“La guerra è l’unico pensiero che ci domina tutti. Bambine, bambini, adolescenti nella Grande guerra” di Patrizia Gabrielli

Prof.ssa Patrizia Gabrielli, Lei è autrice del libro La guerra è l’unico pensiero che ci domina tutti. Bambine, bambini, adolescenti nella Grande guerra edito da Rubbettino: in che modo la propaganda bellica negli anni della Grande guerra coinvolse bambini ed adolescenti?
La guerra è l'unico pensiero che ci domina tutti. Bambine, bambini, adolescenti nella Grande guerra, Patrizia GabrielliLa prima guerra mondiale è una guerra totale che segna una profonda cesura con i conflitti bellici del passato: non ci sono diaframmi tra militari e civili: sebbene in modi e forme differenti, tutta la popolazione è coinvolta. Gli uomini, giovanissimi e meno giovani, combattono nelle trincee, anziani, donne di ogni età resistono sul fronte interno. Nessuno è risparmiato, nemmeno bambini e adolescenti, al di là di ogni appartenenza di genere – pur ridisegnando i ruoli, la guerra conferma le tradizionali codificazioni del maschile e del femminile – essi sono rapidamente mobilitati a partire dal 1914 attraverso un ricco apparato retorico che è stata definito “cultura di guerra”. Si mette a punto una macchina capace di produrre un universo entro il quale illustrare, trasmettere, interpretare, mobilitare forze e sentimenti in chiave nazionalista; a tal fine si dispiega un apparato di strumenti atti ad attivare energie materiali ed emotive in favore della patria in guerra. Questa mobilitazione passa attraverso differenti canali e strumenti già abbondantemente collaudati nel secolo precedente: si pensi anche solo alla letteratura per l’infanzia che vede nell’Italia post unitaria la sua affermazione. Nel volgere di pochi mesi l’intervento pubblico di fanciulli e fanciulle, ragazzi e “signorinette” sarà largamente sollecitato da una martellante campagna, alla quale prenderà parte una schiera di scrittori e scrittrici – tra queste ultime merita citare Anna Franchi – che sposerà con passione la causa interventista e indicherà al piccolo pubblico di lettori le scelte da compiere.

Negli anni di guerra, giochi e illustrazioni rappresentano un potente veicolo per la trasmissione e per la codificazione di principi morali ed etici. Riviste e giornalini largamente collaudati, si pensi a “Il corriere dei piccoli”, inducono al sacrifico per la patria, attraverso ad esempio la pratica del risparmio, attraverso la proposizione di piccoli eroi e malvagi nemici, la proposta di personaggi, quali Didì, Schizzo, Italino incarnano il dovere che ogni bambina e bambino italiano devono compiere. Se i personaggi maschili sono dotati di coraggio, e visto che le armi non possono impugnarle, riescono a sconfiggere il nemico con l’intelligenza e l’astuzia, Didì, l’unico personaggio femminile de ‟Il Corriere dei Piccoli”, pur entrando nello spazio della «guerra guerreggiata» sessualizzato al maschile, presenta più di una fragilità e il suo amor di patria resta ben altro rispetto a quello manifestato da Schizzo o Italiano. La guerra domina le pagine di giornali e riviste, romanzi e racconti e i personaggi narrati incarnano la volontà d intervenire con ogni mezzo a favore della patria in guerra, assegnando a bambini e bambine il sostegno del fronte interno ma secondo compiti ben distinti che richiamano ancora per molti versi la tradizionale divisione di genere.

Anche il “mondo dei balocchi” subisce cambiamenti: si producono nuovi modelli di soldatini in divisa, camion, carri armati. Nuovi oggetti, dunque, vengono immessi negli spazi ludici al fine di avvicinare i bambini al mondo della guerra ma non ne restano escluse le bambine. Il giocattolo considerato loro più adatto sono le bambole che veicolano un nuovo canone estetico di “bellezza italica”. Si criticano pertanto le bambole prodotte a Norimberga, vera eccellenza del mercato tedesco e bene prezioso per le bambine, pure italiane, che possono stringerle al petto, ma presto quelle bambole bionde, riproduzione in miniatura della tipica bellezza nordica, vengono stigmatizzate ad esse si contrappone bambole di marca italiana capaci di rispondere a quell’insieme di virtù fisiche che componevano il canone della “bella italiana” largamente sponsorizzato dai concorsi di bellezza e simbolo dell’identità nazionale.

Il principale canale di veicolazione della cultura di guerra è certamente la scuola dove gli alunni di ogni grado sono coinvolti attraverso materiali didattici idonei, la lettura del bollettino di guerra, la partecipazione ad attività patriottiche, la composizione di temi, recite, raccolte di beni e denaro.

Quale ruolo ebbero bambini e adolescenti nelle rappresentazioni e nelle pratiche della mobilitazione?
L’infanzia è molto presente nella propaganda bellica, non solo nazionale, essa assurge a simbolo della patria ed incarna il suo futuro. Proprio l’immagine del bambino che sventola il tricolore, della bambina che aspetta fiduciosa il padre, di piccoli al tavolo intenti a scrivere parole di incoraggiamento e d’amore per i propri cari in trincea colpiscono le emozioni e danno la misura della necessità di impegnarsi senza tregua anche per difendere quei piccoli connazionali tanto coraggiosi, già maturi e futura promessa per l’esistenza stessa della nazione.

Se la scuola, le attività ludiche e ricreative educano alla mobilitazione attraverso le storie di piccoli o giovani personaggi da emulare, nella quotidianità degli anni di guerra sono i bambini e le bambine “reali” a prendere parte attiva a iniziative di vario tipo. Le bambine e le fanciulle imitano le adulte ed anche per loro fare la calza si traduce in partecipazione materiale ed emotiva nel quadro di un apparato retorico ben definito e in alcuni casi sono orgogliose del lavoro compiuto.. A scuola esse lavorano a maglia ma quel tradizionale impiego femminile, da sempre accompagnato alle confidenze tra donne e a qualche pettegolezzo, può avere come sottofondo i commoventi racconti della maestra sulle sofferenze dei soldati Gli stessi docenti promuovono iniziative che vanno dalle raccolte alle forme di assistenza, così come attività che richiedono l’esposizione pubblica dei partecipanti, ovvero degli alunni e delle alunne. È il caso di recite, cori, picchetti d’onore di bambini per i soldati defunti, visite ai cimiteri per rendere onore ai combattenti e celebrare la nazione. La partecipazione a questi eventi è fonte d’orgoglio, rafforza le identità dei singoli e infonde fiducia, egregiamente lo annota nel suo diario Salvatore Pisanello, un ragazzo pugliese che vive lontano dalla famiglia in un collegio in Umbria. Alle conferenze, recite e manifestazioni teatrali di stampo patriottico cui fanno riferimento altri diaristi, si aggiungono gli esercizi militari, che egli svolge con entusiasmo: un entusiasmo che gli farà coltivare il “sogno” di partire volontario. Ma se i ragazzi ambiscono a fare i soldati e combattere armi in mano i nemici, le giovani realizzano il proprio “sogno” di rendersi utili alla patria, entrando nella Croce Rossa. Esse vogliono incarnare l’amorevole figura dell’infermiera, indicata come esempio di donna moderna, all’altezza dei tempi. Vera e propria protagonista essa affianca alla galleria di soldati coraggiosi e altruisti, ai quali fanno da contraltare nemici feroci, vigliacchi, prepotenti, secondo un cliché funzionale all’affermazione del principio di una guerra necessaria e giusta per sconfiggere la barbarie.

Quali effetti produsse la “cultura di guerra” nella sfera pubblica e privata?
La guerra è disordine, separazione e tristi addii, è la maturazione di una coscienza sulla morte: «si cominciavano a contare i morti» scrive una bambina di poco più di dieci anni.

Donne senza uomini, bambini e adolescenti senza padri sono calati in una quotidianità sconvolta da partenze e separazioni; da ansiose attese di licenze e di corrispondenza. Essi entrano in contatto con malattie, ferimenti, mutilazioni; la morte sulla quale avevano speso versi e pagine di letteratura poeti e scrittori di diversa notorietà, diviene ora realtà quotidiana che interviene sulla mentalità.. Gli effetti sono profondi e diari, memorie, lettere, di non facile reperimento e nella maggioranza dei casi inediti (molti di quelle citati nel volume sono raccolti presso l’Archivio diaristico nazionale di Pieve santo Stefano) e complessi per quanto concerne le metodologie di analisi, costituiscono fonti privilegiate per esaminare le trasformazioni della vita materiale ed esistenziale dei bambini.

Diari, memorie, autobiografie non raccontano solo la drammatica quotidianità delle separazioni, delle privazioni degli affetti e i tanti tormenti che segnano la vita materiale, lasciano affiorare gli esiti della mobilitazione e le variabili che incidono sul modo di percepire la quotidianità e il proprio ruolo. Ritualità private e pubbliche, politica e sentimenti sono parte integrante della vita dei soggetti coinvolti nel grande evento e le scritture possono contribuire a cogliere la forza pervasiva della martellante propaganda così come le strategie di resistenza attuate di fronte alla tragedia, le manifestazioni di rifiuto o di aperta ribellione. Non sono rare le storie di adolescenti, persino di bambine, spesso sostenute dalla cultura pacifista della famiglia di appartenenza, si ribellano alla guerra; altre storie invece, ci parlano di un forte sentimento interventista. Sono esemplari i due diari, quello dei Giuseppe Salvemini, un ragazzo di diciotto anni che parte volontario e muore dopo aver scoperto la distanza tra al guerra rappresentata e quella reale; l’altro diario è quello di una ragazza di diciassette anni, una giovane di buona famiglia, che inizia a prendere parte alla mobilitazione confezionando con le sue amiche indumenti di lana per i soldati al fronte e nel giro di pochi mesi diventa una fervente nazionalista e firma brevi articoli per la rivista per signorine “Cordelia”.

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