“La laurea negata. Le politiche contro l’istruzione universitaria” di Gianfranco Viesti

Prof. Gianfranco Viesti, Lei è autore del libro La laurea negata. Le politiche contro l’istruzione universitaria edito da Laterza: qual è lo stato dell’università italiana?
La laurea negata. Le politiche contro l'istruzione universitaria, Gianfranco ViestiL’università italiana aveva problemi di quantità e di qualità. Era molto più piccola, in comparazione con gli altri paesi avanzati. Mostrava criticità nel suo funzionamento. Le riforme l’hanno portata in una direzione estremamente discutibile: l’hanno fatta diventare di dimensione inferiore, ma non di migliore qualità. Nel giro di pochi anni l’Italia ha percorso a grandi passi all’indietro il cammino verso un maggiore livello di istruzione superiore della sua popolazione. L’università italiana, per la prima volta nella sua storia, è diventata più piccola: di circa un quinto. La riduzione è stata molto maggiore di quanto non sia avvenuto negli altri comparti dell’intervento pubblico. Né ha paragoni negli altri Paesi colpiti dalla crisi. Va comparato con aumenti anche sensibili registrati altrove, a partire dalla Germania. Il fondo di finanziamento ordinario (FFO) delle università statali è stato ridotto, in termini reali, di oltre il 20%. Per tagliare così tanto la spesa si è ridotto il numero dei docenti (che rappresentano la principale voce di costo delle università) attraverso un prolungato blocco del turnover, cioè del ricambio del personale andato in pensione. I docenti sono diminuiti di quasi quindicimila (e il personale tecnico-amministrativo si è pure notevolmente ridotto). Le porte dell’università sono state chiuse a tutta una leva di giovani ricercatori. Una parte di essi si è dovuta accontentare di posizioni precarie, sottopagate e senza prospettive chiare di carriera. Un’altra parte ha preso la via dell’estero: ha avuto accesso ai sistemi universitari degli altri paesi, soprattutto europei, cui abbiamo regalato un “capitale umano” formato e di qualità. L’età media dei docenti, senza ricambio, è cresciuta molto. Al taglio draconiano delle risorse pubbliche è corrisposto un vistoso aumento della tassazione studentesca, mentre la politica per il diritto allo studio (borse, alloggi, servizi) è rimasta estremamente modesta. Ciò ha acuito le difficoltà economiche delle famiglie; non poche hanno rinunciato all’istruzione universitaria per i propri figli. Anche le immatricolazioni – già molto inferiori a quelle degli altri paesi europei – sono diminuite di circa un quinto rispetto ai livelli massimi del passato. Hanno rinunciato all’università più degli altri i diplomati degli istituti tecnici e professionali; quelli provenienti da famiglie a reddito più modesto; quelli del Mezzogiorno. I tagli non sono stati uguali per tutti: e il sistema, oltre che più piccolo è divenuto molto più differenziato al suo interno. Si sono ridotti molto di più gli insegnamenti di area umanistica. Si è teso a creare una netta suddivisione fra atenei di serie A, relativamente protetti, e atenei di serie B, su cui si sono concentrati i tagli. Si è creato un piccolo gruppo di università di serie A in Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna; il grosso delle università italiane (del Nord “periferico”, del Centro e del Sud continentale) sono state lasciate a languire in una situazione di crescente carenza di risorse; gli atenei di Sicilia e Sardegna sono stati ridotti ai minimi termini. Si è deciso di disinvestire, per la prima volta nella storia unitaria, nella formazione superiore proprio nelle aree del paese in cui i livelli di istruzione sono più bassi (bassissimi in comparazione europea), e il ruolo delle università più importante. Sono state messe in atto una serie di misure che hanno favorito la migrazione degli studenti dal Mezzogiorno verso il resto del paese. Si è provato a mascherare questa scelta dietro una densa cortina di indicatori ed algoritmi, e dietro i ripetuti, onnipresenti, richiami al merito e all’eccellenza. In realtà si è operata una scelta politica esplicita, frutto della convinzione che sia bene concentrare le risorse sulle aree più forti del paese. La vita delle università e degli universitari è venuta sempre più ad essere dominata da un insieme minuzioso di regole e prescrizioni emanate dal Ministero, e, ancor più dall’Anvur. Nata come istituzione deputata ad assistere il Ministero nelle sue scelte, l’Agenzia ha assunto sempre più un ruolo del tutto improprio di decisore politico. Composta da Commissari scelti nominativamente dal Ministro, non rappresenta le diverse componenti del sistema universitario; non si cura di raccogliere e suscitare consenso intorno alle sue decisioni. È depositaria della verità: conosce tutti i problemi, e soprattutto tutte le soluzioni; e le mette in atto attraverso poteri coercitivi. Il sogno del riformatore illiberale: un gruppo di saggi, di “prescelti” che finalmente illumina la via, e costringe un sistema anarchico e irresponsabile a seguirla. In barba al Parlamento e al dibattito pubblico, l’Anvur ha fatto e fa una parte molto importante della politica della ricerca nel nostro paese. Stabilisce cosa è ricerca di qualità e non; quali sono i campi e le metodologie di indagine opportune e quali meno; e a tutto applica rigidi indicatori numerici. Vicende che potrebbero assumere anche connotanti divertenti, nelle loro dimensioni orwelliane, se non stessero plasmando a rigida indicazione di un ristretto numero di sapienti le dimensioni di istituzioni, che dovrebbero godere di autonomia ed essere fucina di saperi critici e confronto di opinioni.

Perché l’università è importante?
In primo luogo perché il minore livello di istruzione della popolazione, e in particolare la scarsa diffusione degli studi universitari, è certamente uno dei fattori che ha ostacolato e ostacola il complessivo sviluppo economico del nostro paese. Quantomeno per mantenere il proprio posizionamento nel quadro internazionale del futuro, all’Italia serviranno nei prossimi lustri molti più laureati. Soprattutto considerando che la percentuale di laureati fra gli occupati italiani è oggi molto inferiore a quella degli altri paesi europei (circa la metà rispetto a Regno Unito, Francia, Spagna); lo stesso accade fra i manager e gli stessi imprenditori. Averli non garantisce di per sé la prosperità futura. È necessario che siano dei “buoni” laureati: con un elevato bagaglio di conoscenze, ma soprattutto con un processo formativo che consenta loro di acquisirne continuamente di nuove. È necessario che essi siano assunti dalle imprese e dalle amministrazioni pubbliche con contratti che garantiscano loro prospettive di impiego e di carriera, con stipendi che premino le loro capacità. Va favorita la loro possibilità di auto-impiego e di avvio di nuove imprese, attraverso lo sviluppo di canali finanziari specializzati e la riduzione degli ostacoli che essi trovano sul loro cammino. Una politica per l’istruzione richiede una buona politica industriale e dell’innovazione per produrre forti risultati economici. La disponibilità di molti buoni laureati è condizione necessaria ma non sufficiente. Ma, appunto, è necessaria. Ed è un investimento profittevole per la collettività. I calcoli dell’OCSE producono risultati indiscutibili: la circostanza che un cittadino italiano arrivi alla laurea invece che fermarsi al diploma determina un beneficio monetario pubblico intorno ai duecentomila dollari, sei volte superiore al costo pubblico dei suoi studi.

L’accesso all’università è, e sarà sempre di più, una opportunità essenziale di realizzazione personale. Specie per chi proviene da famiglie senza rilevanti patrimoni o redditi elevati; per le donne; per chi nasce nelle regioni più deboli. La mobilità intergenerazionale in Italia è bassa: le disparità economiche e sociali si trasmettono molto dai genitori ai figli. La formazione universitaria continua a rappresentare un motore di mobilità: fra i laureati italiani solo tre su dieci hanno almeno un genitore laureato; solo due su dieci a Bari o a Cagliari; ancora meno in Basilicata: sono le percentuali più basse fra tutti i paesi avanzati. Offre la possibilità a chi proviene da condizioni economiche e sociali più modeste di modificare la propria collocazione sociale; di impedire, per quanto possibile, che le caratteristiche delle famiglie e dell’ambiente d’origine determinino lo status economico e sociale. Ci si riesce solo in parte: le probabilità di frequentare l’università resta ad esempio decisamente più alta per chi proviene da famiglie a maggior reddito. Motivo per estendere l’istruzione superiore a fasce più ampie di giovani, specie promuovendo strumenti che rendano concreto il diritto allo studio per chi ha minori possibilità economiche.

Ma l’importanza dell’università non si ferma ai benefici per chi la frequenta. Come la scuola, svolge un ruolo fondamentale per lo sviluppo civile e sociale di un paese. Avere più laureati produce effetti positivi per l’intera collettività. Una popolazione con un maggiore livello di istruzione è in grado di badare meglio alla propria salute: è maggiore la consapevolezza dell’importanza della prevenzione, e del costo di comportamenti a rischio. Questo consente, oltre che un migliore benessere individuale, notevoli risparmi per i sistemi sanitari pubblici. Le tavole di mortalità per livello di istruzione mostrano che mediamente un laureato (maschio) ha una aspettativa di vita di 5,2 anni superiore rispetto ad un italiano con al più la licenza media. L’istruzione produce cittadini più attivi e responsabili, con una maggiore partecipazione alla vita politica e culturale: la presenza di università in una regione è collegata ad un atteggiamento favorevole ai valori democratici dei suoi cittadini. L’innalzamento del livello medio di scolarizzazione della popolazione implica una consistente riduzione della probabilità di commettere reati sia contro la persona che contro il patrimonio; l’istruzione riduce gli incentivi a delinquere perché ne riduce il guadagno aggiuntivo, aumenta le opportunità di socializzazione e rende meno probabili gli effetti imitativi devianti diffusi in comunità deprivate. Anche in Italia, gli ambiti sociali e le aree geografiche in cui è minore il livello di istruzione sono quelli in cui vi è maggiore diffusione della criminalità.

Quali politiche universitarie sono state adottate nel nostro Paese?
L’Italia ha compiuto, a partire dal 2008, una delle scelte che più peseranno sul suo futuro: quella di comprimere e distorcere il proprio sistema universitario pubblico.
Il processo è stato avviato prima delle politiche di austerità e dell’enfasi sulle “riforme strutturali”. Ma dal clima politico-culturale cui si è accennato ha tratto forte alimento. La volontà politica del Ministro Tremonti di colpire finanziariamente le università ha incontrato gli interessi di alcuni atenei a definire un sistema su più livelli di qualità, in cui essi fossero al vertice. Le parole d’ordine neo-liberali, derivate in particolare dall’esperienza del Regno Unito, sono penetrate anche in ambienti del centro-sinistra “moderno”. L’idealizzazione di un centro riformatore, composto da pochi “illuminati”, in grado di assestare una severa punizione alle autonomie e di portare il sistema sulla strada giusta, ha mescolato l’idealizzazione della concorrenza di mercato applicata al sistema universitario con l’esercizio di un forte potere gerarchico.
Il sistema è stato radicalmente trasformato da una valanga di norme. Il Parlamento ha approvato una legge di riforma (la “Gelmini” del 2010) di portata piuttosto ampia, ai tempi del governo Berlusconi. Ma i suoi effetti sono stati amplificati e precisati da un vasto insieme di provvedimenti successivi. Cambiato il governo, non sono mutate per nulla le scelte politiche; anzi un filo coerente si è dipanato attraverso l’azione di esecutivi apparentemente di indirizzo ben diverso: da Berlusconi a Monti, a Letta, con forte slancio con Renzi. Come se questi governi avessero idee identiche sul presente e sul futuro di una istituzione così complessa e articolata come l’università. Come se non ci fossero più differenze sui grandi temi che le politiche universitarie coinvolgono: l’universalismo dei diritti, costi e benefici dei servizi pubblici, lo sviluppo territoriale, gli indirizzi per la ricerca. Condividendo un pensiero unico che ha attraversato tutto il decennio.

Un pensiero che corrisponde a una narrazione sommaria: l’università italiana, come si vede dalle classifiche internazionali, è scadente e i suoi professori non sono promossi per merito; lavorano poco e in modo antiquato: fanno poca ricerca sugli standard internazionali; gli studenti sono troppi, e molti fra di essi sono pigri, “fuori corso” e vogliono studiare sotto casa. Non vale quanto costa allo Stato. È un prodotto dell’Italia del passato, della Prima Repubblica, della spesa pubblica e delle assunzioni facili. Occorre allora praticare la valutazione e premiare il merito; selezionare diversamente i docenti e incentivare gli studenti a muoversi e a frequentare gli atenei migliori; è necessario sostenere i corsi di laurea moderni e utili, legati direttamente al mondo del lavoro. Disboscare la rete delle università; concentrare le risorse finanziarie su alcune, di eccellenza e fare in modo che le altre costino molto meno alla collettività.
Una comunicazione che a strizza l’occhio all’Italia preoccupata dalla crisi e attenta al proprio particolare. “Risparmio”, per tutelare il portafoglio del contribuente; “merito” al posto della spesa pubblica a pioggia del passato, per combattere i corrotti e i fannulloni; indicatori “oggettivi” e tecnici al posto di scelte politiche; la tutela degli interessi dei territori più forti.
L’attuazione di questo pensiero è stato affidata ad una piccola élite: alcuni dei Ministri che si sono succeduti, specie quelli provenienti dalle fila delle università; alcuni dirigenti apicali del Ministero; alcuni consulenti della Presidenza del Consiglio; alcuni docenti chiamati a guidare la nuova Agenzia Nazionale per la Valutazione dell’Università e della Ricerca, l’Anvur. Come sta avvenendo per altre importanti politiche pubbliche (ad esempio i criteri di finanziamento degli enti locali), l’effettivo potere decisionale è stato di fatto sottratto alle rappresentanze parlamentari e concentrato nelle mani di pochi esperti. Essi, apparentemente, sono immuni dai condizionamenti deteriori della politica, sanno quel che serve al paese, operano in base a criteri oggettivi di efficienza e di merito. In realtà, sono orientati dalle proprie convinzioni politico-ideologiche, in ossequio alle quali costruiscono gli indicatori e le norme: che presentano però sempre come scelte tecniche, mascherandone i criteri di scelta e le conseguenze politiche.

Di quali riforme ha bisogno l’università italiana?
Non si sfugge: serve un investimento pubblico molto più grande sull’università italiana; che ci avvicini progressivamente alla situazione degli altri paesi europei e inverta le tendenze delle politiche degli ultimi anni. Bisogna investire risorse pubbliche molto maggiori in primo luogo sul diritto allo studio, e in generale sui servizi per gli studenti per accrescere progressivamente i tassi di passaggio dalle superiori all’università, specie per i ragazzi e le ragazze di estrazione sociale più modesta e provenienti dai territori più deboli; per accompagnarli meglio nel loro percorso di studio, abbattere gli abbandoni e aumentare così il livello complessivo di istruzione. È necessario ricondurre la tassazione universitaria ad una funzione ancillare rispetto al finanziamento statale, ben delimitata e governata da principi condivisi: tetti invalicabili rispetto al finanziamento pubblico e interventi di esenzione validi per l’intero paese. Porsi questi obiettivi significa anche investire sulle città: intervenire sulla qualità della vita urbana, sui trasporti, sulla produzione e fruizione di cultura per i ragazzi. Investimenti proficui: città con più studenti non sono solo più vive e più belle: ma sono anche incubatori di idee, progetti, imprese.
In secondo luogo l’investimento va mirato sui giovani studiosi: umiliati, vilipesi, tenuti al margine, spinti a fuggire. La politica degli ultimi anni ha chiuso le porte agli atenei e li ha resi un mondo sempre più anziano. È necessario un grande investimento per immettere progressivamente nelle università una nuova leva di studiosi, dare certezze a chi è precario, offrire una chance a chi è all’estero e accoglienza a giovani stranieri. Attraverso processi selettivi trasparenti, non bizantini né particolaristici; in cui siano valutate complessivamente capacità e conoscenze, abilità nell’insegnamento e qualità dei percorsi di ricerca dei candidati e non solo applicati algoritmi tanto complicati quanto distorsivi. Non servono regole dettagliate calate dell’alto: ma pochi principi e direttivi e una grande trasparenza. Un tema, quello del reclutamento, decisivo per ricreare fiducia nelle università e sulle università; e per renderle, grazie ad una nuova grande e qualificate leva di studiosi, un’infrastruttura culturale e scientifica di qualità sempre maggiore.
L’investimento va fatto in tutto il paese. Anche in questo campo l’Italia deve guardare con attenzione molto più al modello tedesco che alle sirene del neoliberismo anglosassone. Un paese forte ha un sistema universitario diffuso e di buona qualità, presente sui territori, ricco di opportunità di collaborazione e con un’ampia mobilità, in tutte le direzioni, di docenti e ricercatori. Fra i frutti più avvelenati delle politiche degli ultimi anni vi sono certamente la grande incertezza della disponibilità di risorse, con la conseguente impossibilità di programmare; una sotterranea guerra fra sedi per spartirsi qualche briciola del finanziamento; l’attenzione al proprio particolare perdendo di vista l’interessa generale e del paese.
Per raggiungere questo obiettivo, il sistema di finanziamento va semplificato e reso stabile. Il fondo di finanziamento ordinario potrebbe essere integralmente costruito sul costo standard, così come opportunamente, recentemente, riformulato dal Parlamento. Individuando così le risorse per ogni ateneo; e nella loro somma il fabbisogno complessivo di base del sistema da soddisfare. Meccanismo che, essendo parametrato al numero di studenti, stimola non poco le università a disegnare offerta formativa e servizi sempre migliori. La cosiddetta quota premiale, con i suoi meccanismi discrezionali e distorsivi andrebbe semplicemente abolita. Si dovrebbe saggiamente riconoscere di aver realizzato una lunga sperimentazione, ma con esiti molto negativi, e cambiare verso introducendo nel sistema altri schemi e meccanismi di governo, di incentivo e di premio per il miglioramento della qualità.

Gianfranco Viesti è Professore Ordinario di Economia Applicata presso l’Università degli studi di Bari Aldo Moro

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