
La posizione di Belgrado nei confronti del Territorio libero di Trieste (TLT) variò considerevolmente nei dieci anni di riferimento. Appena l’ipotesi di risolvere il contenzioso confinario con l’Italia attraverso la creazione di uno stato-cuscinetto si affacciò ai lavori preparatori della Conferenza di pace, nel 1946, la reazione jugoslava fu fermamente contraria. Di concerto con la diplomazia sovietica venne proposta un’ampia gamma di soluzioni alternative, senza successo. Il TLT avrebbe infatti significato in prospettiva un ulteriore arretramento in termini di sovranità nella Zona B e permesso agli angloamericani di trattenere le proprie truppe a ridosso del confine per tutto il periodo necessario alla formazione del nuovo Stato – nei fatti, visto che il TLT non venne mai attivato, fino al 1954.
Nel 1948, a seguito della mancata nomina del Governatore e a maggior ragione all’indomani della Dichiarazione tripartita, con la quale le Potenze occidentali promisero la cessione all’Italia di entrambe le Zone, la questione del TLT passò completamente in secondo piano. Il 28 giugno di quell’anno la Jugoslavia venne espulsa dalla famiglia dei Paesi comunisti, ed essendo nell’interesse occidentale «tenere Tito a galla» in funzione antisovietica, nuove manovre attorno a Trieste avrebbero corso il rischio di destabilizzare ulteriormente Belgrado.
La questione del TLT tornò in qualche modo di attualità appena nel 1952-1953. In quel periodo infatti – si tratta di una delle principali novità interpretative apportate dal mio studio – la proposta di attivazione del Territorio libero di Trieste divenne la soluzione per la questione di Trieste preferita dalla Jugoslavia. Era in ogni caso passata molta acqua sotto i ponti rispetto al dopoguerra, e si trattava di un TLT un po’ diverso da quello prospettato dal Trattato di pace.
Quali furono le conseguenze internazionali e locali dell’espulsione della Jugoslavia dal Cominform e come ciò si riflette sulla questione di Trieste?
L’espulsione della Jugoslavia dal Cominform fu uno degli eventi più rilevanti della Guerra fredda, nonché, come ricostruisce l’importante storico croato Tvrtko Jakovina, «uno smacco tale che nel 1950 sarebbe stato annoverato tra i cinque principali fallimenti della CIA», visto che gli americani non l’avevano minimamente prevista. A livello internazionale il dissidio con Mosca spinse progressivamente Belgrado tra le braccia dell’Occidente, e gli angloamericani a sostenere convintamente Tito. Stati Uniti, Gran Bretagna e Francia presero a puntellare il regime di Belgrado attraverso ingenti aiuti sia economici – i quali proventi venivano poi utilizzati per realizzare gli ambiziosi obiettivi di industrializzazione accelerata del Paese – che militari, in modo che l’Esercito popolare jugoslavo, rimasto tecnologicamente fermo al livello del 1945, riuscisse a contrapporsi efficacemente ad un eventuale attacco dell’Unione Sovietica e dei suoi satelliti. Secondo alcuni autori, nel 1952-1953 la collaborazione militare tra la Jugoslavia e l’Occidente aveva raggiunto un livello tale che lo stesso Tito meditava se fosse il caso di aderire alla NATO, in base alla considerazione che «se anche un attacco sovietico aggirasse la Jugoslavia, essa sarebbe comunque costretta a battersi dalla parte dell’Occidente. In caso contrario, si troverebbe in una situazione senza scampo e diventerebbe in breve tempo la vittima successiva dell’aggressione sovietica».
A livello locale invece – nella Zona A – la Risoluzione del 28 giugno 1948 alienò rapidamente le simpatie per la Jugoslavia del proletariato italiano, e perfino di parte della popolazione slovena. Il mito dell’Unione sovietica era fortissimo, e non si deve trascurare – è una mia opinione personale – che le politiche economiche e di rinnovamento sociale apprezzabili a pochi chilometri di distanza, in Jugoslavia, spingessero ad attribuirne gli aspetti sgradevoli non all’ideologia politica ma bensì agli jugoslavi in quanto tali, portando la gente a sperare che il «comunismo» in Unione Sovietica o in altri paesi lontani fosse migliore.
Queste circostanze portarono, come ricordato, al «congelamento» della questione di Trieste. Da un certo punto di vista, sarebbe stato il momento giusto perché l’Italia premesse per una soluzione confinaria favorevole. Non si deve però dimenticare che Roma fosse rimasta recentemente invischiata alla menzionata Dichiarazione tripartita, né il fatto che anche il nostro Paese traesse benefici tangibili dallo sfilamento di Belgrado dalla famiglia dei Paesi comunisti, dal momento che il rischio di un intervento militare sovietico si allontanò dalle frontiere nazionali di circa 200 chilometri in linea d’aria -tanto distava il confine tra Jugoslavia e Ungheria.
Quali vicende condussero all’emanazione, l’8 ottobre 1953, della Nota bipartita?
La Nota bipartita fu fondamentalmente la conseguenza dell’atteggiamento più risoluto adottato rispetto a Trieste dal governo Pella, formatosi nell’estate del 1953 con l’appoggio delle forze politiche di destra dal momento che la DC non raggiunse il premio di maggioranza garantito dalla «legge truffa». Pochi giorni dall’insediamento del nuovo governo, la cattiva traduzione americana di una nota jugoslava con cui si ventila un cambiamento nell’atteggiamento di Belgrado verso la Zona B venne sfruttata come pretesto per inviare truppe al confine, misura prontamente replicata da parte jugoslava. In una situazione in cui la contrapposizione tra Roma e Belgrado era giunta al parossismo, gli angloamericani decisero di riesumare un’ipotesi di soluzione della disputa confinaria ormai vecchia di un anno – la divisione del TLT in corrispondenza delle due Zone ventilata durante la visita del Segretario di Stato inglese Eden in Jugoslavia nel settembre 1952. Per giunta, alla Jugoslavia non venne comunicato che le Potenze occidentali considerassero la soluzione definitiva, il che venne sfruttato dal governo italiano per annunciare di auspicare l’annessione anche della Zona B.
Dopo la morte di Stalin avvenuta da pochi mesi e considerata l’ormai stretta integrazione della Jugoslavia nel sistema difensivo occidentale – nel frattempo era stato infatti sottoscritto il Patto balcanico, una forma di alleanza con Grecia e Turchia che facevano parte della NATO – Belgrado non poteva semplicemente più accettare una soluzione del genere. Da un certo punto di vista l’atteggiamento (soprattutto) degli Stati Uniti fu sorprendente – e i francesi, che erano rimasti all’oscuro di tutto, se ne lamentarono. La spiegazione più plausibile è che l’elezione di Eisenhower a Presidente degli USA nel novembre del 1953 abbia determinato un irrigidimento ideologico, un atteggiamento più rigido nei confronti di Tito che, pur filo occidentale, rimaneva pur sempre un dittatore comunista. Importante fu anche l’influsso dell’Ambasciatrice Luce, che la nuova amministrazione statunitense aveva stanziato a Roma e che ebbe forte ascendente su Washington in un periodo in cui la sede diplomatica riservata agli Stati Uniti a Belgrado era rimasta a lungo vacante.
Quale giudizio storiografico si può trarre riguardo gli obiettivi della diplomazia jugoslava nella gestione della questione di Trieste?
Partendo dalla constatazione che alcuni documenti inequivocabili indicano come a Belgrado nel 1952-1953 l’attivazione del TLT attraverso l’alternanza di governatori italiani e jugoslavi venisse considerata una strategia percorribile, se non quella strettamente preferita, si possono trarre alcune importanti conclusioni sugli schemi di pensiero operanti nei Paesi di orientamento comunista. Non per nulla la soluzione prospettata – una forma di riunificazione del territorio tesa a conservare le strutture amministrative e l’organizzazione politica della Zona B – ricorda da vicino le prime proposte di riunificazione avanzate negli anni Sessanta dalla Corea del Nord. Nella sostanza la cieca fiducia nell’idea che il progresso storico seguisse regole prestabilite e tappe precise – il necessario trionfo di forme di organizzazione socialista e l’imminente collasso del capitalismo sotto la spinta delle sue contraddizioni interne – portava a proporre soluzioni di politica estera che agli occhi dell’Occidente sembravano semplicemente «strane», oltre che irrealizzabili. Riporto un esempio gustoso: quando la proposta del TLT “alla jugoslava” venne avanzata per l’ennesima volta ad Eden durante la menzionata visita del 1952, un diplomatico sloveno si riferì al Sudan per rendere più appetibile la cosa, dal momento che esso veniva amministrato anche dagli inglesi, sebbene la recente Rivoluzione egiziana facesse presagire la fine di quell’esperienza. Per tutta risposta Eden rispose senza mezzi termini – e dando in un certo senso a intendere all’interlocutore di saper leggere tra le righe – che «la cosiddetta amministrazione congiunta anglo-egiziana del Sudan ha funzionato solo perché è congiunta soltanto di nome, mentre nei fatti lo amministrano gli inglesi».
Federico Tenca Montini è assegnista di ricerca presso il Dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Trieste e collabora con l’Istituto Friulano per la Storia del Movimento di Liberazione di Udine e con il Dipartimento di Storia dell’Università di Zagabria. È autore della monografia Fenomenologia di un martirologio mediatico. Le foibe nella rappresentazione pubblica dagli anni Novanta a oggi (Udine, 2014) e di saggi pubblicati in riviste scientifiche peer-reviewed in italiano, croato e inglese.