della vita urbana, sui trasporti, sulla produzione e fruizione di cultura per i ragazzi. Investimenti proficui: città con più studenti non sono solo più vive e più belle: ma sono anche incubatori di idee, progetti, imprese.
In secondo luogo l’investimento va mirato sui giovani studiosi: umiliati, vilipesi, tenuti al margine, spinti a fuggire. La politica degli ultimi anni ha chiuso le porte agli atenei e li ha resi un mondo sempre più anziano. È necessario un grande investimento per immettere progressivamente nelle università una nuova leva di studiosi, dare certezze a chi è precario, offrire una chance a chi è all’estero e accoglienza a giovani stranieri. Attraverso processi selettivi trasparenti, non bizantini né particolaristici; in cui siano valutate complessivamente capacità e conoscenze, abilità nell’insegnamento e qualità dei percorsi di ricerca dei candidati e non solo applicati algoritmi tanto complicati quanto distorsivi. Non servono regole dettagliate calate dell’alto: ma pochi principi e direttivi e una grande trasparenza. Un tema, quello del reclutamento, decisivo per ricreare fiducia nelle università e sulle università; e per renderle, grazie ad una nuova grande e qualificate leva di studiosi, un’infrastruttura culturale e scientifica di qualità sempre maggiore.
L’investimento va fatto in tutto il paese. Anche in questo campo l’Italia deve guardare con attenzione molto più al modello tedesco che alle sirene del neoliberismo anglosassone. Un paese forte ha un sistema universitario diffuso e di buona qualità, presente sui territori, ricco di opportunità di collaborazione e con un’ampia mobilità, in tutte le direzioni, di docenti e ricercatori. Fra i frutti più avvelenati delle politiche degli ultimi anni vi sono certamente la grande incertezza della disponibilità di risorse, con la conseguente impossibilità di programmare; una sotterranea guerra fra sedi per spartirsi qualche briciola del finanziamento; l’attenzione al proprio particolare perdendo di vista l’interessa generale e del paese.
Per raggiungere questo obiettivo, il sistema di finanziamento va semplificato e reso stabile. Il fondo di finanziamento ordinario potrebbe essere integralmente costruito sul costo standard, così come opportunamente, recentemente, riformulato dal Parlamento. Individuando così le risorse per ogni ateneo; e nella loro somma il fabbisogno complessivo di base del sistema da soddisfare. Meccanismo che, essendo parametrato al numero di studenti, stimola non poco le università a disegnare offerta formativa e servizi sempre migliori. La cosiddetta quota premiale, con i suoi meccanismi discrezionali e distorsivi andrebbe semplicemente abolita. Si dovrebbe saggiamente riconoscere di aver realizzato una lunga sperimentazione, ma con esiti molto negativi, e cambiare verso introducendo nel sistema altri schemi e meccanismi di governo, di incentivo e di premio per il miglioramento della qualità.
Gianfranco Viesti è Professore Ordinario di Economia Applicata presso l’Università degli studi di Bari Aldo Moro